|
27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
|
|
|
19/04/2018
( 4050 letture )
|
"Riff melodici per le nostre esigenze prog"
Ecco la lettera di presentazione che gli Arch Echo, quintetto statunitense formatosi nel 2016, inviano al mondo della musica. Il loro debutto avviene l’anno successivo con l’album omonimo qui recensito. Gli Arch Echo si presentano come una band djent/progressive fusion: basso, doppia chitarra, batteria e tastiere, con forte presenza di queste ultime che compensano l’assenza di voce. Vanno a rimpolpare i nomi del filone già esistente di questa corrente musicale nata nel secondo decennio degli anni 2000, che annovera, tra gli altri, artisti quali Plini, Animals As Leaders, Polyphia, David Maxim Micic, Sithu Aye e Intervals. L’album si inserisce nel panorama djent anche grazie alle chitarre Strandberg, già utilizzate dai colleghi sopra citati e peculiari di questo stile musicale.
Sin dalla prima canzone, Earthshine, emerge chiaramente l’influenza di tale genere dalle chitarre accordate verso il basso che, accompagnate dalle tastiere d’altri tempi, ci proiettano in un’atmosfera magica, quasi fiabesca, come suggerito dalla copertina del disco. I sei minuti della traccia ad un primo ascolto appaiono leggeri e scorrevoli tanto da condurci rapidamente alla seconda canzone, Afterburger, che già dall’incipit ci mostra la bravura di questi cinque giovani e talentuosi musicisti, attraverso continui assoli di chitarra e tastiera. Il ritmo è incalzante e si conclude con un finale decisamente cupo ed oscuro (alla Animals as Leaders di The Madness of Many), in netto contrasto con la prima traccia. Il terzo brano, Hip Dipper, nonostante un breve accenno di pianoforte iniziale, propone subito un motivo più vivace e sincopato, alternando freneticamente i riff di prima e seconda chitarra a quelli di tastiera. Color Wheel è caratterizzata da una linea molto più melodica e meno virtuosa rispetto alle precedenti tracce, sebbene non manchi di tecnica, soprattutto nel finale in cui sembra risuonare il synth dei Dream Theater dell’era Kevin Moore. Mantenendo la stessa impostazione, Bloom trasmette un sentimento di calma e di tranquillità, che ci fa scoprire un altro aspetto della band, altrettanto valido. Al centro della canzone spicca una sezione solista di basso, che sovrasta gli altri strumenti e non si limita più al solo ruolo di sostegno dell’armonia. L’ultima parte del disco, che si apre con Spark, è la più simile allo stile di Plini, con la particolarità delle tastiere, che donano uno stampo caratteristico al lavoro. La sezione conclusiva sfuma dolcemente verso la coppia finale di canzoni, My Heart Sometimes e My Head Sometimes, anch’esse collegate da un intermezzo sperimentale vicino al noise. Dopo aver apprezzato le prime sette , giungiamo all’ultima traccia, climax dell’album, cui dona personalità e un tocco di innovazione, aiutando definirne lo stile. È possibile pertanto ritenerla il fiore all’occhiello.
Nonostante la paura iniziale di trovarsi di fronte al solito cliché progressive/djent, l'impatto è stato positivo, perché, sebbene sia la loro prima fatica in studio, questi cinque ragazzi di Nashville hanno già le idee ben chiare sulla strada da intraprendere e hanno già trovato il loro stile, che può certamente maturare, ma è senza dubbio originale. Il punto forte, che lo rende differente dai vari Plini, Sithu Aye, Owane, Polyphia e Intervals, è l’aggiunta delle tastiere anni '80/'90, molto dream-theateriane, alla base tipica del genere progressive fusion/djent. L'ascolto e l'acquisto del disco sono quindi consigliati a tutti gli amanti dei chitarristi virtuosi, del genere instrumental e del progressive metal, ciascuno dei quali vedrà soddisfatte le proprie aspettative: chi nel basso molto martellante nelle sezioni centrali di alcune canzoni, chi nelle tastiere già ampiamente lodate, chi nell’alternanza frenetica tra le due chitarre, chi nei finali cupi e prettamente djent, chi negli assoli non tutta tecnica ma anche cuore e sentimento. Se volete fare bella figura con i vostri amici, grazie a sonorità particolarmente fresche, innovative e inedite, includete nel vostro repertorio musicale questo album, che nel complesso tiene viva l’attenzione durante tutto l’ascolto, rivelandosi soddisfacente e per nulla banale. Menzione d’onore per il mastering, l’arrangiamento e la produzione del disco, davvero ben riusciti. Inoltre, l'accoglienza di questo primo album è stata talmente buona da consentire agli Arch Echo, a soli due anni dalla nascita, di valicare i confini nazionali e di spingersi in un tour europeo a supporto del venticinquenne australiano Plini Roessler-Holgate che toccherà anche le sponde della nostra penisola. Niente male come esordio!
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
5
|
Peccato. Peccato per i riff triti e ritriti.Peccato per le linee di chitarra già ascoltati e che non mi fanno "menzionare", ma piuttosto non offrono nulla, se non , ovviamente, una eccezionale tecnica esecutiva singalese e d'insieme. Se chiudo gli occhi non riesco a trovare nulla che mi permetta di identificarli con chiarezza e distinzione. Per me Nulla che valga la pena ad eccezione dell'autoproduzione. Jimi TG |
|
|
|
|
|
|
4
|
disco bellissimo, tra le uscite strumentali più interessanti dell'anno passato, per gli appassionati del djent/prog questo è da ascoltare assolutamente. |
|
|
|
|
|
|
3
|
Nel genere è stato uno dei lavori più interessanti dell'anno scorso.
Felice di averlo acquistato, meritano questi ragazzi!
|
|
|
|
|
|
|
2
|
Grazie Alessandro,è davvero un grande onore. l'inizio di una lunga e prolifica collaborazione, spero  |
|
|
|
|
|
|
1
|
Diamo il benvenuto a Roberto con il suo primo scritto! |
|
|
|
|
|
INFORMAZIONI |
 |
 |
|
|
|
Tracklist
|
1. Earthshine 2. Afterburger 3. Hip Dipper 4. Color Wheel 5. Bloom 6. Spark 7. My Head Sometimes 8. My Heart Sometimes
|
|
Line Up
|
Adam Rafowitz (Chitarra) Adam Bentley (Chitarra) Joey Izzo (Tastiere) Joe Calderone (Basso) Richie Martinez (Batteria)
|
|
|
|
RECENSIONI |
 |
|
|
|
|