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Robespierre - Garden of Hell
27/05/2018
( 1342 letture )
All’interno della primissima fase dello sterminato universo targato NWOBHM creatosi negli eighties vi erano presenti gruppi che, per varie ragioni, non sono stati in grado di portare avanti una proposta duratura e si sono di conseguenza sciolti come il ghiaccio esposto al calore estivo. Le ragioni possono essere le più diverse, dalla mancanza di etica del lavoro a quella più banale di agganci giusti nel panorama discografico, dall’instabilità della propria line-up fino ad arrivare a semplice sfortuna, fatto sta che una buona fetta di essi hanno avuto, in questi ultimi anni, la possibilità di “riemergere” dall’abisso e farsi conoscere per lo meno ad un ristrettissimo pubblico di nicchia. Annoveriamo in questa categoria gli inglesi Robespierre -un nome che è tutto un programma- che arrivano quest’oggi al debutto ufficiale con l’LP Garden of Hell; i primi passi degli omonimi dell’Incorruttibile risalgono al 1983 quando registrarono due demo tape fatti circolare unicamente tra i loro contatti personali in quel di Liverpool fino a quando quegli stessi demo non rispuntarono fuori nel 2011 all’interno della compilation Die You Heaten, Die!, prima release ufficiale sotto la Buried by Time and Dust Records. Da lì, altro silenzio fino al suddetto esordio con la Shadow Kingdom Records, etichetta che cura, tra gli altri, i nostrani Death SS. Per loro si tratta di una grande e unica occasione di togliersi uno sfizio non riuscito in giovane età, cioè di consegnare il proprio contributo alla storia ufficiale del metal e pazienza se quella che probabilmente trentacinque anni fa voleva essere una professione si è trasformata in un semplice hobby, dato che la passione resta molto viva e questo è ciò che conta per un musicista. Certo, per l’ascoltatore conta anche il valore intrinseco del lavoro eseguito e qui i nodi iniziano a venire al pettine.

Questo Garden of Hell si presenta né più né meno alla stregua di un omaggio alla vecchia scena di cui i Robespierre fecero parte a loro tempo e, se da una parte può essere valutato positivamente in termini di coerenza ed attitudine, dall’altra non si può fare finta di nulla e tergiversare di fronte alla banalità insita in questa proposta. Come ripetiamo sempre il problema non è l’essere dichiaratamente derivativi, nel 2018 non tutti pretendono prodotti originali e il revivalismo è abbastanza diffuso; il nocciolo della questione riguarda la forma canzone in sé e la capacità di auto-porsi come veicolo di emozioni, di dare un senso al lavoro svolto comprensibile anche dall’esterno. Purtroppo la parola d’ordine del platter sotto analisi è asetticità: l’heavy impastato di tratti doom old school che ci viene propinato dalle prime note è caratterizzato da un encefalogramma lineare privo di sussulti, privo di qualsiasi cosa possa anche solo ricordare il concetto di pathos al che non è impresa facile trovare brani (parzialmente) azzeccati. Dobbiamo ammettere, procedendo con l’ascolto, che qualcos(in)a di buono c’è, a partire dalla motorheadiana Feel the Fire (d’altronde ogni cosa che si ispira a Lemmy avrà incondizionatamente qualche punto a favore) e dal riff della seguente cadenzata The Black Mirror, nel suo incedere doom forse il passaggio migliore dell’album. A proposito dei musicisti coinvolti c’è ben poco da rimproverare giacché le competenze richieste per sfornare un prodotto di qualità sarebbero ben presenti, purtroppo manca l’inventiva e la voglia di “spaccare”. In linea con ciò l’unico appunto va alla voce di David Cooke, la quale contribuisce chiaramente a definire l’essenza del prodotto: è sicuramente intonata e impostata, ricorda vagamente addirittura l’ugola di Bon Scott ma manca totalmente della grinta di un medio cantante rock, figuratevi di quello metal. La produzione è un altro macigno da sopportare, scarna come poche con il suono del basso quasi impossibile da percepire e il sound della sei corde nelle parti ritmiche davvero pessimo. Come si sarà capito, si fa prima ad elencare i brani salvabili, rintracciati solamente sforzandosi di abbassare la soglia della sufficienza come un professore benevolo tenta di fare nei confronti dell’alunno perennemente insufficiente, e aggiungiamo così ai due brani già citati anche Fear e il suo ritornello finalmente coinvolgente e centrato. Il resto di Garden of Hell non ha alcuna ragione di essere qui descritto poiché la litania sarebbe la medesima e racconterebbe di un gruppo probabilmente non emerso nei tempi che furono per un motivo che esula dalla semplice contingenza e che riguarda bensì l’incapacità creativa del medesimo. Non è il primo e non sarà l’ultimo.

Curiosi di sapere i riscontri che riscuoteranno i Robespierre dopo questa uscita, non possiamo consigliare l’acquisto e la fruizione di essa nemmeno al più incallito fan, perché il rischio dello skip forzato è concreto. Non resta che aspettare gli eventuali nuovi passi per sperare in un miglioramento oppure rassegnarci alla conferma di quanto già sentito.



VOTO RECENSORE
50
VOTO LETTORI
67.8 su 5 voti [ VOTA]
duke
Domenica 27 Maggio 2018, 13.50.06
1
no thanks......
INFORMAZIONI
2018
Shadow Kingdom Records
Heavy
Tracklist
1. Punish Oppressors
2. Mare of Steel
3. Dwelling in the Shadows
4. Feel the Fire
5. The Black Mirror
6. Men of Violence
7. Dagon Rises
8. Fear
9. Welcome to the Cult
10. I Am a Flower (In the Garden of Hell)
Line Up
David Cooke (Voce, Chitarra)
Roger Clegg (Basso)
Gordon Logan (Batteria)
 
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