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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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14/11/2018
( 1343 letture )
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Anaal nathrakh, urth vas bethud, dokhjel djenve.
(Mago Merlino, “Formula magica del fare”)
Chi non ha mai letto o sentito pronunciare queste parole, dalla quale hanno tratto (parzialmente) spunto, appunto, anche gli stessi Anaal Nathrakh per denominare la loro creatura malata? Tuttavia, a differenza della notorietà di cui gode la band di V.I.T.R.I.O.L. e Irrumator, ben poco si sapeva di questi Iron Void, le cui origini vanno fatte risalire, addirittura, al 1998. Questa prima parte di carriera non diede i frutti sperati dagli allora quattro componenti: gli Iron Void si sciolsero presto, nel 2000, con un numero di pubblicazioni pari a zero, e per otto anni non si seppe più nulla della formazione di Wakefield. Nel 2008, il mastermind Sealey, unico membro del nucleo originario, del quale faceva parte anche il chitarrista Andy Whittaker (Solstice), riformò la band con il supporto di Steve Wilson alle sei corde e tale Sharif “Diz” Dyson alle pelli. Il primo tassello della loro discografia è stato un live album, intitolato laconicamente Live 2008: cinque inediti, poi convogliati nell’EP del 2010 (Spell of Ruin, pubblicato per Doomanoid Records), e tre cover, tra cui figura uno degli inni doom per antonomasia, la title-track di Born Too Late. 2012: altro cambio nella line-up. Fuori Diz, dentro Damien Park. Con questa formazione i Nostri daranno alle stampe i primi due full-length: Iron Void (2014, Barbarian Wrath) e Doomsday (2015, Doomanoid Records). Con Excalibur e con l’entrata in pianta stabile del nuovo batterista, Richard Maw, i Nostri giungono alla terza fatica discografica, a dieci anni effettivi dal ritorno sulla leggendaria scena doom britannica.
Strano caso di maturazione, quello di questi Iron Void, se consideriamo il loro esiguo bagaglio discografico. Tuttavia, indiscutibilmente puntuali, dato l’appuntamento con il fatidico terzo lavoro in studio. Quindi, quando dare prova della propria esistenza e dei propri mezzi, se non ora? Bravi, ottimo tempismo e obiettivo centrato. Se ascoltiamo in contemporanea il precedente lavoro, Doomsday, e poi questo Excalibur, non verrete biasimati affatto se vi sembrerà di ascoltare due band diverse, con pochi elementi in comune, se non nel riffing, cadenzato e roccioso, trait d’union delle due opere. Spieghiamoci: la seconda fatica discografica era di per sé un lavoro abbastanza canonico, con alcuni buoni spunti, un doom nel quale significativa era l’influenza di Trouble e Cathedral, eccetto in qualche traccia (The Devil’s Daughter su tutte) dove si poteva intravedere il seme epic / heavy, che sarebbe sbocciato in questo Excalibur, prendendo il sopravvento sul resto. In Excalibur la band vira su altre coordinate acustiche, o perlomeno, muta notevolmente la propria proposta. L’andatura media rimane ancorata alla tradizione doom e pure una buona percentuale delle soluzioni (assoli e vibrati) richiamano spesso i numi tutelari della band. Ma, parallelamente a questo fluire di umori oscuri, entrano in gioco questi nuovi elementi che, con uno strato di polvere addosso spessissimo, vero, faranno la fortuna del full-length e, ne siamo sicuri, impossibile che una lacrimuccia non solchi il viso dei “true defenders of heavy metal”, soprattutto per coloro che hanno vissuto in diretta nascita, ascesa e declino (commerciale, precisiamolo) di questo sottogenere. Come si sarà allora dedotto, l’epic della tradizione ottantiana, e pure la NWOBHM, giocano un ruolo fondamentale in Excalibur, al quale donano una certa solarità e personalità che contrastano alla perfezione con la matassa doom. Gli uni e gli altri elementi si bilanciano per tutta la durata dell’album e noteremo sempre, in maniera simmetrica, le due, o tre, scuole rincorrersi e comparire, ad intermittenza. Ed è così che nascono nove brani di puro metallo, proveniente direttamente dagli anni ’80, nostalgico sì, ma suonato con un cuore grande quanto quello di Lancillotto. In Dragon’s Breath risaltano già i tre connotati di cui si parlava sopra ed è uno dei migliori esempi per dare un’idea della proposta dei Nostri: Merlino e il suo “Anaal nathrakh…” lasciano spazio ad un arpeggio di chitarra medievaleggiante, sovrastato poi da chitarre zanzarose traboccanti epic e raffinati, quanto drammatici, intarsi solisti. Un toccasana, un buonissimo elogio al “vecchio”: la colonna sonora della vedetta che osserva dalle mura, nel cuore della notte, la brughiera e l’esercito nemico, immerso nella nebbia, in attesa dell’albeggiare per dare inizio all’assedio. Più ritmata e con una corteccia doom più spessa è la successiva The Coming of a King, anche questa vincente nella soluzione scelta nel ritornello. Lancelot of the Lake si prende la scena con richiami agli Iron Maiden, ma stando ben lontana dal plagio, grazie alle doppie chitarre che strizzano l’occhio anche alla scena extreme power scandinava, intrecci vocali, andamento da battaglia e singhiozzi folk. Difficile trovarlo, un difetto, in questo brano. Con Forbidden Love la temperatura del distorsore comincia a scottare, i bpm rallentano e la tradizione sabbathiana e il quattro corde del frontman prendono il sopravvento, per poi evolversi in una fase solista dell’ascia di Wilson che guarda ancora verso la tradizione metal british ottantiana. Nel cuore del platter riscontriamo probabilmente i due episodi meno riusciti: in Enemy Within, i Nostri macinano riff intrisi del motto dei Trouble per buona parte del brano, per poi decidere a 2.50 di tornare sulle soluzioni precedenti, più melodiche e più rapide: risulta difficile scegliere quale sia il miglior protagonista, E se The Grail Quest risulta il brano più lineare a livello di songwriting, doom in tutto e per tutto, nella seguente A Dream to Some, a Nightmare to Others, in poco più di quattro minuti gli Iron Void ci spiegano con gli strumenti un paio di cose, ovvero la potenza fragorosa che riusciva a sprigionare il metallo dei primordi. Atmosfera nuovamente solenne come le linee vocali, si raggiunge l’apice con la frattura provocata dal riff plasmato a 2.49, scarno, elementare, quanto efficace, che ci sballotta per i momenti successivi a suon di solismi e colpi scanditi sulla gran cassa. La penultima The Death of Arthur si riallaccia all’opener: l’atmosfera si tinge di grigio grazie all’arpeggio folk della sei corde, per poi alternarsi a costanti passaggi doom per tutta la durata del brano, ma sortendo i migliori momenti proprio quando ci troviamo in presenza del lato light della canzone. Avalon, a mo’ di ninna nanna, conclude l’opera con un toccante arpeggio di chitarra acustica. Fine dei giochi, il Re è morto. Tutto tace.
Excalibur è un album che, consapevolmente, nasce già vecchio, come lo è un qualsiasi altro lavoro che riesumi sonorità d’antan. Spetta al recensore di turno e a chi ascolterà Excalibur, capire, in realtà, quanto positiva sia la proposta, nella sua genuinità, degli Iron Void in questa “nuova” veste. Excalibur è un po’ come quei vecchi abiti demodé, rinvenuti nell’armadio dei genitori: stonano con il trend odierno, ma se indossati con classe, fanno sempre la loro figura. E con questa classe, gli Iron Void hanno inciso un lavoro-culto, che troverà apprezzamenti sicuri, tra chi un tempo, questi abiti, era solito indossarli tutti i giorni.
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4
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Si sente l'epic appunto...come detto nella recensione. Ma non mi sento di dargli più di una sufficienza stiracchiata. 65 |
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3
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@lucignolo, @slow: ...e vogliamo parlare della t-shirt di Sad Wings of Destiny? 😉 Son contento vi sia piaciuto e, in futuro, spero di mettere in evidenza altri gruppi che viaggiano su queste sonorità ...un saluto e horns up! |
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2
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100 ai "tre ragazzi",sembrano usciti dalla birreria lo scorpione dei miei tempi (oibò andati),è un album niente male,non ci sento l'effetto nostalgiacopiaincolla,però se dovessi fare un appunto non mi convince la registrazione forse troppo pulitina e perde di potenza,e un pò la voce che non mi convince,ma sono impressioni personali,per il resto è un ottimo voto almeno 80. |
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1
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Mitico, hai usato le mie stesse parole per descriverlo ("nato già vecchio"), c'è feeling
Bel disco sì, anzi me lo riascolto via. Un punto in più perchè mi piacciono i multipli di 5  |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Dragon’s Breath 2. The Coming of a King 3. Lancelot of the Lake 4. Forbidden Love 5. Enemy Within 6. The Grail Quest 7. A Dream to Some, a Nightmare to Others 8. The Death of Arthur 9. Avalon
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Line Up
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Jonathan “Sealey” Seale (Voce, Basso) Steve Wilson (Voce, Chitarre) Richard Maw (Batteria)
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RECENSIONI |
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