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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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05/01/2019
( 1177 letture )
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I live day by day, alone still trying to find my way home I try to heal these wounds I've made trying but can't cause I'm still so afraid
La “ricerca della strada di casa” è un leitmotiv abbastanza insito nel codice genetico dei Seventh Wonder. Non si tratta solo di un'idea applicata a concept interi, come nel caso di The Great Escape o del più metaforico Mercy Falls, ma la ritroviamo anche nella opener del primo album della band svedese. Coincidenze? Forse. Ma è interessante ricercare i punti di contatto tra gli esordi di una band e i suoi episodi più riusciti. In tal senso, i Seventh Wonder sono sempre stati una creatura particolare. Una band dalle potenzialità ai limiti dell'infinito, con un sound orecchiabile e che è rimasta però confinata all'interno di una cerchia ristretta di fan appassionati, quasi in contraddizione con una proposta che, per quanto tecnicamente complessa, faceva della melodia e dei refrain una sua caratteristica vincente. Sembra quasi una presa in giro il fatto che ultimamente i nostri abbiano allargato la fanbase successivamente all'ingresso di Tommy Karevik nei Kamelot, act in cui fa un lavoro fantastico senza però riuscire ad esprimersi con la libertà e la naturalezza tipica dei lavori pubblicati dalla sua band madre.
Ma è il 2005, Karevik sta ancora cantando nei Vindictiv (senza aver pubblicato nulla) e dietro il microfono della band di Stoccolma c'è Andi Kravljača, vocalist svedese di origine bosniaca. I primi otto brani che i Seventh Wonder di allora mettono insieme si mostrano da subito interessanti ma ancora molto collegati ad un'impostazione più power/prog che ad una progressive nel vero senso della parola: ascoltate The Damned per credere. In tal senso è anche l'interpretazione di Andi ad aiutare: la sua è una voce che non solo ha un timbro simile a quello che è l'archetipo del cantate power metal, ma ha anche un modo di creare linee vocali che calca molto quel tipo di approccio. Non è solo questione di estensione utilizzata (ha un buon range acuto), ma anche di scelte in merito alla durata degli acuti o ai momenti in cui sceglie di sporcare leggermente il timbro. Anche la gestione dei refrain è quasi sempre adeguata, e basta ascoltare picchi come quello di The Secret. Nel complesso, è quindi autore di una prova che sfigura solo se confrontata con il mostro sacro che l'ha seguito e che dimostra, pur nel valore del musicista, quanto un simile approccio non sarebbe stato funzionale al sound meno power e più prog delle produzioni successive. Alla sei corde Johan Liefvendahl mostra già il suo stile inconfondibile: riff complessi e variegati monopolizzano molti dei brani, pur dovendo sottostare al dualismo con Andreas Blomqvist, che dà al suo sei corde una dignità pari a quella della chitarra, sia in termini di intensità nell'accompagnamento del riffing e sia nei momenti solisti. Sono loro il cuore pulsante dei Seventh Wonder, anche quando, peccando di inesperienza si lasciano andare talvolta a progressioni soliste (Blinding My Secret) che, pur mostrando già una tecnica sopraffina, non hanno la profondità di quelle che partoriranno negli episodi successivi. Rimane il fatto che dietro a quegli sweep picking esagerati e quei voli rapidi sul range acuto del sei corde ci sono i preludi alle magnifiche prove di Mercy Falls e The Great Escape. E i segnali ci sono già, basti solo ascoltare la conclusiva In the Blink of an Eye, che “strizza l'occhio” alle suite che i nostri costruiranno più avanti, sia per complessità (qui c'è la vera vena prog del disco), che per scelte melodiche. Quest'ultima mostra anche la poliedricità di un tastierista come Andreas Söderin, che si giostra a meraviglia tra parti di pianoforte, archi sintetici e assoli in lead sempre ben intrecciati con quelli di Johan. Lo stesso aggettivo potremmo usarlo per Johnny Sandin, che dietro le pelli fa emergere i suoi pregi proprio quando deve organizzare le partiture più complesse dei momenti prog, mentre suona molto più nella media quando deve tirare avanti la carretta nei momenti più power, che indubbiamente lo limitano nella tessitura delle sue trame.
La produzione dell'opera prima dei Seventh Wonder è più che discreta se consideriamo il contesto di band all'esordio e la “densità” della proposta musicale. Gli strumenti sono tutti chiaramente distinguibili, anche se il mix avrebbe potuto limare qualcosa in più per rendere l'insieme finale meno saturo. C'è una leggera preponderanza in termini di volume della chitarra di Liefvendahl e del basso di Blomqvist (quest'ultimo fulminante quando lavora in un range che valorizza la mediosità del timbro ottenuto), ma nel complesso c'è un certo bilanciamento. Risultano un po' anonimi i suoni delle tastiere di Söderin e anche la resa del drumkit non fa urlare al miracolo, ma nemmeno sfigura rispetto alla media delle produzioni del periodo. Il mastering poteva forse comprimere meno il risultato finale, salvando qualche dinamica, ma nulla che possa rovinare la fruizione dell'album in qualche suo aspetto.
Become è l'inizio di una carriera, con tutti i suoi limiti e senza ancora che fosse presente quel Tommy Karevik che rappresenta a tutt'oggi uno dei punti di forza degli svedesi. C'è però, tra le righe degli otto brani che lo compongono, la dimostrazione delle potenzialità della formazione, l'evidenza delle capacità fuori dal comune di musicisti come Blomqvist o Liefvendahl. Quello che ne risulta è un disco piacevole da ascoltare e che, pur non raggiungendo i livelli dei capolavori successivi, lascia intravedere ben più di una scintilla.
I find I'm looking back to Days gone by To a time before every day Was night
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Day by Day 2. Like Him 3. The Damned 4. Temple in the Storm 5. Blinding My Eyes 6. The Secret 7. What I've Become 8. In the Blink of an Eye
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Line Up
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Andi Kravljača (Voce) Johan Liefvendahl (Chitarra) Andreas Söderin (Tastiere) Andreas Blomqvist (Basso) Johnny Sandin (Batteria)
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