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27/04/25
THE LUMINEERS
UNIPOL FORUM, VIA GIUSEPPE DI VITTORIO 6 - ASSAGO (MI)
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28/09/2020
( 1813 letture )
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Che avventura quella degli americani Hum, band meteora che grazie al singolo radiofonico Stars, divenuto celebre nel 1995, si era guadagnata un posticino tra i nomi che contavano nella scena alternativa anni ’90, grazie ad una sapiente mistura di sonorità a cavallo tra il post-hardcore, lo shoegaze, l’alternative metal di stampo stoner e lo space rock anni ’70. Una proposta non semplice, ma che pescava da tutto ciò che in quegli anni poteva richiamare l’attenzione, perlomeno nel circuito parallelo alla scena mainstream. Almeno un paio di album da ricordare nella loro discografia, tra cui va citato You’d Prefer An Astronaut del ‘95 (il disco che contiene la già citata Stars), nominato spesso da Chino Moreno dei Deftones come un’influenza fondamentale per il sound della sua band, e il seguente Downward Is Heavenward del ’98, accolto ancora meglio dalla critica. Nel momento in cui gli Hum potevano compiere il definitivo salto commerciale, grazie alla possibilità di partecipare alla colonna sonora del film X Files: Fight The Future con una cover di Invisible Sun dei Police, già uno dei loro cavalli di battaglia dal vivo, proprio lo stesso Sting, insieme al musicista reggae Aswad, decise all’ultimo minuto di prendersi l’onere di registrare una propria versione del pezzo in stile giamaicano, facendo di fatto crollare le speranze di successo della band americana. Una serie di situazioni avverse fecero poi dirottare definitivamente la carriera degli Hum, che si sciolsero il 31 dicembre del 2000. I membri della band non sono stati mai con le mani in mano negli anni che seguirono allo scioglimento, ognuno con diversi progetti solisti di media caratura, fra cui i National Skyline del bassista Jeff Dempsey e i Glifted di Tim Lash, ma dopo un’iniziale reunion per un solo concerto nel 2003 gli Hum ricominciarono a suonare sporadicamente in contesti di nicchia, mentre il silenzio calava impietoso sulla loro carriera. Solo nel 2015, in seguito a un breve tour in compagnia dei Failure, la band decise di iniziare a pensare a nuova musica ed ecco che oggi, nel 2020, quasi a sorpresa ci ritroviamo a parlare di album nuovo di zecca partorito da quella stessa band alternative metal dell’Illinois che nel frattempo è divenuta un piccolo culto per appassionati e citata da band come Deafheaven come padri spirituali.
A comporre e suonare su Inlet sono gli stessi quattro membri che hanno firmato gli album più riusciti del gruppo e questo di per sé fornisce un’ottima garanzia sulla bontà del prodotto finale, che sembra essere nato dalle stesse ceneri di quel sound coniato alla fine degli anni ’90 da Matt Talbot e compagni, che maturando non hanno di certo dimenticato le proprie radici, semmai inasprendole maggiormente con atmosfere e armonie di stampo decisamente più cupo e riflessivo rispetto al passato. Di base infatti Inlet è un album shoegaze, che urla a pieni polmoni il proprio amore per band come My Bloody Valentine, Ride e Slowdive grazie a colate laviche di chitarre riverberate che sommergono letteralmente la scena sonora con arpeggi dilatati e melodie sognanti e malinconiche, ma a questa influenza di base si somma invece una sezione ritmica di stampo classicamente stoner rock, quasi al limite col doom, un mix che dà vita a momenti notevoli come The Summoning, che ricrea un ipotetico incontro convivio allucinato tra Yawning Man e Cocteau Twins, impossibile da descrivere a parole. Ancora, Shapeshifter, vera e propria epifania dream pop dove gli American Football flirtano coi primi The Jesus And Mary Chain (quelli di Psychocandy), un vero e proprio orgasmo sonico. La forza e al contempo il limite di Inlet sta tutto qui: otto lunghi brani per circa un’ora di durata, che si muovono sempre e costantemente su tempi medi e dilatati, dove la chitarra è protagonista assoluta e basso e batteria sostengono rocciosi lo sviluppo lento e implacabile delle linee melodiche. La voce di Talbot poi rimane sempre sullo sfondo, con una cadenza narcolettica capace di ipnotizzare l’ascoltatore in pochi minuti. Questo è quanto, le variazioni sul tema sono minime. Dovendo analizzare i singoli brani difficilmente si potrebbero segnalare difetti obiettivi, poiché tutto, dai suoni al missaggio è ben fatto e coerente col genere di riferimento, ma un’ora intera di questa musica ammaliante e allo stesso tempo tellurica ed eterea sicuramente non è per tutti. Un altro aspetto che si può cogliere sia in maniera positiva che negativa è il costante riferimento agli anni ’90: la musica proposta dagli Hum nel 2020 non ha alcuna pretesa di essere innovativa o al passo coi tempi, bensì, come già detto, mira a riprendere il percorso interrotto nel 1998 e in questo ci riesce alla perfezione, soddisfacendo senza dubbio tutti gli ex adolescenti nostalgici di trent’anni fa. Ciò non vuol dire che Inlet non possa far presa sul pubblico rock/metal attuale, anzi: parliamo di un album ottimamente composto e suonato, che pecca solamente di un po’ troppa omogeneità e in certi punti rischia di risultare piatto, laddove invece in altri frangenti riesce a sciogliere letteralmente l’anima dell’ascoltatore.
Un ritorno dunque tanto inaspettato quanto gradito, capace di farci tuffare istantaneamente in sonorità e ricordi che in tanti artisti cercano di richiamare nelle proprie produzioni attuali, senza riuscirci. Gli Hum invece ci riescono alla perfezione, riprendendo quello stile che tanti anni fa aveva portato fortuna alla band e rendendolo più concentrato e riflessivo, con tutto ciò che una mentalità del genere può comportare, come spiegato nelle righe precedenti. Inlet è un album adatto all’autunno e ai momenti più meditabondi delle nostre giornate da ascoltatori, un disco non immediato, ma capace di affascinare se si riesce ad entrare nel suo universo sonoro. Ci auguriamo solamente che gli Hum proseguano in questo nuovo cammino continuando a rimanere fedeli alla propria personalissima linea fatta di musica celestiale e intimamente terrena.
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2
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Ottimo disco, alternative rock + shoegaze. |
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1
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Per rimanere fedele al nome della band...". Hum.. Mi hai proprio incuriosito".. Bella recensione. Bravo |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Waves 2. In the Den 3. Desert Rambler 4. Step into You 5. The Summoning 6. Cloud City 7. Folding 8. Shapeshifter
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Line Up
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Matt Talbot (Voce, Chitarra) Tim Lash (Chitarra) Jeff Dimpsey (Basso) Brian St. Pere (Batteria)
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