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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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( 1865 letture )
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Provenienti dalla zona di San Francisco, popolare meta di turisti internazionali per la sua vivacità culturale ed il suo eclettismo architettonico, i WildeStarr si formano nel 2003, ad opera di Dave Starr (bassista nei Vicious Rumors prima e nei Chastains poi) e London Wilde, cantante con una prevalente esperienza in studio: la coppia pubblica il demo Generation Next nel 2007, guadagnando più di settemila contatti su Myspace ed una presenza costante su diverse stazioni radio in rete. Con il successivo arrivo del batterista Jim Hawthorne, che verrà in seguito sostituito da Josh Foster, la band comincia nel 2008 le registrazioni del primo full-lenght, oggetto di questa recensione.
Le tastiere della biondissima London Wilde introducono con convincente teatralità l’opener Rose in the Dark: il suono di questo gothic-power dalle melodie elementari è compatto e pieno, sinfonico soprattutto nel finale che vede sovrapporsi le trame intessute nel corso del brano. La voce, in particolare, è graffiante e grintosa, quasi schiva nel rifuggire la propria femminilità (come nel caso delle semi-ballad Down of the Sun e Nevermore, che avrebbero entrambe beneficiato di un timbro più femminile ed espressivo), coraggiosa e determinata nell’agguantare le note più alte al pari di un Geoff Tate o di un Rob Halford qualsiasi.
Spiega la cantante: “Non sono mai stata un granché ispirata dalle voci femminili (…), per quanto riguarda me non mi sono mai data un sesso, sono semplicemente cantante! Ricordo che quando abbiamo messo il demo su Myspace molta gente faceva i complimenti per quel bravo ragazzo alla voce, anzi qualcuno pensava addirittura che fosse Dave!”.
Divertiti da una tale ambiguità, prendiamo dunque atto di un avvio non travolgente, ma comunque in grado di traghettare con dignità il nostro interesse sulla successiva Arrival, che dà il titolo all’album. La canzone, funestata da una serie di punteggiature di tastiera di una banalità disarmante, presenta un riffing particolarmente vivace e vario, che raramente trova nelle linee melodiche la giusta complicità per produrre un risultato coerente. Nonostante il numero piuttosto ristretto degli artisti coinvolti nel progetto, si avverte una mancanza di coesione, un inspiegabile dilatarsi delle distanze, una latitanza di quella personalità capace di accollarsi sulle spalle la responsabilità di apportare un briciolo di umanità. Proseguendo con l’ascolto, ci si rende conto che in Arrival nessuno si prende la briga di osare, né di convincere gli altri a seguirne le provocazioni, e quello che si ottiene è inevitabilmente uno sforzo scomposto e caratterizzato da coerenza debole e stili grezzi, in cui la chimica proprio non scatta. Di scintille, inutile dirlo, nemmeno a parlarne. La colpevole mancanza di comunicazione tra linee strumentali, linee vocali ed ascoltatore costituisce l’elemento qualificante di questa esperienza preconfezionata, ed il suo difetto più grande. Il drumming meccanico di Jim Hawthorne non aiuta a ravvivare il focherello, privo com’è di accenti e colori, al punto da suonare al pari di una drum machine, benché ben programmata. Il disco non emoziona né intriga, e nemmeno si può parlare di un incompiuto quando il risultato di un timido coinvolgimento rimane solo all’orizzonte, così lontano da quello che ci è dato di ascoltare. Quello dei WildeStarr è uno sciatto carnevale musicale, un ingenuo carrozzone metal dalle ambizioni frustrate, con tastiere anni ottanta e testi goticheggianti, ed un chitarrista di comprovato talento che, approfittando di ogni anfratto per mettersi in luce, dichiara: “Ho riposto più impegno in questo album di quanto non abbia complessivamente fatto in passato. Penso che i risultati parlino da soli. Questo album è stato un viaggio incredibile per London e me. E’ stato un lavoro pazzesco, ma ce l’abbiamo fatta… e siamo entrambi molto orgogliosi dei risultati e di noi stessi”. Spiace non poter condividere tanto entusiasmo per un incedere macchinoso, un rotolare forzato, un anonimo involucro plastico che accartoccia troppe idee, o forse una sibilante mancanza di esse, mortificando spunti che non passeranno alla storia ma che, se coltivati con semplicità, avrebbero generato un disco più immediato e riconoscibile. Dalla grafica del booklet al dipanarsi della tracklist, la produzione è invece un capolavoro di anonimia, il progetto è generico in tutte le sue sfaccettature, perfettino e privo di sussulti, e come tale fortemente noioso: il lamento scomposto di Touching God e Nevermore sembra ad esempio non voler finire mai, al pari dello screaming stregato di Rise, che nemmeno può contare su un coretto capace di donargli un poco di spessore.
Ci troviamo al cospetto di una musica con la quale non si riesce ad entrare in sintonia, sospesa tra le proprie ambiziose premesse ed un risultato che confonde: il disco è una promessa continuamente tradita, il sudario di Laerte disfatto ogni sera da Penelope, la dimostrazione di una cronica incapacità di agguantare un risultato che come tale sia -almeno- criticabile. Arrival è piuttosto una serie di spunti ed appunti sparsi, all’insegna di accostamenti che sarebbero stati vagamente sperimentali trent’anni fa: è doppia cassa a braccetto con linee vocali deprimenti (culminanti nell’Uooo U Oooo di In This World) e sensazione di generalizzato grigiore, per il quale è impossibile tradursi in quell’organismo pulsante che noi vogliamo chiamare canzone.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Rose in the Dark 2. Arrival 3. Touching God 4. Rise 5. Down of the Sun 6. In This World 7. Generation Next 8. Nevermore 9. Voice in the Silence 10. The Chain
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Line Up
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London Wilde (Voce, tastiere) Dave Starr (Chitarra, basso) Jim Hawthorne (Batteria)
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RECENSIONI |
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