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LEGEND CLUB, VIALE ENRICO FERMI 98 - MILANO

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Sand Aura - Elegy Of The Orient
( 2821 letture )
L’adagio popolare che assegna minute dimensioni al globo terracqueo, a volte, si rivela di profonda saggezza, nemmeno fosse stato elaborato da un sapiente sufi, impegnato in un’ascetica riflessione sul destino comune dell’universo. A poca distanza dall’uscita dell’ultimo capitolo della saga degli Enslaved, Riitiir, che abbracciava il tema della radice condivisa di alcune manifestazioni rituali presenti in differenti culture umane, da un luogo inaspettato, salito alla ribalta delle cronache per la sua instabile (o meglio in perenne evoluzione) situazione socio-politica, l’Egitto, giunge sui nostri schermi una proposta che raccoglie l’eredità della riflessione del rivoluzionario gruppo norvegese, portandola ad un ulteriore perfezionamento. Un intento il quale appare lampante fin dal titolo di una delle composizioni scritte dai Sand Aura per l’album d’esordio, Aljahelia, che tradotto, significa ignoranza, scelta come idolo da abbattere, frantumare, scagliare nel calderone ribollente del passato, per poter riunire l’umanità sotto un unico vessillo: quello della comprensione, dell’armonia nella diversità.

Obbiettivo ambizioso allo stesso modo in cui lo sono le otto tracce che costituiscono l’architettura di Elegy Of The Orient, che accoglie nei suoi cinquanta minuti scarsi di runtime numerose correnti provenienti da influenze musicali apparentemente divergenti. Da un lato ci si imbatte in una mai negata origine progressive, incarnata nelle superbe esecuzioni soliste o nel vivace e dinamico svilupparsi delle tracce, intese come un flusso continuo in cui gli strumenti sono un mezzo attraverso il quale raggiungere una meta non prefissata, anzi dando autorità al fiume di riff sciorinati, assegnando loro il ruolo di guida suprema; accanto a tutto ciò sopravvive e sovente prospera una natura inquieta metallica, di cui la baritonale tonalità growl è un segno innegabile assieme alle muscolose accelerazioni delle sei corde ribassate, quasi in mezzo alle piramidi fosse cresciuta una foresta scandinava. Nel ruolo di paciere nella conferenza di pace tra le due indoli contrapposte si colloca la componente folkloristica, tratta, da definizione, dalla cultura e dalla musica locale. Il lavoro svolto dagli interludi orientali, sognanti e fascinosi al punto di divenire protagonisti-ombra (la voce femminile scuote anche i caratteri più scettici), salda indissolubilmente le altrimenti forze centrifughe, donando unità organica ad un’opera che, al contrario, pagando l’articolazione compositiva composita, rischiava seriamente di deragliare, mutando da ottima prosecutrice della scuola di pensiero dei saggi Ivar e Grutle, a umbratile condannata ad un infinito limbo, schiacciata tra derive intellettuali e echi della brutalità insopprimibile.
L’equilibrio quindi è raggiunto tramite un trattato di limitazione strategica, valido anche nel campo linguistico: le liriche sono egualmente divise tra i due idiomi principali padroneggiati dal gruppo mediorientale: l’inglese, lasciapassare internazionale, e la stupenda lingua dei padri, l’arabo, la cui pronuncia delicata e musicale, si sposa perfettamente con l’intrigante sapore delle scale armoniche dei paesi islamici.
Tuttavia, per garantire il successo su tutta la linea, o, meno ambiziosamente, per portare un disco all’attenzione del pubblico capriccioso e volubile, occorrono dei dardi avvelenati in grado di paralizzare dapprima l’orecchio e poi la mente. I Sand Aura dimostrano d’avere una faretra piuttosto ricca, nemmeno si trattasse d’un pozzo petrolifero iraniano. I dodici minuti della suite The Orphaned Child esplodono elargendo generosamente accattivanti successioni di accordi, i quali sfociano in trascinanti assoli dal gusto settantiano (per avere un’idea i lettori immaginino un gruppo prog inglese la cui passione per l’orientale non abbia pregiudicato le radici rock-blues della proposta) per poi riprendere e tramontare mentre negli auricolari scorrono cori trasognati, percussioni tribali, tastiere voluttuose. Fungendo da colonna vertebrale, essendo piazzato virtualmente in mezzo, il doppio episodio costituisce l’esempio di più rapida assimilazione della concezione eclettica del verbo metal dell’act del Cairo. Nessun punto vuoto è lasciato indietro, sottolineando in tal modo d’aver introiettato la lezione di complessi di fama mondiale come i Pink Floyd (si rammenti il monumentale lavoro di costruzione del fondale di Wright in The Wall), nessun attimo consente all’attesa di trasformarsi in insofferenza verso un cambio di ritmo che mai sembra giungere a compimento. Trame di strumenti a fiato inoltre, seguono le melodie principali, rammentando continuamente la provenienza geografica del combo, il quale a tratti, dicevamo, potrebbe essere addirittura avvicinato a ben altri micro-cosmi artistici. Stesso discorso applicabile alla poderosa The Sheperd’s Elegy, aperta da un atmosferico arpeggio raddoppiato dalla chitarra solista, preludio ad ponte dal flavour wintersuniano (le orchestrazioni si richiamano con sottile frequenza alla perfezione assoluta di Time I), ed alla definitiva rivelazione del riff portante, che, comunque, non abbandona la vena malinconica nemmeno allorché le chitarre si fanno via via più nervose, dando libero sfogo ad un tagliente tremolo picking. Il rapporto ora sbilanciato tra l’oscura bestia ruggente e la placida leonessa progressive è ristabilito con prontezza: ecco arrivare sulle scena un assolo leggermente distorto, sostenuto da una sezione ritmica virtuosa.

Ad una lettura rapida potrebbe sembrare che Elegy Of The Orient non sia un album di agevole comprensione. Non è così. Superato l’ostacolo della miscelazione violenta di spunti eterogenei tramite una prima manciata di ascolti attenti, l’esordio degli egiziani scopre una seconda pelle che non sarebbe un’iperbole definire easy-listening. Come i primi Ensiferum, i quali al focoso spirito accostavano sezione cantabili a squarciagola, i Sand Aura offrono con ritmo regolare coinvolgenti ritornelli o architetture ripetute, con cui far breccia nelle residue resistenze dei fruitori. In ciò sono, immancabilmente, aiutati da una produzione levigata, potente, mostruosamente dedita alla cura delle esigenze d’ogni strumento. Metaforicamente parlando, l’impressione globale suscita la visione di tende broccate, cuscini lussuriosi, palazzi dal bianco reso accecante dal cocente sole del deserto. Niente sbavature, niente imprecisioni, pressoché assenti i momenti nei quali non sia possibile comprendere le diverse parti interpretate dalle due chitarre, dal basso, dagli eventuali altri suoni presenti.

Terminando la presente (lunga) disamina, Elegy Of The Orient rappresenta una piacevolissima scoperta (attesa dal 2007, anno di fondazione del gruppo…sindrome di Maenpaa?) dallo spessore concettuale di sicuro interesse (purtroppo i testi non sono disponibili, ma la band fornisce una prima “chiave di lettura”) capace di affascinare sia i drogati di innovazione e avanguardia, sia coloro i quali sono alla ricerca estenuante di qualità in un panorama, spesso, strangolato dalla pletorica quantità.



VOTO RECENSORE
80
VOTO LETTORI
88.2 su 5 voti [ VOTA]
Edoom
Sabato 22 Marzo 2014, 11.17.15
2
Bell'album, anche se, per il momento, preferisco "Summoning the Bygones" dei Bilocate (formazione giordana dedita più o meno allo stesso genere, solo forse un po' meno folk) uscito lo stesso anno. Dovrò riascoltarlo. Per il momento è di poco sotto l'80 per quanto mi riguarda.
Tutatis
Mercoledì 28 Novembre 2012, 15.45.53
1
non so se il genere mi piace ma sicuramente ben fatto, l'oriental non va molto di moda purtroppo.
INFORMAZIONI
2012
Haarbn Productions
Folk
Tracklist
1. The Sand Aura (From The Land Of Nod)
2. Aljaheila
3. The Orphaned Child Part I (Pilgrimage For His Name)
4. The Orphaned Child Part II (Fountain In The Desert)
5. Fountains Of Moses
6. Ya Sabbya
7. The Sheperd’s Elegy
8. Sidi Abd El-Raheem
Line Up
Shung (guitars)
Mo’men Reda (guitars)
Muhammed Hassany (vocals)
 
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