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LEGEND CLUB, VIALE ENRICO FERMI 98 - MILANO

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Ignite - A War Against You
20/03/2016
( 2255 letture )
Una bella mazzata in faccia, eppure al tempo stesso, un disco molto melodico e piacevole. Non è proprio l’hardcore che ti aspetti, anzi, volendo l’hardcore vero e proprio risiede da un’altra parte. Quello proposto dagli Ignite, band americana di Orange County, è piuttosto un riuscito connubio tra hardcore melodico, rock alternativo e rock stelle e strisce tout court. Una specie di curioso frontale tra Sick of It All e Nickelback. Detto così, sembra orribile e farebbe storcere il naso a più di un appassionato del genere. Eppure, se si va ad ascoltare quanto contenuto in A War Against You, lasciando da parte una visione diciamo “ideologica” e purista del genere, difficilmente si resterà spiacevolmente impressionati dal lavoro dei californiani. D’altra parte, non parliamo di una compagine di novellini allo sbaraglio: la band esiste infatti dal 1993 e A War Against You è il loro settimo album completo, oltre a vari EP e split. Dieci anni sono passati dal precedente Our Darkest Days, un periodo nel quale i membri della band hanno suonato con altri gruppi, a partire dal frontman e uomo simbolo, Zoli Teglas, che ha militato nei più famosi Pennywise, mentre Craig Anderson si è tenuto impegnato con gli Strife, Brian Balchack con gli Into Another e Brett Rasmussen con i Nation Afire. Apparentemente, il tempo per gli Ignite sembrava finito, ma non è andata così. Tutti avevano semplicemente bisogno di staccare per ricaricare le batterie e ritrovarsi per riprendere il percorso una volta che l’ispirazione avesse ritrovato la giusta via.

A War Against You è il risultato di una band matura ed esperta, che sa cosa vuole. Una band che dall’hardcore primigenio porta la rabbia, la voglia di esprimere concetti duri e reali, che affonda le mani nel disagio sociale e non soltanto, che porta il messaggio degli esclusi e dei marginali e basta scorrere la line up per rendersi conto che nessuno dei membri appartiene alla casta WASP dominante negli States. Il fatto che la musica sia maturata assieme a chi la propone va quindi accolto come un fatto inevitabile e foriero anzi di nuova ispirazione e nuova vita e non deve pertanto sorprendere che l’approccio melodico sia diventato preponderante e che anche da un punto di vista musicale, l’approdo sia rivolto anche verso un rock più propriamente detto, rispetto al puro hardcore. Eppure di quella base il gruppo conserva quasi integramente i mezzi espressivi, come si coglie pienamente dall’approccio ritmico e dall’uso delle chitarre, che seppure in due, non indulgono in alcun caso alla vicinanza con l’heavy metal, preferendo sempre soluzioni punk e rock, piuttosto e limitando quasi a zero l’inserimento di assoli. Certo, sentire un disco “hardcore” che inizia con una armonizzazione a cappella di voce probabilmente spiazzerà molti, ma d’altra parte come negare che Begin Again, oltre all’ovvio rimando al ritorno del gruppo dopo tanto tempo, sia anche portatrice di una tematica classicissima per il genere? Come negare poi che Zoli Teglas sia forse il miglior singer in circolazione nel genere, tanto nei momenti di maggior foga, quanto in quelli più propriamente cantati, con una estensione notevolissima e una carica da fuoriclasse assoluto? Allo stesso modo, pur smussando anche da un punto di vista dell’ottima produzione l’impatto classico del genere, risulterebbe difficile negare che la band pesta duro e cattivo quando serve e non lesina riffoni e velocità, pur senza mai dare l’impressione di essere più che in controllo della propria furia esecutiva. Così, quando la melodia irresistibile della titletrack esplode nel refrain corredato dai classici cori punk, è impossibile resistere e la voglia di trovarsi esattamente sotto al palco per urlare le parole al cielo in mezzo ad un pogo furioso diventa irrefrenabile, salvo poi trovarsi di fronte un riff centrale da svitamento violento del collo. Stessa melodia irresistibile con Oh No Not Again e poi gran pezzo da arena rock con Alive, brano tutto carica e voglia di spaccare tutto, mentre si raccontano le difficoltà e i sogni di un migrante che lascia tutto alle spalle in cerca di una nuova vita (ops… ma noi vogliamo che stiano a casa loro, no?) invece di accettare la miseria e la morte. Rise Up mischia splendidamente un inizio quasi vicino al post grunge ad una seconda parte tipicamente punk, con un risultato perfettamente credibile. Where I’m From è la classica dichiarazione d’orgoglio e ancora una volta torna il tema dell’immigrazione e della lotta di chi a partire dall’apprendimento della lingua, fino alla costruzione di una nuova identità, deve ricominciare da zero a fronte di tutti i pregiudizi. Molto significativo in questo senso che la ghost track alla fine del disco sia la stessa canzone, cantata stavolta in magiaro, lingua nazionale di Zoli Teglas e che il disco sia dedicato alla memoria dei padri dei membri della band. Spazio anche per le tematiche ambientaliste in How Is this Progress?, mentre Descend riprende più tipicamente lo spirito punk/hardcore e Work chiude l’album introducendo addirittura una chitarra acustica, per un classico brano hard working class, voce e chitarre, che piacerebbe a Springsteen piuttosto che a Bob Seeger o Brian Adams.

Tredici brani e una ghost track per un totale di quarantacinque minuti quasi esatti, sono un bel ritorno dopo quasi dieci anni di silenzio. Di sicuro per gli Ignite questo costituisce un nuovo inizio e una ritrovata vena compositiva. I rispettivi impegni non hanno esaurito l’amore per la band originaria dei suoi membri e i cinque hanno saputo dare vita ad un disco bello ed ispirato, maturo e completo. Un disco che abbraccia un approccio più mainstream e orientato verso il rock, ma non rinuncia allo spirito originario e anzi ne rivendica con orgoglio l’identità e le tematiche. Il risultato è un riuscito equilibrio, nel quale la voce di Teglas trova un perfetto campo di battaglia per esprimere a pieno le sue potenzialità. Difetti veri il disco non ne ha: gli Ignite sono una band di livello, sanno suonare e il disco pur senza picchi di vera originalità, ha dalla sua un bell’impatto e delle melodie efficaci e ficcanti, una strutturazione dei brani semplice e diretta, ma ricca comunque di soluzioni ritmiche potenti e ben eseguite. Un buon disco, da ascoltare senza pregiudizi, che tra rabbia genuina e talento individuale, fa passare dei buoni momenti e, perché no, si rivela foriero di una profondità e di un realismo che spesso manca a tante altre formazioni.



VOTO RECENSORE
70
VOTO LETTORI
73.5 su 2 voti [ VOTA]
TheSkullBeneathTheSkin
Mercoledì 26 Aprile 2017, 18.26.35
3
Anche io gli preferisco nettamente Our Darkest Days, tuttavia, se qualcuno non conosce la band... ascoltate THIS IS A WAR e, se dopo l'attacco al fulmicotone siete ancora vivi, prestate attenzione al testo. Grandissimi
Malleus
Martedì 22 Marzo 2016, 16.04.10
2
Contando che Our Darkest Days è un capolavoro del genere, io dico che dopo 10 anni di silenzio stampa era auspicabile qualcosa di meglio, sì il 7 ci sta, ma a livello qualitativo è un bel passo indietro..
terror 1967
Domenica 20 Marzo 2016, 13.59.56
1
bellissimo album e Zoli sempre sopra la media. Grandi.
INFORMAZIONI
2016
Century Media
Hardcore
Tracklist
1. Begin Again
2. Nothing Can Stop Me
3. This Is a War
4. Oh No Not Again
5. Alive
6. You Saved Me
7. Rise Up
8. Where I’m From
9. The Suffering
10. How Is this Progress?
11. You Lie
12. Descend
13. Work
Line Up
Zoli Teglas (Voce)
Brian Balchack (Chitarra)
Kevin Kilkenny (Chitarra)
Brett Rasmussen (Basso)
Craig Anderson (Batteria)
 
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