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Bongzilla - Dab City
29/07/2023
( 619 letture )
Dire quanto era attesa la nuova Bongzilla è talmente superfluo che sarebbe come gettarvi fumo negli occhi, vista l’importanza che hanno avuto per il genere i nomi di Michael John "Muleboy" Makela, Jeff "Spanky" Schultz e Michael "Magma" Henry. Anzi, contando l’impronta estremamente personale che hanno dato alla loro visione di stoner, e contando anche che parlano principalmente di droga, è proprio il caso di dire che sono dei "precursori". Difatti, pur partendo come band pesantemente influenzata da capisaldi come Dopethrone, hanno coltivato l’idea di dare un taglio personale al genere. Eccome, se l’hanno coltivata. Consolidato il loro stile, sono riusciti a dare in stampa sette creazioni tra EP e full lenght, fino al tanto atteso ultimo inedito. Sono passati due anni da Weedsconsin, che uscì il 20 aprile, cosi come era successo per l’album di debutto Stash. Non è tanto un caso, essendo che quel giorno intercorre la giornata della cannabis, quindi è abbastanza normale che i nostri decidano in questa data di spedire roba un tanto al chilo. L’album in sè interrompeva un’astinenza lunga, durata ben quindici anni, ma di per sè il loro ritorno aveva saputo colmare il craving lasciato dopo Amerijuanican, tant’è che si prese una sfilza di recensioni positive, anche tra queste pagine. Del predecessore di Dab City quindi abbiamo già parlato, per di più il recensore in questione fa dormire le proprie figlie dentro una bara di legno circondate da candele, quindi si può solo concordare con chi ha gusti così sopraffini e saldi principi. Resta da chiedersi a questo punto se il nuovo carico sarà in grado di bissare il precedente e tenere alta l’asticella degli americani, visto che in questo lasso di tempo avevano la possibilità di poter consegnare sette composizioni all’insegna del verde.

La prima, che è anche la title track, inizia con un discorso breve ma conciso, come si conviene quando si parla di momenti storici e questioni pregne di significato. Dopo di chè si accende la canzone vera e propria e lo fa con un riff barcollante, ripetuto ossessivamente, dando la sensazione di un’onda in grado di stordirci e passarci sopra come niente. Insomma, già dopo qualche secondo siamo già sfatti per terra. Le urla gracidanti di Muleboy sono sempre in primo piano, bene in risalto e si intersecano perfettamente con il marasma sonoro dei nostri, come ci hanno sempre abituato del resto. Dopo di chè giunge il momento di una bella rollata di batteria, e come ben si sa pochi sanno rollare come Magma, che si prende uno spazio di venti secondi netti per la parentesi solista, ma continuerà a dominare la scena anche per i due minuti successivi, durante i quali si ha anche un rallentamento, giusto per rifiatare e prendere un pò d’aria. Oltre al batterista che piazza colpi ben assestati, fa capolino Spanky con una breve parentesi di chitarra. In King of Weed si inizia belli arrembanti, con un riff sempre di Spanky sugli scudi, il quale in questo frangente richiama un po' lo zio Tommy degli esordi con i Sabbath. Verso la fine la voce di Muleboy forse straborda un po' rispetto alla precedente, dove tutto risultava perfettamente bilanciato e in equilibrio, ma il risultato è comunque notevole, con la chitarra a fare il bello ed il cattivo tempo, soprattutto quando decide di dare qualche accellerata e decollare, evitando che il brano resti invischiato nella palude torbida in cui sguazzano per buona parte della durata. Questioni pregne di significato, dicevamo, quando si trattava del discorso che presentava la title track. Rimanendo sempre nell’ambito dei temi importanti, un altro monologo introduce il terzo brano, Cannonball (The Ballad of Burnt Reynolds As Lamented By Dixie Dave Collins), e già dal titolo importante potete presagire che si accavalleranno epicità e riferimenti narrativi a non finire. A maggior ragione se consideriamo che ci troviamo di fronte all’episodio più lungo dell’album, con la mastodotica lunghezza di tredici minuti abbondanti. Qui il tutto si affaccia all’ascoltatore in modo più rallentato, meno su di giri mettiamola così, ma allo stesso tempo l’atmosfera è molto più cupa, quasi macabra, e le acque della palude si fanno più torbide. Il ritmo è decisamente più disteso, sarebbe quasi impalpabile se non fosse per una danza tribale eseguita dal buon Magma, che passa in modalità octopus durante tutta la seconda parte del brano, il quale in realtà verrà archiviato come un episodio onirico e se vogliamo di transizione. Transizione perchè con C.A.R.T.S. si ritorna verso lidi inaugurati dalla title track, solo con riff più roboanti e molto seventies, visto che Spanky con la sei corde snocciola la propria vena blues come non ci fosse un domani, mentre dietro al microfono tornano le urla del frontman. Lo stesso chitarrista si appropinqua ad un’improvvisazione psichedelica verso la fine del brano, incalzato da qualche colpo secco di batteria. Breve ma intensa, se paragonata ai due monolitici pachidermi piazzati in precedenza nella tracklist, e funge da ponte per inaugurare un’altra fase dell’album, dato che Hippie Sticks prosegue sulla falsa riga, dando però ancora maggior risalto alle sfuriate laceranti di Muleboy, mentre sul finire tornano protagonisti i riff rombanti del chitarrista. Diamonds and Flower parte con dei sollevamenti più asciutti e meno paludosi rispetto agli standard a cui siamo abituati, mentre è vero che la struttura segue il consolidato schema, con un intro che lascia presto spazio alle urla laceranti, mai così intense e rabbiose quanto in questo episodio, dopo di chè viene lasciato alle quadrate e secche di batteria che fanno da contorno ai riff del solito Spanky. American Pot invece è una lunga strumentale che conclude l’album, ed in realtà non sarebbe nemmeno giusto dire che nulla aggiunge e nulla toglie alla resa dell’album perchè risulta una parentesi sperimentale, dove le atmosfere si fanno fumose, giustamente, ma rimane comunque ancorata a delle solide basi stoner.

Dab City è il classico album targato Bongzilla, ovvero quello che ci si aspettava di trovare, e non è poco. La band in quasi trent’anni di onorata carriera difatti è sempre rimasta nel proprio campo, senza mai allontanarsi dal seminato, e questo li ha resi garanzia di sicurezza per i loro fan. Tuttavia, in questo frangente i nostri si concedono anche divagazioni estemporanee, che permettono di dare un aspetto variegato al disco, altrimenti il fattore longevità rischiava di fumarselo in poco tempo. La produzione è scarna, senza filtri, in modo che si possa assaporare appieno il suono rotondo e le lacerazioni vocali. I Bongzilla quindi confermano quanto realizzato precedentemente, dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, di essere una band che continua a sfornare prestazioni convincenti senza accusare nessun segno di cedimento. Almeno, questa è l’aria che si respira sulla carta.



VOTO RECENSORE
73
VOTO LETTORI
63 su 1 voti [ VOTA]
Graziano
Sabato 29 Luglio 2023, 18.47.42
1
Green economy!!!☘️
INFORMAZIONI
2023
Heavy Psych Sounds Records
Stoner/Sludge
Tracklist
1. Dab City
2. King of Weed
3. Cannonbong (The Ballad of Burnt Reynolds As Lamented By Dixie Dave Collins)
4. C.A.R.T.S.
5. Hippie Sticks
6. Diamonds and Flower
7. American Pot
Line Up
Michael John "Muleboy" Makela (Voce, Chitarra)
Jeff "Spanky" Schultz (Chitarra)
Michael "Magma" Henry (Batteria)
 
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