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GORGUTS + PSYCROPTIC + DYSRHYTHMIA + NERO DI MARTE - Circolo Colony, Brescia (BS), 06/04/2016
10/04/2016 (2004 letture)
Da quando ho scoperto Obscura nella sua malsana, devastante, spiazzante, crudele, onirica qualità compositiva, ho sempre avuto un sogno: ammirare ed udire dal vivo la creatura di Luc Lemay. Dopo essermi perso l’esibizione di due anni fa, sempre nell’accogliente Circolo Colony, a questo giro non sarei potuto perdermi i Gorguts per nessuna ragione al mondo. Ed è con queste premesse che si parte alla volta di Brescia, per un lungo viaggio che non ci spaventa, anzi, ci carica al massimo in attesa dello show serale. Vuoi per un motivo, piuttosto che per un altro, riusciamo ad arrivare al Colony una mezz’oretta dopo l’apertura porte: il locale è ancora deserto, salvo qualche precoce fan in cerca di autografi, tra cui noi stessi. Basta un’occhiata al banchetto del merchandise per inquadrare subito una figura dai capelli lunghi, brizzolati, un paio d’occhiali ed un sorriso smagliante: Luc Lemay che si occupa personalmente della propria merce, scambiando parole, concedendosi con una naturalezza disarmante ai suoi fan, ridendo, scherzando, facendo foto e video, come se si fosse un gruppo di amici di vecchia data ad una rimpatriata. Tra un autografo alle mie copie di Colored Sands e di Obscura, ed una maglietta, gli chiedo se ci fosse qualche speranza di avere il nuovo EP. La risposta candida del frontman è stata: "Il nuovo EP? Te lo suono tutto, lo facciamo stasera. Per la copia fisica, purtroppo, dovrai aspettare." Qualche secondo per recuperare la mia mascella caduta sul pavimento del Colony all’idea che quei mostri di musicisti potessero riproporre dal vivo l’intero Pleiades Dust, della durata di quasi quaranta minuti, ed è il momento di spostarci verso il palco dove, con un leggero anticipo sulla tabella di marcia, sta per cominciare la band d’apertura.

NERO DI MARTE
Cosa dire di questi ragazzi italiani, scelti dallo stesso Luc Lemay sia per il tour americano di qualche tempo fa, sia come band di apertura per questa cavalcata europea? Il genere proposto è sulfureo, dissonante, avvolgente, aggressivo e ben calibrato e le qualità del quartetto sono ben evincibili sui dischi in studio, in particolare sul secondo Derivae. Ammetto di essere piuttosto curioso di vedere la band bolognese sul palco, da buon estimatore di entrambi i loro dischi e sono davvero felice di confermare la mia ottima opinione su di loro. Certo, il bilanciamento sonoro della loro esibizione non è perfetto, ma il Colony continua a dimostrarsi un locale dall’ottima acustica e, tempo qualche momento d’assestamento, i nostri danno sfoggio ad una buona prestazione. Le chitarre di Sean Worrell e Francesco D’Adamo intessono riff sulfurei, intrecciandosi tra loro, mentre i tempi scanditi da Marco Bolognini mettono in luce una padronanza dello strumento piuttosto esaltante. Buono anche l’apporto di Andrea Burgio al basso, soprattutto nelle sezioni dove i nostri costruiscono un vero e proprio muro sonoro che si abbatte sul pubblico come un’ondata, spedendoci tutti alla deriva. Unica pecca, ma si tratta proprio di voler andare a cercare il pelo nell’uovo, è la prestazione vocale che, probabilmente per i problemi succitati a livello fonico, non si dimostra al livello di quella strumentale. Si tratta comunque di una piccola inezia che non inficia sul risultato finale di questi trenta minuti devastanti, capaci di aprire un concerto di livello assoluto senza temere il diretto confronto con i successori. Bravissimi!

DYSRHYTHMIA
Un rapidissimo cambio di palco ed ecco salire sul palco la band più folle della serata, capitanati da Kevin Hufnagel che abbandona alle cure di Luc Lemay il banchetto del merchandise per andare a sistemare la propria "diavoletto". Ebbene, anche per loro le aspettative erano piuttosto alte, anche se vista la resa su disco e la complessità delle composizioni, un po’ di dubbi sulla riproposizione in sede live c’erano. Ovviamente, sono stati spazzati via dopo due-tre minuti di esibizione. Kevin Hufnagel, nella sua postura da chitarrista nerd con lo strumento ad altezza ascellare, inizia a sciorinare diteggiature intricate, complesse, concentrandosi sull’andamento delle proprie dita. Jeff Eber mette in mostra una qualità di batterista jazz davvero sconcertante, dimenticandosi anche che indossare un paio d’occhiali quando si tengono ritmi impossibili a suon di scapocciate non è proprio consigliabile; con una naturalezza imbarazzante, se li sistema più di una volta, per poi andare a toglierseli senza perdere nemmeno mezzo colpo, durante l’intricatissima partitura dell’opener. E poi si passa a Colin Marston, vera e propria rivelazione della serata: pur conoscendo le sue capacità esternate nei lavori su disco, siamo rimasti stravolti dalla sua capacità esecutiva e dalla potenza sonora del suo sei-corde. Se ci deve essere per forza uno scettro di musicista più tecnico, efficace e sciolto, questo va dritto nelle mani sapienti del bassista, come dimostrerà anche al fianco di Luc Lemay, senza nulla togliere a nessun altro musicista presente. I quaranta minuti di esibizione vengono colmati da musica dissonante, dis-ritmica (come impone il monicker) e complessissima, dove i cambi di tempo e le andature sincopate la fanno da padrone, mettendo in luce un trio sconvolgente. Tra tapping a otto dita sul basso, cambi di ritmo sulle pelli e diteggiature chitarristiche da far accapponare la pelle, ogni brano dei Dysrhythmia sembra fare discorso a sé, zittendo tutti coloro che avevano avuto la malsana idea (tipo il sottoscritto) di dubitare delle loro capacità di riproporre la musica scritta in sede live. Sconvolgenti.

PSYCROPTIC
Altro rapido cambio di palco, smontata la piccola batteria antecedente, ed ecco arrivare gli Psycroptic. Se per i gruppi precedenti le mie aspettative erano alte, dalla band della Tasmania, devo confessarvi, mi aspettavo una mezza delusione, vista soprattutto la probabilità della presenza massiccia di brani più recenti. Alla fine è stato così, con estratti dall’ultimo album omonimo, da The Inherited Repression e da Ob(Servant, a discapito di quei due album di inizio anni ’00 che sono oggettivamente di un altro livello. Eppure, nonostante la scelta di questi brani più recenti ed una malsana, brutta e deprecabile scelta di un utilizzo smodato dei trigger sulla batteria, la prestazione degli australiani è stata molto buona. Il sostituto-frontman Jason Keyser degli Origin si è dimostrato un animale da palcoscenico eccezionale, capace di irretire la folla con il suo continuo movimento, incitando il pubblico a fare headbang, a pogare ed a sentirsi liberi di fare stage-diving (un po’ complicato, vista la presenza non proprio massiccia sotto il palco stesso). Buone anche le prestazioni di Cameron Grant e Joe Haley sugli strumenti a corde, sciorinando riff massicci e travolgenti, seppur molto più lineari e "semplici" rispetto a quanto appena udito. Ma questa è solo una questione di relatività, dettata dall’altissimo tasso tecnico delle altre band presenti. Come già anticipato, la pecca più udibile della prestazione del quartetto è questo smodato utilizzo dei trigger, il cui sound risulterà piuttosto fastidioso e meccanico, soprattutto ai puristi che si sono trovati a paragonarlo con il clamoroso tocco di Jeff Eber prima e di Patrice Hamelin dopo. Nonostante ciò, gli australiani si sono confermati come una realtà solida, capace di intrattenere e di tirar su uno spettacolo piuttosto piacevole per gli appassionati del genere.

SETLIST PSYCROPTIC
1. Cold
2. Carriers of the Plague
3. Forward to Submission
4. The World Discarded
5. Euphorinasia
6. Ob(Servant)
7. Echoes to Come
8. The Sleepers Have Awoken
9. Initiate


GORGUTS
Signori e cavalier che ve adunati
Per odir cose dilettose e nove,
Stati attenti e quïeti, ed ascoltati
La bella istoria che ‘l mio canto muove;
E vedrete i gesti smisurati,
L’alta fatica e le mirabile prove
Che fece il franco Luc con amore,
Della sette corde, vero Imperatore.


Tutti attenti, tutti in fila e tutti in silenzio ad aspettare l’arrivo dell’uomo più atteso della serata. Quel signore non più giovanissimo, ma con quel sorriso da ragazzino che si è dilettato nel scambiare quattro chiacchiere, nel vendere la propria arte e nel conoscere gli avventori del locale, per tutta la serata dietro al banchetto. Quando giunge sul palco e si sistema la pedaliera, iniziano le incitazioni, seppur piuttosto quiete, soddisfatte, come se ci si trovasse al concerto di un caro amico che non si vede l’ora di udire di nuovo. Inutile da dire che, una volta saliti i Gorguts sul palco, tutto il resto è svanito. A dimostrazione che, quando si parla di death metal innovativo e geniale, se si mette sul piatto la creatura di Luc Lemay, non ce n’è per nessuno. L’attacco è riservato a Le Toir Du Monde, opener di Colored Sands, capace di ammaliare con il suo contrasto tra distorsioni dissonanti ed armonici in clean, dimostrando tutta la padronanza dello strumento da parte di Luc Lemay. I suoni sono pressoché perfetti, sia in prima fila, sia di fronte al mixer e riescono a soddisfare anche l’orecchio più critico, permettendo di godersi appieno il muro sonoro costruito dai quattro strumenti, amalgamati ma distinguibili. I virtuosismi, la classe imperitura e la qualità esecutiva sono solo alcuni dei dettagli che spiccano sin da subito, sgorgando dalle casse del Colony con quell’affascinante violenza che, da sempre, accompagna la bestia canadese. Dopo lo stacco su Forgotten Arrows, altro gran pezzo dell’ultima fatica discografica della band, è il momento più emozionante ed atteso del concerto: con un sorriso smagliante, Luc annuncia il pezzo successivo che risponde al nome di Pleiades Dust, suonato nella sua interezza. E qui si apre un vortice malsano, affascinante, cruento e carezzevole di quasi quaranta minuti ininterrotti. Si potrebbe aprire un dibattito, scrivere pagine e pagine di sensazioni ma la verità è una sola: il viaggio in cui ci ha condotto Luc con la sua ultima composizione, è clamoroso. Un delirio continuo, tra dissonanze, ripartenze, stacchi e tecnica a profusione, capace di colpire il pubblico con la violenza di un pugno e, al contempo, con la carezza di una mano gentile. È impossibile descrivere quanto appena udito, in modo convincente, ma se le premesse sono quelle viste in questa lunghissima esibizione dal vivo, il nuovo EP dei Gorguts è destinato a spiccare su tutte le altre produzioni technical death di quest’anno, raggiungendo senza problemi il livello altissimo di Colored Sands. Poi arriva il momento che tutti aspettavano: una discesa tra i meandri infernali di Obscura, da molti ritenuto il vero e proprio apice compositivo dei canadesi e, al contempo, una delle migliori produzioni in ambito metal estremo di sempre. The Carnal State e Nostalgia rispolverano il caro e vecchio Luc in una veste più aggressiva, maligna e devastante, come se lo spirito dell’album lo avesse catturato e condotto su quei lidi composti nel lontano 1998. Nella setlist c’è tempo anche per un salto sulla title track di From Wisdom to Hate, il cui solismo di Chewy è stato ri-arrangiato e proposto con il suo stile da un Kevin Hufnagel in grande spolvero, per poi chiudere con la title-track più attesa. Il riff iniziale in 23/8 è storia, una storia che parla di magie strumentali, di violenza psico-fisica a cui si associa un testo eccelso, sognante, meraviglioso. La chiusura, senza alcun tipo di encore (i Gorguts non hanno bisogno di questi mezzucci per farsi acclamare), corona un concerto meraviglioso, privo di difetti. Da menzione, oltre al già citato Hufnagel, il solito Colin Marston, meno impressionante rispetto alla sua esibizione precedente, ma sempre e comunque una spanna sopra a tutti gli altri musicisti nella sua pulizia esecutiva. Da segnalare anche la prestazione di Patrice Hamelin, pulito, preciso ed elegante nelle difficilissime soluzioni ritmiche imposte dal songwriting di Luc e, soprattutto, capace di dimostrare che, senza quei fastidiosi trigger sulla doppia cassa, la batteria è ancora più devastante e coinvolgente. Au Revoir, Gorguts.

SETLIST GORGUTS
1. Le Toit du Monde

2. Forgotten Arrows

3. Pleiades Dust (Full EP)
4. The Carnal State
5. Nostalgia
6. From Wisdom to Hate
7. Obscura


CONCLUSIONI
Signori miei, cosa possiamo aggiungere a cotanta beltà musicale? Sebbene Roby del Colony non abbia mai e poi mai deluso, portando negli ultimi anni una marea di realtà musicali di livello assoluto nel suo locale, la serata che ha visto i Gorguts come headliner è destinata a rimanere tra i momenti più alti delle esibizioni cui il sottoscritto ha avuto modo di assistere e, quasi certamente, uno dei bill più stratosferici che il locale di Brescia abbia mai offerto al pubblico. Indipendentemente dalle proprie preferenze, nessuna delle band in questione ha deluso le aspettative, regalandoci quasi quattro ore complessive di musica di altissimo livello. Il rispetto certosino degli orari, un bilanciamento sonoro molto buono e la simpatia degli astanti e delle band coinvolte, hanno ulteriormente elevato la riuscita di una serata che già si preannunciava esaltante alla vigilia. Alla fine ci aspettano tre ore di macchina per tornare a casa che, sommate alle quattro e mezza dell’andata (sì, ancora una volta il tom-tom ha fatto strage), non sono poche. Eppure non possiamo esternare neppure una lamentela, dopo aver avuto l’onore e la possibilità di presenziare ad un evento del genere. L’unico consiglio che mi sento di dare agli assenti è quello di andare a vedere la band di Luc Lemay dal vivo almeno una volta nella propria vita. In fin dei conti, se nella nostra webzine abbiamo scelto di non recensire direttamente nessun suo lavoro, lasciando che fosse la musa della musica, Euterpe a raccontarci i suoi dischi, un motivo ci deve essere. A ben pensarci, ad un certo punto mi è sembrato di scorgere tra la folla proprio quella luminosa figura mitologica, in piedi di fronte al palco, ad ammirare il suo pupillo Luc con occhi sognanti. Come tutti noi comuni mortali.



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