|
27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
|
|
SubRosa - More Constant Than The Gods
|
( 4379 letture )
|
Basket, Mormoni & le Olimpiadi Invernali 2002.....
Così, con una delle classiche semplificazioni a cui si ricorre nell’immaginario collettivo per identificare un territorio, viene generalmente definito lo Utah, ma qualcosa sta cambiando, al punto che Salt Lake City ha legittimamente avanzato la sua candidatura a doom-capitale del 2013. Merito dei Subrosa, band che con More Constant than the Gods è giunta al suo terzo full-length, bruciando le tappe di una maturità artistica apparsa fin da subito associata a qualità e originalità, in un panorama come quello dello stoner/sludge spesso vittima di clichè e ripetizioni di canovacci consolidati. Il debutto della band, datato 2008 con l’album Strega, lasciava intuire un destino di affinità coi Kylesa in ottica sludge, ma già col successivo No Help for the Mighty Ones, il gruppo ha scelto di avventurarsi su percorsi non convenzionali, sfruttando in pieno le potenzialità offerte da una line-up fuori dal comune, a partire dalla scelta di puntare sul cantato al femminile e su una coppia di violini che, alla prova dei fatti, non ha nulla da invidiare alle classiche “coppie d’ascia” delle sei corde. Se fosse necessario collocare i Subrosa in uno dei mille rivoli che affluiscono nello sconfinato fiume doom, potremmo probabilmente inserirli in quella corrente “esoterica” non a caso declinata sovente al femminile e popolata di sacerdotesse che, oltre al canto, sul palco officiano un vero e proprio rito live, riferimenti che conducono immediatamente a Jex Thoth o ad Alia O’Brien dei Blood Ceremony. La voce di Rebecca Vernon (originalissima peraltro, col suo timbro caldo, vagamente soul) si pone come centro motore e di raccolta di tutto quello che si scatena intorno, dalle atmosfere magmatiche percorse da lampi improvvisi generati dall’incursione dei violini (Sarah Pendleton e Kim Pack) ai momenti di altrettanto improvvisa rarefazione della tensione, a creare un impasto spettacolare di dolore, desolazione, malinconia e moti di ribellione perfettamente sintetizzati dai testi. Con queste premesse, era inevitabile prevedere tempi più che dilatati nella costruzione dei pezzi, e l’album non tradisce le attese, dipanando oltre un’ora di viaggio per soli sei episodi complessivi, ciascuno con un’individualità unica e definita ma tutti funzionali a scaraventare l’ignaro viandante in un universo senza più coordinate, a fine percorso.
Così l’opening The Usher è una sorta di manifesto artistico della band, con un prolungato intro soft in cui la voce della Vernon si alterna a quella maschile di Jason McFarland, mentre la coppia di violini tratteggia i primi assaggi di inquietudine. Improvviso ma non inatteso, giunge dopo tre minuti lo scoppio da cui prende vita il corpo “nero” del pezzo, che culmina nel finale dove tutti gli strumenti e le voci si uniscono a lanciare il grido straziante “All in all, we end the same”.
Architettonicamente agli antipodi è la successiva Ghosts of a Dead Empire, che parte subito in piena tempesta doom per giungere a un approdo melodico, in cui però si racchiude il j’accuse che ispira il testo (è un brano contro l’usanza delle donne indiane di ricorrere a creme sbiancanti nel nome dell’equazione pelle chiara uguale bellezza, ultima e, appunto, spettrale traccia della dominazione dell’impero britannico nel subcontinente):
“They opened your mouth and they poured in the good of the land Then they claimed and leashed you to their heavenly plan Now the ghosts of a dead empire are written all over your face Along with the failed ruins of their version of eternal grace”
Segue il pezzo probabilmente più easy-listening del lotto, Cosey Mo (ispirato a una novella di Nick Cave), che racconta la storia di una prostituta uccisa dai suoi concittadini investiti da un improvviso e criminale eccesso di zelo religioso. La struttura del brano arriva a concepire un quasi-ritornello che lo rende facilmente riconoscibile, senza che ciò influisca negativamente sulla qualità dell’insieme, elevata oltretutto da uno degli assoli di violino più ispirati dell’album.
Si cambia registro con la successiva Fat of the Ram, che segna l’iniezione nel corpo dell’album di dosi massicce di psichedelia, perfette per tratteggiare gli stati di allucinazione echeggiati dal testo:
“Cities by dead lakes and million miles of barbed wire Come to the altar and lay down your numb consecration Sorrow, desolation There's never shelter for me in the halls of the righteous All preserved corpses and mummified dancers They are all gentlemen They only kill by common consent”
Un brano allo stesso tempo potente e lancinante, che rievoca in diversi passaggi gli spunti migliori dei Cult of Luna, al netto della prova vocale della Vernon, sempre rigorosamente in clean.
Ancora stati di allucinazione filtrati dalla psichedelia nella quinta stazione del viaggio, Affliction, un brano venato di inattesi tratti di marzialità, quasi ad accompagnare la dolorosamente trionfante marcia di quell’ “oscurità nata fuori dal tempo.... che spegne le candele una dopo l’altra”.
La tensione accumulata sembra spegnersi con l’ultima song del lotto, No Safe Harbor, aperta da un lungo intro di pianoforte e flauto che, se riesce ad alleggerire l’atmosfera, non conduce però a un approdo sereno, dato che “the truth is, there is no safe harbor anymore”. C’è ancora spazio, però, per un paio di colpi di scena, da un’improvvisa esplosione quasi Jethrotulliana (ovviamente col filtro della lezione dei Blood Ceremony) a un finale da vette struggenti assolute, grazie ai tocchi orientaleggianti di un dulcimer che accompagna lo sfumare delle chitarre.
In grado di coprire tutte le sfumature del nero, privo di filler a interrompere il flusso della tensione, con un germogliare continuo di soluzioni articolate ma mai pomposamente barocche, More Constant than the Gods ha tutti i titoli per essere considerato una pietra miliare nella carriera di una band ormai avviata a dimorare nel pantheon del doom. In una parola, imperdibile.
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
8
|
Figata, ho ascoltato qualcosina è devo dire che sono micidiali. |
|
|
|
|
|
|
|
|
6
|
Band originale e dischi sempre splendidi,90! |
|
|
|
|
|
|
5
|
Ha già detto tutto Neige93  |
|
|
|
|
|
|
4
|
non so neanche come commentare...! "No help.." lo metto un piccolo gradino sopra per ragioni personali, ma per dire se quello è mille questo è 999. Per fortuna in un certo senso, se no era da chiedersi se davvero avevano poteri soprannaturali! |
|
|
|
|
|
|
3
|
Capolavoro al pari del precedente. Voto 90. |
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
Si è giocato fino alla fine il titolo di miglior album del 2013 insieme a Sunbather dei Deafheaven, e l'ha spuntata di pochissimo. Troppo poco 88. Splendidi. |
|
|
|
|
|
INFORMAZIONI |
 |
 |
|
|
|
Tracklist
|
1. The Usher 2. Ghosts Of A Dead Empire 3. Cosey Mo 4. Fat Of The Ram 5. Affliction 6. No Safe Harbor
|
|
Line Up
|
Rebecca Vernon (Voce, Chitarre) Sarah Pendleton (Voce, Violino) Kim Pack (Voce, Violino) Christian Creek (Basso) Andy Patterson (Batteria)
|
|
|
|
RECENSIONI |
 |
|
|
|
|
|
|