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27/04/25
THE LUMINEERS
UNIPOL FORUM, VIA GIUSEPPE DI VITTORIO 6 - ASSAGO (MI)
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07/09/2016
( 1128 letture )
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Un quarto di secolo… un lasso di tempo già più che consistente se visto con gli occhi della Storia, figuriamoci se ci si pone nell’ottica di una falena, destinata geneticamente ad attraversare solo piccole frazioni di un simile percorso. È su questa dicotomia che sembra giocarsi la scelta del titolo del nuovo album dei 16, Lifespan of a Moth, uscito a sigillare le nozze d’argento del quartetto californiano con le spire più melmosamente malsane dello sludge d’autore. Venticinque anni trascorsi con grande umiltà, onestà e profusione di energia sui palchi di mezzo mondo a esportare il verbo di un genere che nel tempo ha conosciuto più meteore che stelle fisse, in un turbinio di grandi promesse e altrettanto rapide dissoluzioni. E così, se dovessimo riportare la macchina del tempo indietro a quei primi anni Novanta, scopriremmo che, a parte qualche eccezione sempre “fisiologicamente” in campo allorché si cerchi di fissare delle tendenze di fondo (Crowbar, Helmet e Eyehategod su tutti, ovviamente), il resto della pattuglia sludge di allora si è in buona parte disperso o ha finito per solcare nuove prospettive.
Sempre fedeli a se stessi, invece, i 16 hanno attraversato le decadi riproponendo gli stilemi primigeni di una musica che, non dimentichiamolo, porta nel nome l’eco dei fanghi di risulta delle lavorazioni industriali, a tratteggiare paesaggi in cui non c’è posto per aperture bucoliche e dove l’anima finisce per corrodersi piuttosto che smarrirsi o consumarsi. Che lo stato di salute dei Nostri fosse abbondantemente sopra la linea di galleggiamento era stato certificato con dovizia di particolari dall’ultimo Deep Cuts from Dark Clouds, giunto a riscattare qualche caduta di stile di quel Bridges to Burn che per molti ha rappresentato il punto più basso della loro carriera (a parziale giustificazione va detto che, a cavallo della metà del Duemila, erano stati sul punto di sciogliersi definitivamente), dunque ci si aspettava una congrua conferma. E Lifespan of a Moth non tradisce le attese fin dal processo di genesi, a cominciare dall’ennesimo cambio di protagonisti al capitolo basso e batteria (la volatilità della line up in queste due componenti è qualcosa di cronologicamente impressionante), che ha portato nella band Barney Firks e Dion Thurman rispettivamente al posto di Tony Baumeister e Mateo Pinkerton. A garantire la continuità provvede in modo decisivo soprattutto la prova al microfono di Cris Jerue, alle prese col suo solito scream estremo, appuntito e spigoloso, ma capace contemporaneamente di amalgamarsi alla perfezione con il flusso semi-solido delle tempeste scatenate dagli strumenti, in una sorta di inesorabile processo di sprofondamento e riemersione. Quello che, in sostanza, riesce ancora alla perfezione al quartetto è la fusione tra le radici che la letteratura mainstream considera “classiche” dello sludge (cioè una più o meno diretta filiazione da certo stoner e southern rock, filtrando il tutto con un prisma sabbathiano) e i riflessi core perfettamente annidati in una tradizione punk che ancora rivela insospettabili sacche di resistenza nella West Coast. Volendo riassumere il processo per così dire, geograficamente, è come se New Orleans incontrasse Los Angeles e San Diego trovando un punto di sintesi nelle sabbie arroventate di un ipotetico New Mexico sotto cui ribolle la caldera di Yellowstone. Atmosfere malate, disperanti, claustrofobiche si alternano così a improvvisi sussulti che conducono non lontano da approdi thrash, prima che un sarcofago plumbeo si richiuda pesantemente sull’ascoltatore riportandolo all’apnea iniziale. Eppure, sotto l’apparente monoliticità della proposta, qualcosa si muove, sia pure impercettibilmente, e la prova si annida nel minutaggio. Non in quello complessivo, che resta come sempre confinato al di sotto dei quarantacinque minuti, ma in quello dei singoli brani, qui sorprendentemente ridotti di numero e parimenti dilatati fino a varcare in un paio di casi la soglia dei sette minuti. Non è un vezzo artistico, non è un espediente per stupire gli astanti o spacciare processi di rinnovamento in atto, è piuttosto la certificazione dell’acquisita capacità di affrontare le lunghe distanze senza cali di tensione e ponendo un’attenzione più marcata ai processi di rifinitura che vanno inevitabilmente coltivati quando non ci si limiti ad accompagnare in porto le esplosioni di energia. Sull’altro piatto della bilancia, peraltro, è giusto evidenziare una consistente (eccessiva?) “crowbarizzazione” delle trame a scapito delle abrasioni core, con un dilatarsi delle architetture doom che a qualcuno potrà suonare come un relativo deficit in termini di personalità (oltre al fatto che sfidare il quartetto di New Orleans sul proprio terreno è impresa titanicamente disperata).
Per rendere plasticamente l’idea, basta far scorrere le prime due tracce di questo Lifespan of a Moth, laddove i ruggiti marziali di Landloper regalano un’avvincente soluzione tutta giocata su incagli e ripartenze travolgenti, mentre Peaches, Cream and the Placenta si adagia su emulsioni di schiume troppo scolasticamente prevedibili una volta rallentati i giri del motore. Si riprende subito quota con la tormentata The Morphinist, probabilmente il miglior tributo della band alla qualità della propria tradizione, ma la palma di best of del versante core dell’ispirazione spetta probabilmente alla successiva The Absolute Center of a Pitch Black Heart, tutta cavalcate telluriche accompagnate dallo scream di un Jerue mai così disperatamente soffocato. Purtroppo l’operazione decollo subisce un’improvvisa battuta d’arresto con la successiva Gallows Humor, traccia strumentale che riesce sì a edificare consistenti e massicce volte doom, peccato però che queste rimangano sostanzialmente vuote sul versante emozionale, confermando una volta di più che il cuore pulsante della band va cercato altrove, ad esempio nell’intrigante Secrets of the Curmudgeon (dove il basso di Barney Firks dispensa scampoli di gran classe). O forse si può esagerare e puntare sulla perla eretica del lotto, Pastor in a Coma, eccellente caleidoscopio di territori sludge in cui c’è spazio addirittura, in una sorta di “unicum” per gli standard dei 16, per una contenuta incursione atmosferica che adombra suggestioni post metal. Chiusura con più luci che ombre affidata alla dilatata George, in cui, a differenza che in Gallows Humor, la natura anfibia sludge/doom supera i rischi di una fredda cerebralità riuscendo a coinvolgere fino all’ultimo solco.
Pane per denti educati agli azzanni sludge d’antan, fieramente ancorato alle radici di un movimento sulla cui vitalità contemporanea è lecito avanzare qualche dubbio, Lifespan of a Moth è un album che, se pure aggiunge pochi elementi di novità a una carriera ormai consolidata, conferma tutte le qualità già note di una band che ha saputo gestire con intelligenza il volgere dei lustri. Se sono questi i tratti di una senescenza, sono tanti i gruppi a doversi mettere in fila a staccare il biglietto, per prendere esempio e lezione dai 16.
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4
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Il solito lucidissimo Red Rainbow. Sono obbligato ad ascoltarlo |
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3
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@ luca : vai alla grande con la triade ante 2000, poi ci sono pareri discordanti su Bridges to Burn e Deep Cuts (personalmente concordo con le valutazioni delle rece che abbiamo in archivio)...  |
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quali sono gli altri album che mi consigli di questa band? |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Landloper 2. Peaches, Cream and the Placenta 3. The Morphinist 4. The Absolute Center of a Pitch Black Heart 5. Gallows Humor 6. Secrets of the Curmudgeon 7. Pastor in a Coma 8. George
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Line Up
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Cris Jerue (Voce) Bobby Ferry (Voce, Chitarra) Barney Firks (Basso) Dion Thurman (Batteria)
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