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The Hounds of Hasselvander - Ancient Rocks
05/01/2017
( 1310 letture )
Icone rock e inesorabile scorrere del tempo: un rapporto necessariamente complicato? Una contraddizione in termini? Un conflitto latente e potenzialmente devastante? A giudicare dalle traiettorie di molti mostri sacri che hanno attraversato il volgere dei lustri e dei decenni aggrappandosi giurassicamente alle seminali intuizioni degli esordi o, all’opposto, ostentando anacronistiche svolte giovanilistiche, la risposta a simili domande rischia di essere purtroppo affermativa, in troppi casi. Per fortuna però, a confermare per una volta il distillato di saggezza popolare che vuole la presenza di eccezioni che confermino la regola, qualcuno riesce a sottrarsi alle rigide leggi del determinismo che prevede che si possa essere figli o eroi di una sola epoca e regala percorsi in cui coerenza ed onestà brillano come tratti qualitativamente distintivi, al di là dell'incalzare delle stagioni.

A questa non troppo affollata categoria appartiene senz’altro di diritto Joe Hasselvander, che approda alla soglia dei sessant’anni in uno stato di grazia creativa mai in discussione, a dispetto dell’inevitabile assalto ai tratti somatico/tricologici portato dall’eredità del regno di Crono. Noto soprattutto per il lavoro alle pelli dei Raven (per cui immaginiamo si stia preparando una congrua celebrazione, approssimandosi il trentennale dell’ingresso del Nostro nella macchina dei fratelli Gallagher), già nell”altra metà del cielo” della sua carriera, quella coi Pentagram, aveva dato prova di puntare a essere molto di più di un branditore di bacchette assiso a fondo palco, brillando come polistrumentista a tutto tondo in album come Review Your Choices e Sub-Basement (lasciando in entrambi i casi il microfono a Bobby Liebling… a proposito di altre dignitosissime parabole che sfidano il tempo). Forse però, ultimo nato tra i progetti di un musicista a cui evidentemente non ha mai difettato una fecondità multidirezionale, il moniker The Hounds of Hasselvander è stato quello in cui il buon Joe ha riversato con più libertà tutta la sua ispirazione, fin dall’omonimo debut del 2007 e passando per l’eccellente The Ninth Hour, cinque anni dopo. Nemmeno lo (stranamente) ignorato Midnight Howler, probabilmente non un capolavoro ma neanche un prodotto di risulta da cestinare a scatola chiusa, ha oscurato una stella ostinatamente ancorata al cielo sabbathiano, ma che non ha mai ceduto alla tentazione di riflettere sterili devozioni nel nome di un passato da trasfigurare miticamente in età dell’oro.

La conferma che la scintilla dell’estro cova ancora sotto la cenere del tempo si può ritrovare in questo Ancient Rocks, concepito per la verità contemporaneamente a The Ninth Hour e rilasciato a diversi anni di distanza a cura della tricolore Black Widow Records. L’idea forza che si articola nelle dodici tracce, come del resto annunciato dal titolo dell’album, è contemporaneamente ambiziosa ma del pari tutt’altro che estranea a un gusto per le rifiniture dei dettagli, più che per la monumentalità degli impianti. Se, infatti, la scelta di volgere lo sguardo indietro alla grande stagione hard rock comporta inevitabilmente un trascinato di richiami alla roboante nobiltà di un genere, è altrettanto vero che i brani selezionati per il viaggio appartengono tutti non al proscenio bensì piuttosto agli anfratti più nascosti di un’epoca che sfornava uscite a tamburo battente in cui sperimentazione e “classicità” erano separate ancora da confini solo magmaticamente accennati.
Un album formalmente di cover, dunque, ma l’intelligenza dei The Hounds of Hasselvander sta tutta nel non aver ceduto alla tentazione di un’operazione commerciale (immaginiamo che su buona parte degli artisti coinvolti si sia posata in abbondanza, la polvere del tempo, quando non quella dell’oblio), né all’altrettanto potenzialmente letale deriva nostalgica, offrendo al contrario uno sguardo lucidamente “aggiornato” sulla colonna sonora di anni avvolti oggi dall’alone del mito ma all’epoca più vivi e vissuti che mai. Già, perché per capire davvero lo spirito settantiano del rock bisogna ricordarsi che stiamo parlando di un movimento “a tutto tondo” che coinvolgeva, nel suo potenziale “eversivo”, non solo staffe, incudini e martelli ma l’intera società con le sue paludate convenzioni, su cui si accanivano con pari effetto le dissonanze pentagrammatiche e le scelte di look e di vita di chi saliva sui palchi contorcendosi e trascinando gli astanti.

Così, spaziando in un arco temporale che va dal 1965 dei The Pretty Things di Midnight to Six Man al 1975 dei Trooper di I’m in Trouble Again (ma concentrando il grosso del carotaggio negli anni a ridosso del cambio dei decennio), i The Hounds of Hasselvander filtrano una materia ora muscolarmente declinata, ora solcata dai primi refoli psichedelici, ora ritmicamente cadenzata, riproponendola alla luce della lezione doom dei primordi, in cui l’essenzialità delle forme si rivela la componente principale. E allora eccoli, i coriandoli zeppeliniani disseminati qua e là su trame che riecheggiano Deep Purple o Lynyrd Skynyrd mantenendo una fortissima impronta blues, ma ecco anche la mano unificante di diretta filiazione Black Sabbath (con al centro l’inevitabile prisma Pentagram, stante la biografia dei protagonisti).
E al centro della scena sempre lui, il vecchio Joe, stavolta concentrato solo sulla sei corde e soprattutto sul cantato, sfoderando un timbro decisamente più “multicolore” rispetto alle prove a cui ci aveva abituato in passato, dove l’ombra di Ozzy si allungava inconfondibile. Sabbia, birra & nicotina, mai triade fu più indissolubilmente concepita per definire l’impasto vocale trasmesso agli ascoltatori settantiani e, se a questo aggiungiamo la scelta di compagni di viaggio più che rodati (dal fido Martin Swaney, compagno di quattro corde nei Pentagram a Paolo Apollo Negri, già tastierista d’eccezione in The Ninth Hour, fino all’ex Plasmatics T.C. Tolliver alla batteria), l’effetto vintage è garantito, senza stucchevolezze e inutili appesantimenti.

Anticipando che il livello medio raggiunto è comunque di tutto rispetto (e il gioco di ricerca e confronto con gli originali è parte integrante del piacere di questo viaggio nel tempo), soffermiamoci allora sulle due tracce più “impegnative” del lotto, là, dove i Nostri si mettono alla prova di minutaggi relativamente sostenuti. Lisergica e sinuosa, Juke It diventa così un’occasione per riscoprire la psichedelia delle origini, grazie ai fumi in sprigionamento dalle tastiere e a un assolo in vulcanico crescendo (peccato solo che, rispetto all’originale dei Boomerang, il basso finisca per risultare un po’ soffocato), mentre il vertice assoluto dell’album si raggiunge con la splendida Primitive Man. Proposta nel 1972 dai Jerusalem, la traccia si presta alla perfezione al processo di “doomizzazione” a cui i The Hounds of Hasselvander puntano in tutto l’album, ma, proprio mentre il destino del brano sembra inesorabilmente incanalato verso la pesante circolarità dei riff sabbathiani, ecco il colpo di scena di un inserto dai forti tratti prog che libera un finale da manuale dell’hard rock d’autore, a ricordarci che in quegli anni contaminazioni e creatività abitavano molto spesso sotto lo stesso tetto… con somma soddisfazione degli inquilini di tutti gli altri piani.

Spedizione archeologica che riporta alla luce reliquie dimenticate, tributo all'epopea hard rock vista con gli occhi delle “seconde linee” più che dei pionieri impegnati direttamente al fronte, Ancient Rocks è un album che non pretende di offrire irrealistiche riscritture, né di spostare i confini di un genere, ma piuttosto di trasmettere con onestà ed equilibrio le vibrazioni dello spirito di un'epoca. Tra tutti i potenziali candidati a rimuovere le rughe del tempo, in pochi avrebbero saputo far meglio di Joe Hasselvander e dei suoi segugi.



VOTO RECENSORE
74
VOTO LETTORI
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rik bay area thrash
Giovedì 5 Gennaio 2017, 14.51.45
3
Proverò a dargli un ascolto anche per il passato del personaggio. La macchina del tempo può fare ancora grandi cose ....
Undercover
Giovedì 5 Gennaio 2017, 12.45.07
2
Mio da tempo, lui è un gran personaggio oltre che una persona molto disponibile al dialogo e tranquilla. Disco che mi ha divertito e mi diverte parecchio. Sul voto magari avrei dato qualche punticino in più proprio perché in pochi sono capaci di fare quel che ha fatto Joe.
Doom
Giovedì 5 Gennaio 2017, 10.56.32
1
Hasselvander gran personaggio per me! Questo un ascolto glielo do' volentieri..anche se per cosi dire e' un vecchio omaggio. Il "suo" vero e proprio precedente the ninth hour mi era piaciuto un sacco...molto retro'..
INFORMAZIONI
2016
Black Widow Records
Hard Rock
Tracklist
1. Trial of the Dead
2. Strange Movies
3. I'm in Trouble Again
4. Midnight to Six Man
5. Idealist Realist
6. Juke It
7. Primitive Man
8. Teachin' Blues
9. Cookbook
10. Sex Machine
11. Come and Get It
12. One Eyed Trouser Snake Rumba
Line Up
Joe Hasselvander (Voce, Chitarra)
Paolo Apollo Negri (Tastiera)
Martin Swaney (Basso)
T.C. Tolliver (Batteria)
 
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