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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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11/08/2017
( 6271 letture )
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Per elevare un grande album allo stadio di capolavoro, non è sufficiente basarsi esclusivamente sul suo contenuto strettamente musicale, ma è necessario considerare diversi altri elementi. Innanzitutto il rapporto con il suo tempo, il genere, il contesto musicale e gli uomini che lo hanno realizzato. Soprattutto, un capolavoro trasmette emozioni e racconta storie. Belle o brutte, non importa, ma un capolavoro non lascia mai indifferenti, smuove le coscienze e segna in qualche modo l’ascoltatore. Il secondo e ultimo capitolo della saga dei Joy Division soddisfa in pieno tutte queste prerogative. Si tratta dunque di un lavoro da considerare in maniera globale, lasciando il giusto spazio alle nerissime emozioni che sprigiona. Per questo motivo, nulla di meglio che iniziare dall’esterno, dall’involucro, poiché la copertina è in questo caso rivelatrice del contenuto. A differenza della celeberrima e minimale cover di Unknown Pleasures, Closer è introdotto da una fotografia. Essa ritrae la tomba della famiglia Appiani, situata nel cimitero monumentale di Staglieno, che mette in scena il pianto di alcune donne, accompagnate dalla Vergine, sul Cristo morto. È molto interessante notare come l’immagine sia stata modificata attraverso l’ombreggiatura: sulla copertina del disco, la Vergine è quasi totalmente nascosta dalle tenebre, e perde così la sua identità religiosa. Rimane visibile solo il braccio, appoggiato sulla spalla della donna inginocchiata davanti al corpo del Cristo che, a causa della cancellazione di Maria, perde anche lui la sua identità sacra per diventare un cadavere come gli altri. Spogliata di ogni riferimento cristiano, e quindi di ogni messaggio di speranza che vi è legato, la copertina di Closer veicola unicamente un forte e funereo senso di morte e cordoglio, perfetto e terribile specchio di ciò che l’album contiene.
All’alba della realizzazione di Closer, la band è reduce dall’uscita di Unknown Pleasures, avvenuta un anno prima. Il debutto è stato un successo, sia sul fronte delle critiche sia su quello delle vendite, tanto che i Joy Division intraprendono un lungo tour in patria di spalla ai Buzzcocks, che si protrae poi con dieci date sul continente. Nel marzo dell’Ottanta, la band inizia le registrazioni di Closer, effettuate in fretta e furia a causa dell’incombente tour americano, che ha già fatto registrare un successo sul fronte delle prevendite. Se la band vive un momento felice ed è ad un passo dalla consacrazione, le condizioni psico-fisiche del cantante Ian Curtis non fanno che peggiorare. La sua salute si aggrava, gli attacchi epilettici si moltiplicano, talvolta persino durante i concerti. Parallelamente, le relazioni con la moglie diventano critiche, anche a causa di un’amante. Il 7 aprile 1980, il cantante tenta il suicidio ingerendo massicce quantità di alcol e barbiturici, ma è salvato in extremis proprio dalla moglie. Ci riesce tuttavia poco dopo, il 18 maggio dello stesso anno, un paio di mesi dopo le registrazioni di Closer, impiccandosi, non ancora ventiquattrenne, in casa della compagna. È anche e purtroppo a causa di questi fatti che Closer assume la potenza e la completezza che lo contraddistinguono: la tragedia che lo ha marchiato trasforma l’album in un nero monolite che indica ed annuncia la fine non solo dei Joy Division, ma anche della vicenda umana di Ian Curtis. Una fine annunciata freddamente fra i solchi del disco, nei quali il cantante si mette a nudo, svela i suoi fantasmi di paura, solitudine e mancanza di senso. Closer è quindi più di un disco, più del picco compositivo dei Joy Division, più ancora dell’apice dell’intero movimento dark wave e post punk: è il testamento di Ian Curtis, il suo requiem, il suo canto funebre.
L’album è registrato in appena tredici giorni presso i Britannia Row Studios di Londra e, come per il predecessore, è prodotto da Martin Hannett. Quest’ultimo, già fautore del suono unico, minimale e freddo di Unknown Pleasures, lascia la sua impronta anche sul presente lavoro, distanziandolo dal precedente tramite il massiccio ricorso all’eco sulle tracce di batteria e chitarra. Rispetto al debutto, il suono si fa ancora più asciutto, glaciale e lugubre. Ogni musicista è in stato di grazia e apporta un elemento fondamentale al suono del lavoro, che a partire da elementi semplici e minimali sintetizza un’atmosfera e un impasto sonoro irripetibili. La batteria di Stephen Morris è semplice, chirurgica, allo stesso tempo tribale e industriale, e forma l’ossatura dei brani assieme al fenomenale basso di Peter Hook. Sempre in primo piano, il basso assurge a strumento melodico principale, rubando la scena alla chitarra, che svolge qui un altro ruolo. L’apporto chitarristico di Bernard Sumner, minimale, lacerato e freddo, contribuisce infatti a creare il suono glaciale e clinico dell’album. Che dire poi di Ian Curtis? Molto spesso paragonato a Jim Morrison, il cantante inglese declama i suoi sconvolgenti versi in maniera assente, monotona e distante. La sua impressionante prestazione vocale rappresenta la vera summa del suono funereo e alienato di Closer.
La lugubre Atrocity Exhibition introduce l’ascoltatore nel nerissimo universo di Closer, che è poi il nerissimo universo dell’animo di Curtis: this is the way, step inside, scandisce più volte il cantante per i sei lancinanti minuti durante i quali diversi rumori si susseguono sul ritmo tribale creato dalla batteria e dal basso. Una volta raccolto l’invito, si è sorpresi dal sintetizzatore saltellante della seguente Isolation, traccia più sostenuta dell’opener, nella quale un dolente Curtis descrive un universo di paura, apatia e – appunto – isolamento, che culmina nella confessione I’m ashamed of the person I am. Passover, ovvero trapasso, non lascia spazio a dubbi: sopra la tetra e metronomica strumentale del basso e della batteria, solcata talvolta da lancinanti inserti chitarristici, Curtis si confronta con una crisi aspettata, che distrugge il suo equilibrio, per poi terminare con un sibillino wondering what will come next. Qui la decisione della sua sorte appare chiara. In Colony, diversamente dai brani precedenti, basso e chitarra si muovono simultaneamente, creando un suono più pesante ma ugualmente soffocante. L’universo descritto è di nuovo contraddistinto da una solitudine senza spiegazione, da un’assenza di rapporti umani:
No family life, this makes me feel uneasy, Stood alone here in this colony, In this colony, in this colony, in this colony.
L’ipnotica A Means to an End è nuovamente marchiata da una sezione ritmica più chirurgica che mai, mentre il testo ricorda amicizie ed azioni passate, ora svanite nell’inutilità e la solitudine. L’appello finale, ripetuto diverse volte, I put my trust in you, accentua il sentimento di desolazione e delusione. Heart and Soul si interroga nuovamente su di un mondo senza senso, nel quale tutto perisce e scompare:
An abyss that laughs at creation, A circus complete with all fools, Foundations that lasted the ages, Then ripped apart at their roots
Una batteria quasi jazzata e un arpeggio di basso introducono dolcemente il capolavoro Twenty Four Hours, che poi esplode con l’entrata della chitarra. Qui. Curtis dirige la mancanza di senso su se stesso e sulla propria traiettoria:
Just for one moment, thought I’d found my way, Destiny unfolded, I watched it slip away
E ancora:
Just for one moment, I heard somebody call, Looked beyond the day in hand, there’s nothing there at all
Il brano alterna sapientemente momenti quasi sognanti a esplosioni di furia, candidandosi come uno dei picchi dell’album. La seguente, struggente, The Eternal, si dipana dolcemente, arricchita da un pianoforte. Il tormentato cantante vi descrive la sua cerimonia funebre, sopra una strumentale che fa accapponare la pelle. Anche in questo caso, più che una premonizione:
Procession moves on, the shouting is over, Praise to the glory of loved ones now gone
La conclusiva Decades è una canzone dolente e triste, animata da un synth freddo e tagliente che ne accentua i tratti, mentre Curtis conclude affermando che non ci si può liberare dal dolore e dalla paura. Una canzone dove la tristezza e la solitudine sublimano in pura arte, degno finale per un album che disegna un destino univoco di morte e nichilismo.
E termina così l’ascolto di Closer, lasciando l’ascoltatore scosso e turbato. I capolavori, come si diceva all’inizio, raccontano storie e trasmettono emozioni, e non v’è nulla di più intenso e disturbante del diario di un suicida. Il contenuto, beninteso, c’è, e c’è eccome: un pugno di brani variegati, allo stesso tempo intensi e sfuggenti, asciutti e profondissimi, funerei e delicati. Un album soffocante, senza la minima inflessione verso la felicità o la leggerezza, un pozzo di solitudine e paure, che in quasi quarant’anni non ha perso un’oncia del suo potere comunicativo. È per questo che Closer, come ogni capolavoro, va ascoltato in maniera globale e totale: dopo lo stordimento e il magone iniziali, una voce dentro di voi ne chiederà ancora e ancora.
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22
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unknown pleasure e closer nel giro di un anno. altro da aggiungere?
100 |
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21
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La prima volta che li ascoltai rimasi interdetto per la voce. Sapevo che il tipo era morto a poco più di vent'anni e mi ritrovo ad ascoltare un suono cupo come un crooner attempato, ma non rauco, un suono cupo distante. E non so perché da quella prima volta che li ho ascoltati la loro musica mi trasmette sempre un'immagine, sempre quella, di un concerto in una pianure buia, di notte, con degli enormi falò attorno delle ombre ballano ascoltando la straordinaria voce di Ian che proviene da un palco lontano, perso nel buio. |
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20
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Questo si che è un gran disco. |
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19
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100,poi si può discutere di tutto,ed è post-punk,nella sua Arte più alta.In un periodo in cui il punk aveva perso la sua spinta creativa e forse anche di interesse,nasce il "post",nasce dalle ceneri del punk?chissà...il punk non era morto ma forse era semplicemente maturato (le prime registrazioni dei joy division erano ancora punk). Ma a differenza di oggi,dove la parola post serve solo a nascondere una confusione creativa,qui c'è un evoluzione culturale,di pensiero,c'era un altro mondo.diventato post a sua volta.ma queste note restano,lasciano cicatrici,e nuovi vuoti e nuovi sogni.
100 |
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18
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Un assoluto capolavoro, che faccio fatica a considerare "punk". Post Punk? Può darsi. Effettivamente, legato come è alle vicende personali di Curtis, ha un suo fascino oscuro, ma avesse cantato anche di fiorellini e farfalline, la musica che sta sotto è di una bellezza sconvolgente. Mi ripeto: un assoluto capolavoro. Perché non 100? In ogni caso, complimenti per la bellissima recensione. Au revoir. |
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17
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Disco troppo bello per essere vero e ottima recensione! |
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16
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Non necessita di commenti. |
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Fosse solo l'arte ad essere giudicata con pregiudizi. Cmq grazie per il supporto.  |
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13
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Awake chi ti prende in giro giudica l'arte con preconcetti "contenutisti" e non capisce nulla della Forma....poveracci. |
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12
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Le statue sulle tombe dei cimiteri monumentali italiani sono per me una delle cose più affascinanti che ci siano, anche la mia città ha un cimitero monumentale e molte volte quando faccio visita a qualche parente o conoscente mi faccio un giretto e mi soffermo per ore a guardare queste vere e proprie opere d'arte. C'è chi mi prende in giro ma ne sono attratto in maniera fortissima. |
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11
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Sono andato l'anno scorso in visita a Staglieno per vedere la tomba che appare in copertina. |
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Padre Maronno...e se poi te ne penti????? |
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Personalmente trovo la voce di Curtis particolarmente disturbante, forse perché inconsciamente l'associo alla sua nerissima parabola esistenziale. Su The Eternal e su Decades ad es. mi mette i brividi. Il suo timbro trasmette una fragilità interiore e un'inquietudine che fa precipitare l'ascoltatore nell'angoscia più cupa. Una voce instabile, senza speranza e dalle sfumature quasi medianiche. Ma, ripeto, sicuramente sono io che mi faccio suggestionare. |
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8
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Gran disco come il precedente. Unico neo, a me la voce di Ian Curtis non ha mai detto molto. Mi trasmette poco rispetto a molte altre voci della stessa corrente musicale del periodo. |
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7
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Tutte le volte che ascolto quest'album mi faccio la pipì addosso |
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6
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I due albums dei Joy Division dovrebbero essere conosciuti da tutti. Non è possibile ascoltare musica e non adorare questi dischi. Closer è un'opera d'arte che pone le basi per quel che verrà per diversi decenni. Questo album è come la Gioconda per la pittura, come la Divina Commedia per la letteratura. |
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5
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Storia, un disco eterno di cui si parlerà anche fra 50 anni. |
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Oh mamma mia che cosa vedo qui. C'è forse bisogno di commentare?  |
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1
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Questo disco è un'opera d'arte e The Eternal un capolavoro infinito. Pura poesia "romantica". Qualcosa di indescrivibile per bellezza e musicalità. Ogni volta che l'ascolto mi sciolgo. 100. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Atrocity Exhibition 2. Isolation 3. Passover 4. Colony 5. A Means to an End 6. Heart and Soul 7. Twenty Four Hours 8. The Eternal 9. Decades
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Line Up
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Ian Curtis (Voce) Bernard Sumner (Chitarra) Peter Hook (Basso) Stephen Morris (Batteria)
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RECENSIONI |
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