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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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05/10/2018
( 1096 letture )
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“Quando sei la Vergine delle Rocce e il migliore dei tuoi destini possibili è quello di fare da piazzola di sosta per la marea umana in devoto pellegrinaggio verso l'”altro” quadro, quello con il sorriso più enigmaticamente famoso di tutti i tempi.”
Ci scuseranno, il genio di Leonardo e la direzione del Louvre, se ci permettiamo di prelevarli dall’empireo dell’Arte per trascinarli in una metafora prosaica, ma crediamo che niente più dello spettacolo che quotidianamente si svolge al primo piano del celebre museo parigino possa rendere l’idea di come talvolta il bagliore di un capolavoro possa oscurare luci comunque significative e che meriterebbero ben altra considerazione, nell’immaginario collettivo. Il caso di specie è quello di un’ipotetica doom pinacoteca d’Oltremanica, in cui ci sembra già di intravvedere visitatori alla spasmodica ed esclusiva ricerca di quello che è indubbiamente il pezzo forte della collezione, col rischio però, nella frenesia di puntare dritti alla meta, di perdersi opere di autori dalla qualità se non pari, certo almeno indiscutibile. Se, infatti, va sicuramente riconosciuta (e lodata, incensata, celebrata, ecc. ecc.) la legittimità del trono My Dying Bride nel regno delle spire oscure, rimane tuttavia un mistero come, nel nome di questa superiorità, si sia fatta sempre moltissima fatica a scorgere altri nomi che pure stanno nobilitando e arricchendo la scena, alcuni tra l’altro da tempo ormai immemore e praticamente senza sbagliare un solo colpo, in termini di rilasci.
Eppure è sufficiente lasciare il West Yorkshire e solcare il Mare d’Irlanda con la prua rivolta verso la contea di Kildare per imbattersi in una band che ha recentemente festeggiato il quarto di secolo di attività, sia pure con una prolificità a più che debita distanza dagli standard di Stainthorpe e compagni. Stiamo parlando dei Mourning Beloveth e che la frequenza delle release non fosse nel dna dei Nostri lo si era intuito fin dagli esordi, visto che dalla data di “fondazione” (1992) si erano dovuti attendere ben quattro anni per la prima demo (Burden, oltretutto decisamente esile per minutaggio e contenuto) e altri due per quell’Autumnal Fires che aveva lanciato inequivocabili segnali in vista di un definitivo decollo qualitativo, concretizzatosi a pochi giorni di distanza dal cambio di millennio con questo Dust. Detto in premessa che non è assolutamente intenzione di chi scrive lanciare crociate contro una vulgata comune che vuole le frequenze in arrivo da Halifax e Athy sintonizzate sulla stessa lunghezza d’onda, credo però che sarebbe opportuno avvicinare meglio la lente di ingrandimento ai lavori degli irlandesi, che a un’analisi attenta risultano non così direttamente assimilabili ai monumenti mydyingbridiani già a partire dal “colore” dei brani. Se, infatti, è pur vero che pesantezza, lentezza e pachidermicità sono tratti inequivocabilmente caratteristici di entrambe le traiettorie artistiche, è altrettanto vero che i monoliti innalzati hanno nervature sostanzialmente differenti, con una componente malinconico/depressive che è cifra stilistica imprescindibile in arrivo dall’antro magico della Sposa Morente e che invece nella poetica dei Mourning Beloveth ricopre un ruolo decisamente secondario, sostituita da un gusto per l’enfasi e l’imponenza delle strutture che per qualche aspetto conduce piuttosto alle soglie del laboratorio Candlemass saturo di vapori epic. Di pari sterilità ci sembra anche il dibattito intorno alla resa vocale della coppia Moore/Brennan rispetto a un presunto “modello Stainthorpe”, a maggior ragione se, riconosciuta quasi da tutti la validità dei passaggi in growl di Darren Moore, il confronto deve ruotare intorno alla prova in clean di Frank Brennan: inutile cercare qui tracce del cantilenato dolente del divino The Angel and the Dark River, i Mourning Beloveth semplicemente viaggiano su coordinate diverse e con un diverso approccio alla materia doom, oltretutto ampiamente annunciato dall’assenza dell’apporto di tastiere e violini. Attenzione però, perché chi pensa di incontrare una band tutto sommato a rischio monocordità nel suo incedere quasi compassato commetterebbe un grosso errore, perché il quintetto, dopo averci trascinato su altopiani impervi circondati da vette minacciose che proiettano ombre scure su un cammino già affaticato, ha in serbo il colpo di scena di un gusto melodico inaspettatamente raffinato, affidato a riff ad altissimo tasso emozionale. Da queste parti passa il confine tra il doom “puro” e una sua possibile declinazione in chiave death, ma i Nostri rimangono sostanzialmente all’interno del primo recinto, impartendo una lezione di cui i Saturnus saranno prima più che eccellenti alunni e poi docenti a pieno titolo (il riferimento al lavoro di Rune Stiassny in chiusura di una Forest of Insomnia non è ovviamente casuale).
In questo Dust, per la verità, il processo è ancora alle prime battute e per apprezzarne in pieno la portata bisognerà attendere il successore The Sullen Sulcus (e una traccia come Narcissistic Funeral), ma già nell’opener The Mountains Are Mine si intuisce come il binomio maestosità delle strutture/anfratti melodici sia l’asse portante di una tracklist che, prevedibilmente, impone minutaggi più che sostanziosi ai singoli episodi. L’unica, relativa eccezione è incarnata da In Mourning My Days, complice un inatteso finale che squaderna uno strappo death troppo pronunciato, dove forse non a caso si consuma uno dei momenti meno felici dell’intero platter. Fortunatamente, il ritmo torna a scorrere subito solenne e austero nella successiva titletrack (che col passare dei minuti sembra quasi diventare un canto liturgico che accompagni qualche processione laica il cui tratto fondamentale sia la fierezza, piuttosto che il dolore) e, ancora meglio, in Autumnal Fires. Riproposizione aggiornata di un brano già presente nella demo del 1998, la nuova versione prepara con un lungo avvio in clean un corpo centrale dominato da uno splendido assolo che risveglia e strappa letteralmente dal sottosuolo forze avvolte da un’aura minacciosamente marziale, ma ecco che, proprio mentre ci si attende il trionfo di questa mole di oscurità evocata, il piano di volo del brano vira verso esiti atmosferici che rasserenano sorprendentemente il quadro. Detto dell'eterea Sinistra, innocuo filler che chiude formalmente l'album, la calata di fatto del sipario è affidata alla granitica All Hope Is Pleading, dieci minuti di riusciti intrecci tra una sei corde costantemente in primo piano e il growl di Moore che progressivamente occupa il centro della scena imprigionandola in giri via via sempre più lenti e ieratici e congedando infine gli astanti in un finale da cerimonia.
Primo atto di una carriera vissuta inspiegabilmente all'ombra di abbaglianti modelli, classico esempio di sottovalutazione nel nome di confronti alla prova dei fatti meno appropriati di quanto possa suggerire un approccio superficiale, Dust è un album che supera abbondantemente la prova-debutto e merita una riscoperta per i troppi frequentatori della nicchia doom che l'hanno lasciato sfilare via nell'indifferenza. Certo, i Maestri della collezione sono qualche sala più avanti, ma non attraversiamola mai distrattamente, la stanza Mourning Beloveth...
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3
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Grande primo LP di un Grande gruppo. |
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2
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Grazie di avermeli fatti scoprire . |
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1
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Recensione fenomenale, come il disco. Ho avuto il piacere di vedere la band in questione per ben due volte durante la mia permanenza in Irlanda. Band veramente da scoprire. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. The Mountains Are Mine 2. In Mourning My Days 3. Dust 4. Autumnal Fires 5. All Hope Is Pleading 6. Sinistra
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Line Up
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Darren Moore (Voce) Frank Brennan (Voce, Chitarre) Brian Delaney (Chitarre) Adrian Butler (Basso) Patrick Spain (Batteria)
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