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27/04/25
THE LUMINEERS
UNIPOL FORUM, VIA GIUSEPPE DI VITTORIO 6 - ASSAGO (MI)
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11/06/2019
( 1177 letture )
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Spesso dire progressive metal richiama subito alla mente il nome dei Dream Theater, non solo per gli addetti ai lavori ma soprattutto per i profani del prog. Ecco, dare in mano questo nuovo lavoro degli Anvil Therapy a chi ha sentito giusto qualche canzone della band statunitense potrebbe facilmente far confondere i fiorentini con il più blasonato combo di Boston. Innanzitutto il cantato del vocalist Alessandro Matera è innegabilmente simile ai toni medio-alti di James Labrie e poi la tecnicissima e complessa parte strumentale è di matrice dream theateriana. Il disco, il secondo del gruppo toscano, arriva ad esattamente 10 anni dalla formazione, avvenuta nel 2009, e non è certo ricco di originalità. Come anticipato, attinge a piene mani dai mostri sacri del progressive metal ma nonostante ciò scorre fluido e piacevole nelle orecchie dell’ascoltatore per poco più di un’ora di durata.
Il tema attorno al quale ruota il disco, per cui veniamo aiutati dal titolo, è quello della dualità, della doppia personalità. In questo e soprattutto nelle sonorità si nota una notevole somiglianza con Isolate dei Circus Maximus. D’altronde la stessa voce di Michael Eriksen, medio acuta, non si discosta troppo dallo stile che sentiamo in questo album. Insomma, ci sono ottime basi ma si pecca di originalità. Un prog metal canonico che vede uno standard compositivo nelle prime quattro tracce: strofa, ritornello, strofa, ritornello, assolo, ritornello conclusivo. Un approccio semplice, diretto e incisivo che non per forza va condannato perché le canzoni sono ben assimilabili ed orecchiabili, tanto che ci si trova spesso a riascoltarle con piacere. È richiesto uno sforzo maggiore invece quando si giunge a metà disco, dove troviamo la title track, dalla durata decisamente superiore, undici minuti di prog metal molto più eterogeneo e in cui finalmente si scorge un’impronta più personale in Duality. Il lavoro di tastiere di Dario Calamai combinato agli assoli di chitarra del virtuoso Alessandro Berchicci crea una sezione strumentale davvero di altissimo livello, uno degli apici compositivi del disco. Da non sottovalutare il lavoro al basso di Stefano Filipponi al quale viene lasciato molto spazio, non soltanto a semplice sostegno della melodia ma come strumento principale in alcune parti. Con Being Myself assistiamo ad un graduale cambio di genere, con uno spostamento verso un pop-rock più orecchiabile e meno tecnico, esattamente nella maniera in cui i Circus Maximus avevano proceduto nel loro album del 2007, che diventa più commerciale e meno elaborato con la quinta traccia Arrival Of Love. Nonostante l’affievolimento nei ritmi, ciò che non cala mai è il livello tecnico della parte di tastiere, davvero eccellente. Dopo la penultima e forse più fiacca Roses And Caskets, è il turno della suite più lunga dell’album, What Remains. Le parti che la compongono a tratti risultano essere un po’ slegate e l’omogeneità e la coesione non sono i punti forti della traccia. Sicuramente però troviamo originalità, qualche nota un po’ acerba e molti spunti dai quali attingere per un successivo lavoro. Questa conclusione sprizza tecnica sfrenata da tutti i pori e i virtuosismi di Dario Calamai e Alessandro Berchicci hanno poco da invidiare a John Petrucci e Jordan Rudess. Chi ama il progressive arzigogolato, intricato e a tratti esagerato avrà di che compiacersi sentendo i quattordici minuti abbondanti di What Remains.
Per usare le parole della band, cosa rimane? Dall’ascolto del disco, molto fluido e scorrevole come accennato in apertura, rimangono poche impronte del quintetto di Firenze. Con i primi due dischi non si è raggiunto un suono che si distingua come loro marchio di fabbrica e forse per fare ciò è necessario un terzo album, esattamente quanto avvenuto con Nine per i già citati Circus Maximus. E non è detto che quel raggiungimento di un suono identificativo sia poi la definitiva consacrazione oppure il conseguimento totale dell’obiettivo perché, quando si cerca di allontanarsi troppo dalle band che ti hanno segnato come musicista, spesso viene a mancare il terreno sotto i piedi e si brancola nel buio compositivo. Seguendo il sentiero tracciato dai Dream Theater, è difficile sbagliare: tempi dispari, tastiere funamboliche e tanto shredding, con cui certamente si va sul sicuro. Ma cosa accade se si prova a cambiare rotta? Non resta che aspettare un’eventuale terza uscita della band nostrana, sperando che non ci faccia attendere altri sei anni. I miglioramenti dal disco d’esordio ci sono, soprattutto vista l’ottima autoproduzione che ci fa apprezzare appieno ogni singolo passaggio strumentale. Unico piccolo passo indietro la copertina, quella del precedente Away From Here era un tocco di classe.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Desert 2. Monothonya 3. Dear Father 4. Overlaps 5. Duality 6. Being Myself 7. Rage 8. Threw It All 9. Roses And Caskets 10. What Remains
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Line Up
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Alessandro Matera (Voce) Alessandro Berchicci Soave (Chitarra) Stefano Filipponi (Basso) Dario Calamai (Tastiere) Michel Agostini (Batteria)
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RECENSIONI |
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