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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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04/04/2020
( 1573 letture )
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La brughiera britannica è senza dubbio uno degli ecosistemi più famosi e amati. Frequentata dagli artisti di ogni epoca, assieme agli altri due elementi comunemente associati ad essa, ovverosia, la nebbia e la pioggia, piuttosto che celebrata per la sua natura selvaggia e ancestrale, capace di travalicare il tempo e resistere immutata e immutabile, tempio a Madre Natura e al “piccolo popolo” che la abita da tempo immemore, lontano dagli occhi umani. Terra di fantasmi e di terrori ancestrali, essa ricorda all’arrogante umanità la sua debolezza e miseria di fronte al potere della Natura e del mistero che essa cela e nutre. Un uomo che ha tentato di colonizzarla, lasciando ovunque segni del proprio passaggio e dell’inevitabile e misera propria decadenza, di regni ormai scomparsi e dimenticati dal tempo, assieme ai suoi riti, volti ad ottenere il favore delle divinità che risiedono e lì dominano incontrastati. Misteriosa e per questo affascinante, gotica e indifferente, non poteva che diventare protagonista in prima persona o scenario incomparabile per pittori, teatranti, fotografi, scrittori, fumettisti e, inevitabilmente, musicisti. Non sorprende, infatti, che la musica del primordiale death doom nasca nel Regno Unito con sonorità che evocano e cavalcano le atmosfere tipiche della brughiera e con un immaginario che richiama le cadenti rovine medievali, le chiese abbandonate e diroccate, gli antichi riti e la caduca grandezza di chi si proclamò arrogantemente regnante di quelle terre. A trent’anni dalla nascita di quel movimento che tanto ha dato allo sviluppo del metal moderno, inevitabilmente il sottogenere ha preso una propria via e perfino i suoi campioni hanno progressivamente modificato la propria ispirazione, aggiungendo piuttosto che sottraendo componenti diverse o abbandonando del tutto la strada iniziale per prenderne di nuove. Non sorprende quindi che, come spesso accade, ci sia un movimento di ritorno verso le sonorità iniziali, verso le premesse stesse di un certo tipo di suono ed espressione artistica. I Godthrymm si rifanno appunto a quell’immaginario primordiale, recuperando le radici del death/doom gotico e proponendole in maniera intelligente e non didascalica. Lo fanno con le qualità e il pedigree di chi quello stesso genere lo suona ormai da decenni: il fondatore del gruppo, Hamish Glencross, è infatti stato chitarrista prima dei Solstice, con i quali ha inciso New Dark Age e poi dei My Dying Bride, con i quali ha suonato per quasi quindici anni, transitando poi anche nei Vallenfyre. Poco dopo la fondazione, nel 2017, il gruppo ha rilasciato un primo EP, A Grand Reclamation, subendo dei cambiamenti di line up che hanno portato all’ingresso di un altro protagonista della scena, il batterista Shaun Taylor-Steels, anch’egli ex My Dying Bride ed Anathema, il cui ingresso ha dato nuova linfa all’ispirazione del fondatore, portando quindi la band al debutto con questo Reflections.
Considerato il background dei due musicisti, ai quali si unisce anche il bassista Bob Crolla, verrebbe spontaneo attendersi un richiamo alle sonorità tipiche dei primi My Dying Bride, ma se è un nuovo Turn Loose the Swans che poteva prospettarsi, non sorprenderà poco trovare invece che i Godthrymm si rifacciano invece ai Paradise Lost in maniera piuttosto forte, andando a collocarsi idealmente proprio tra Gothic e Icon, come se questo Reflections fosse l’ideale trait d’union tra i due album, al posto di Shades of God, assomigliando molto di più ad entrambi di quanto non abbia fatto il disco effettivamente pubblicato da Mackintosh e compagni. Spazio quindi ad un doom solenne, lento e terragno, carico di atmosfere raggelanti e brumose, fatto di riff potentissimi e scanditi con sofferenza, addolciti e accompagnati da melodie continue della chitarra che ne amplificano l’effetto malinconico ed epico. Perfino la voce di Glencross ricorda moltissimo l’approccio di Holmes tra i due album, quella sorta di non-growl rabbioso e carico, molto melodico e reminiscente di un James Hetfield lento e sofferente. Peraltro Glencross, si perdoni l’ardire, si dimostra vocalmente ben più dotato del suo ispiratore, riuscendo a rendere al meglio le diverse sfumature dei brani, ora con maggior aggressività, ora con maggior melodia, alternando anche un validissimo cantato pulito che diventa arma espressiva in più. Ad accompagnare la voce del band leader, proprio come avveniva su Gothic, troviamo occasionalmente una eterea voce femminile -non accreditata-, che ben riproduce quell’effetto che tutti gli amanti del genere ben conoscono, di ingentilire e contrastare le asperità della musica e del growl, amplificandone l’aura mistica e ancestrale. L’approccio dei Godthrymm resta fortemente ancorato alla dimensione doom, in ogni caso, il che richiama molto anche l’esperienza del chitarrista nei Solstice, che emerge infatti nelle coloriture epiche e pagane delle parti strumentali, sottolineate da una prova maiuscola di Taylor-Steels, il quale utilizza il doppio pedale quando serve, dando invece normalmente una gran dinamica alle composizioni oscure e pesanti del compagno. Bellissima ed esplicativa l’opener Monsters Lurk Herein, che all’intreccio perfetto aggiunge anche un refrain melodico perfetto. Palesemente sul modello Paradise Lost la seguente Among the Exalted, nella quale anche Crolla offre il proprio prezioso contributo con un timbro metallico e scuro, molto delineato e presentissimo nel mix. Giova qua sottolineare ancora non solo il gran lavoro delle chitarre, ma anche lo straordinario contributo della batteria, davvero di livello. Inquadrato il genere di riferimento e le diverse influenze che compongono il sound dei Godthrymm è inutile scorrere tutti i brani, se non per sottolineare la lunghezza media piuttosto elevata, che si attesta attorno agli oltre sei minuti, con la punta dei nove della bellissima Cursed Are the Many e l’eccezione dello strumentale conclusivo Chasmic Sorrows, anch’esso in perfetta chiave Paradise Lost. Una lunghezza media che sottintende l’estrema cura nella costruzione dei brani, molto cangianti e ricchi di evoluzione al loro interno, seppur sempre molto naturali e ben orchestrati nei vari passaggi, che infatti si scoprono con gli ascolti, rivelando una cura non comune e una qualità altissima. E’ giusto sottolineare come non ci siano episodi secondari e così, ad esempio, The Sea As a Grave, col suo chiaroscuro tra strofa e refrain, interrotte da un dolcissimo quanto malinconico fraseggio armonizzato di chitarra, riveli anche una personalità propria della band. Ancora, la strepitosa We Are the Dead, candidata a divenire punto chiave delle esibizioni dal vivo o The Light of You che potrebbe essere definita la “ballata” del disco, non fosse per un finale incandescente che ben smuove la dinamica dell’album prima della parte finale.
Alfieri di sonorità evocative e quanto mai britanniche, i Godthrymm giungono al debutto con un lavoro maturo e già ai limiti della perfezione. Reflections è davvero un gran bel disco e non stupirebbe vederlo citato da più parti nelle classifiche di fine anno. Certo, le ispirazioni sono talmente evidenti da non permettergli di assurgere al livello di capolavoro del genere, eppure, musicalmente siamo su livelli ragguardevoli e che per molti restano inavvicinabili. Non c’è una sola canzone nell’album che sia meno che ottima -forse la sola The Grand Reclamation, comunque valida, appare appena troppo canonica nel suo rifarsi a Sabbath e Candlemass- e se è vero che l’omaggio evidente potrebbe screditare il valore complessivo di Reflections, al tempo stesso non si può negare che il duo al comando abbia tutta l’autorevolezza e l’esperienza per proporlo come proprio patrimonio, dandogli quella forza, densità e una capacità evocativa che pochi possiedono. Siamo di fronte quindi ad una vera e propria chicca imperdibile per tutti gli amanti del genere. Molto più che consigliato, questo è proprio un disco da avere. Impossibile pentirsi.
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6
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Qualità artistica di alto livello su tutti i fronti, a cominciare dal guitar-work. A voler essere banali si potrebbe parlare di 'Gothic del nuovo millennio', non so se supera il nuovo MDB e a me interessa poco perchè li considero entrambi ottimi. Purtroppo sono arrivato lungo e per la copia fisica se ne parlerà fra un mesetto...Disco obbligatorio per gli amanti del genere e caldamente consigliato a chi ascolta doom in generale e non ha problemi con il growl. Bella rece e valutazione adeguata. |
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5
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Oui, veramente bello ed evocativo, come descritto nell'ottima recensione di Monsieur Lizard. Atmosfere da tardo autunno (forse la pulita primavera di quest'anno non aiuta...) e grande costruzione sonora dei brani (non ci sono tastiere?). Il cantato mi piace molto. Songwriting eccellente, segno che anche in un genere non proprio "vasto", se si hanno idee, escono fuori dei brani splendidi. Au revoir. |
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4
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Album Doom dell' anno!
Ho gradito il ritorno dei My Dying Bride, non poco... Ma qua siamo a un livello superiore |
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3
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Allora Lizard eccomi di nuovo qui dopo aver ascoltato attentamente tutto il disco in questione.....ti dico subito che adesso condivido pienamente la tua recensione, è praticamente perfetta con un unico appunto che mi permetto di fare..... Per me anche The Grand Reclamation è un brano superlativo....verissimo che è un omaggio ai Candlemass soprattutto nel finale....ma è interamente in linea con tutto l'album che considero grandioso.....è un disco Doom che più Doom non si può..... Come deve essere un disco Doom classico..... È quasi un'ora di marcia funerea lenta, pesante ma elegantissima, era davvero da tanto...troppo tempo che non ascoltavo un lavoro nel genere così ipnotico e sepolcrale.....mi ha conquistato sin dai primi rintocchi.....sono un malato per quei suoni così antichi ma senza cadere nella moda del vintage che oggi spadroneggia.
Avevo scritto in una recente recensione sempre riguardante un lavoro Doom moderno che mi sarebbe interessanto soltanto se avessi sentito gridar al miracolo.... Mbé un'ora fa ho avvertito quelle grida..... Bellissimo....lo ordino subito!
Per me merita un 85 pieno.
Ossequi! |
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2
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Poi fammi sapere cosa ne pensi  |
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1
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Leggendo nella recensione molti nomi della scena a me tanto cara e viste che la fontana dalla quale si abbeverano mi ha sempre dissetato non posso non scoprirli.... Grazie per la dritta 😉..... Ossequi! |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Monsters Lurk Herein 2. Among the Exalted 3. The Sea As My Grave 4. We Are the Dead 5. The Light of You 6. The Grand Reclamation 7. Cursed Are the Many 8. Chasmic Sorrows
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Line Up
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Hamish Glencross (Voce, Chitarra) Boc Crolla (Basso) Shaun Taylor-Steels (Batteria)
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RECENSIONI |
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