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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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01/05/2020
( 2102 letture )
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Chi ha ormai da un po’ passato la trentina, ricorda con un misto di piacere e malinconia uno dei riti essenziali dell’essere metallaro a cavallo tra gli anni 80 e 90. Quando, cioè, le informazioni si raccoglievano quasi esclusivamente tramite carta stampata (mensile, magari) o, più difficilmente, ma comunque con una certa gioia quasi “carbonara”, via televisione. Ecco quindi che, in assenza di altre fonti e nella difficoltà per chi era alle prime armi di discernere tra le informazioni che anche la carta stampata forniva, uno dei passaggi fondamentali, oltre naturalmente allo scambio tra amici, parenti e tra amici e parenti degli amici, diventava frequentare con una certa assiduità uno o più negozi di dischi “fidati”. Lo scambio di informazioni tra gli altri avventori e, soprattutto, col titolare del negozio, vero e proprio “capitano” della barca/negozio, con i suoi tic, le sue preferenze e la sua più o meno onnisciente conoscenza di tutto ciò che usciva ed era uscito fino ad allora. Uno scambio fondamentale che, se ripetuto nel corso del tempo, portava lui a conoscere i tuoi gusti e te a capire quello che lui non arrivava a darti. Ecco quindi che poi scartabellare a ore le colonne dei CD e dei vinili alla spasmodica ricerca di “qualcosa”, qualunque cosa fosse, che ci attirasse per via della reminiscenza di un articolo letto, di una canzone sentita, di un consiglio ricevuto, piuttosto che la fondamentale lettura dei credits degli album, dei ringraziamenti, la conoscenza della validità o meno di quella etichetta discografica e delle sue scelte, andava a costituire un compendio di informazioni che, inevitabilmente, ti portava, unito magari al prezzo vantaggioso di un’offerta incredibile o di una ristampa provvidenziale, ad alzare trionfalmente l’oggetto di culto dalla pila degli altri. Per poi tornare a casa in spasmodica curiosità di ascoltare infine ciò che si era preso per se stessi, in attesa che ci parlasse e ci rivelasse la grande verità del Rock e la magia delle emozioni che suscitava. Era un momento stupendo, che di per sé valeva quasi da solo, per il sacrificio che comunque richiedeva investire il poco denaro a disposizione in un album e perché assumeva proprio la dimensione del rito. Anche quando a volte prendevi la fregatura della vita. Pazienza. Il gusto si forma anche così, sforzando l’orecchio alla ricerca di qualcosa di buono anche dove apparentemente proprio non c’era, salvo riscoprire dopo anni che quel disco frettolosamente accantonato e che tanto ci aveva deluso, aspettava solo che fossimo noi in grado di capirlo e penetrare improvvisamente quello che fino a quel momento ci era rimasto precluso.
Oggi tutto questo si è irrimediabilmente perso. Certo, per molti andare alle Fiere del Disco è diventato un modo di richiamare quell’atmosfera e probabilmente i pochi ma tenaci negozi ancora aperti continuano a vivere proprio di questo e speriamo che continuino per sempre. Ma per la stragrande maggioranza delle persone, questo racconto sa di stantio o comunque di un qualcosa che resterà confinato al passato. La velocità e la smaterializzazione dei supporti, che abbiamo trattato in una lunga serie di articoli, ci ha portato ad abbandonare questi passaggi, ora forse neanche più necessari in un mondo che straborda di informazioni e dove tutto arriva gratis a portata di click, magari a favore di qualcos’altro. Una delle nuove ritualità, inevitabilmente condotte dal mezzo, risiede nel dare retta ai consigli di Youtube, Spotify o di altre piattaforme che, in base ai tuoi gusti o all’ascolto del momento, propongono altri ascolti correlati. Un sistema che vuole assomigliare al consiglio dell’amico o del negoziante che ti conosce e ti presenta altri gruppi che potrebbero piacerti. Manca tutta la parte dell’andare nel negozio e scambiare umanità con altri, ma più o meno scorrere le colonne delle proposte, saltare da un video all’altro, ascoltare compilation create dalla piattaforma o da altri utenti, riproduce quel meccanismo. E’ così che capita anche di avere qualche bella sorpresa. Una di queste sorprese, è stato il secondo album degli statunitensi Deathwhite, il qui presente Grave Image, rilasciato a gennaio dalla Season of Mist, etichetta di riferimento assoluto nel genere.
Misteriosi a dir poco, i Deathwhite non hanno mai rilasciato alcuna informazione in merito alla composizione del gruppo, né tantomeno ai nomi dei membri. Una scelta che ricorda quella compiuta -senza grossa fortuna, a dirla tutta- dai tedeschi Mekong Delta nei primi anni della loro formazione. Ma i Deathwhite sono ancora più radicali, non ricercando nemmeno di nascondersi dietro pseudonimi o foto con maschere. Di loro non si sa nulla, a parte che la fondazione della band risale al 2012 e le sole informazioni che circolano sono quelle relative alle collaborazioni che hanno contribuito alla creazione dell’album, da Shane Meyer che ha prodotto il disco, a Erik Rutan presso il cui studio sono state registrate le parti vocali, a Dan Swanö che ha realizzato il master, per arrivare a Jérôme Comentale che ha creato il fondamentale artwork, unico conforto visuale per la band e per il disco. Grave Image viene pubblicato dopo due anni dal debutto For a Black Tomorrow e presenta un’evidente crescita del gruppo sotto tutti i punti di vista. Scendendo infatti nei particolari musicali dell’opera, ci ritroviamo catapultati in un immaginario reso in maniera praticamente perfetta dall’evocativa e severa copertina: una sorta di death/doom di forte impronta “gothic”, con una enorme e ricercata attenzione alla creazione di atmosfere malinconiche e nebbiose, disperanti e melodiche, nelle quali trionfano senza dubbio gli evocativi arpeggi e i ripetuti fraseggi delle chitarre, adibiti alla creazione delle atmosfere suddette, alle quali fanno da contraltare una sezione ritmica invece piuttosto dinamica e potente, che non lesina l’uso del doppio pedale, con il basso in bella evidenza e riff potenti e decisamente metal nella distorsione che arpionano e feriscono quando serve. Su tutto, delle vocals che rinunciano totalmente al growl o all’harsh per scegliere invece coraggiosamente la via del cantato pulito, baritonale e spesso sottolineato da doppiature e armonizzazioni, che ne amplificano l’effetto emozionale, avvolgendo in una tristezza che non sa mai di autocompiacimento e rifugge nella maniera più totale le facilonerie, per creare invece melodie bellissime e profonde, che non mancano di spunti new wave, gothic e perfino alternative, in qualche frangente. I brani non sono mai eccessivamente lunghi, tra i tre e i cinque minuti, ma sono curati in maniera maniacale ed è evidente che la qualità di scrittura qua è alta, come anche le rifiniture continue, che elevano i Deathwhite tra i migliori interpreti del genere. Impossibile non apprezzare la profondità emotiva e il pathos creato dalla musica e dalla voce in tutto l’album, per un disco che apparirà “facile” a chi mastica il genere ed è abituato a confrontarsi con le costruzioni dei My Dying Bride o dei Paradise Lost e si troverà di fronte a brani tutto sommato lineari, con refrain cantabilissimi e molto melodici, ma una ricchezza di particolari impressionante, oltre che ad una essenzialità mirabile. Non c’è una nota in più, non un secondo sprecato, non un passaggio che non sia stato pensato, voluto e splendidamente realizzato, con la massima attenzione, per creare un qualcosa che tocca davvero le profondità emotive dell’ascoltatore. Questo non vuol dire che tutto il disco sia imperdibile, ma che non esiste una sola canzone che non sia davvero bella e concepita al massimo livello possibile per il gruppo. L’opener Funeral Grave svolge benissimo la sua funzione, presentando il gruppo e il disco al meglio, con un refrain facile e che resta subito in mente, senza per questo rinunciare a cori maestosi, mesti e profondi al tempo stesso, con basso e arpeggi che assieme ai riff e alla voce creano un quadro sonoro già delineato. Ancora meglio le successive In Eclipse, più aggressiva e al contempo struggente, con un refrain bellissimo, un gran lavoro della ritmica e i perfetti pieni e vuoti delle chitarre e l’avvolgente Further From Salvation che travolge col ritmo tempestoso dato dalla ritmica, spezzato dalla malinconia delle chitarre e della voce: musica perfetta per un ventoso giorno di pioggia; arriva quindi la titletrack a completare un rapimento emotivo che non conosce ritorno, con una curiosa commistione di generi, sempre tenuta a bada dalla band e sempre ricca di contrasti che evitano qualunque melensaggine e, nonostante la durata non elevata, con parti strumentali sempre interessanti e curate, significative proprio perché essenziali e non banali. Ancora, bellissime Among Us, una delle canzoni più particolari e devianti rispetto al genere, Words of Dead Men con una delle melodie più riuscite di tutto il disco e le conclusive, stupende, A Servant -un vero e proprio inno gotico- e Return to Silence a sugellare un disco imperdibile per tutti gli appassionati del genere e non solo.
Le sorprese sono ancora possibili, anche in questo mondo digitalizzato e che si avvia giocoforza ad esaltare un’ulteriore distanza tra le persone, come condizione per la salvezza di tutti. Grave Image è esattamente questo, una sorpresa da un gruppo che cela la propria identità e decide di far parlare solo la musica, ben conoscendo il valore della stessa. Niente di palesemente nuovo, intendiamoci. Ma non capita spesso di sentire musica che sa parlare, sa coinvolgere, sa emozionare, senza essere scontata e ruffiana, sfuggendo in parte anche agli stilemi di genere. Dark melodic metal lo chiamano i Deathwhite e la definizione appare calzante e per niente sprecata. Rimane solo da dire della produzione, moderna e avvolgente, ma al contempo assolutamente calzante al genere, senza alcun eccesso plasticoso e anzi con una sensazione di naturalezza che non fa che rendere merito alle qualità tecniche della band. D’altra parte, i nomi coinvolti nella realizzazione parlano da soli. Fortunatamente, anche se cambiano i riti e le stagioni, i mezzi di fruizione e quelli tecnologici, la musica resta una compagna dalla quale è impossibile rimanere delusi. Una voce che, nonostante tutto, riesce comunque a farsi sentire, regalando le sensazioni più pure e diverse che sia possibile ricevere. Buon ascolto e buona esplorazione.
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9
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Una band che non conosco ma i cui contenuti sembrano interessanti,con uno splendido artwork. Molto bella la recensione che tocca temi a me molto cari. Ho grande nostalgia dei tempi andati,solo nelle saltuarie fiere del disco trovo quella magia ormai perduta. Oggi è cambiato tutto,in peggio.Cé chi non lo nota(!)chi si adegua e chi non lo accetta..e vive di ricordi e sensazioni non facili da rievocare.Sono per i tempi che furono,tutta la vita. |
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8
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Concordo con il Commento 6.. E' tutto al suo posto ma Nulla suona artificioso.. L' Ascoltatore viene trasportato in un vortice di emozioni e sensazioni profonde.. Anche in queste giornate "calienti", le Composizioni scorrono fluidamente e ti rinfrescano i sensi... |
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7
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...sia questo album ...che il primo...sono davvero belli...evocativi....il terzo uscira' a breve.....davvero un nome da segnare sulla lista della spesa....ottima recensione....bei tempi quelli.... |
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6
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Ottimo album, tutto è curatissimo, ma senza rinunciare a una bella dose di empatia e sentimento. 80 meritatissimo |
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5
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Veramente un album notevole, anche se preferisco leggermente il precedente For a Black Tomorrow. Si sente che hanno idee e le atmosfere, come sottolineato nella ottima recensione, sono particolarmente coinvolgenti. Mi piace molto anche il cantato. Tutte ottime canzoni ma sopra metto Among Us e le due finali. Mi permetto due appunti: bella e simpatica la parte introduttiva della recensione e bella e suggestiva la copertina (che sottolineo, in tempi di artwork brutti o banali). Au revoir. |
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4
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Grazie mille Freccia... fammi sapere se ti piace anche il disco!! |
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3
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Ho apprezzato molto la recensione! bello il richiamo agli anni 80/90....anch'io non appena raggiungevo la fatidica cifra di 29.000 Lire andavo nel mio negozio di dischi preferito e con in mente i voti delle recensioni lette nelle varie riviste acquistavo i cd o gli LP.. Certo che al tempo non costavano poco... vabbè che ogni tanto c'erano le offerte....però per avere roba nuova si doveva spendere sempre quella cifra... Adesso vado ad ascoltarmi questa band, che sembra molto interessante e in caso mi comprerò il disco.
Bravo Lizard! |
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2
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Purtroppo il mio negoziante di fiducia ha abbassato le serrande qualche anno fa......il passaparola anch'esso è ridotto al lumicino visto che non si sta più insieme alla propria cricca per ore tutti i giorni della settimana..... Ciò che mi resta ora è Metallized e le sue dritte....e soprattutto Lizard che tratta i "miei" generi e i suoi suggerimenti vanno spesso a segno.
Vabbè conclusa l'intro di lecchinaggio e letta la recensione in questione vado ad ascoltarmi anche questo album che promette bene...... Ossequi! |
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1
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Tra Amorphis, Paradise lost e My dying bride, uno dei migliori album del 2020. Già l'esordio li collocava con prepotenza tra i migliori newcomer, ma questo li eleva a ridosso dei grandi del genere. I prossimi lavori saranno l'ago della bilancia.... |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Funeral Ground 2. In Eclipse 3. Further from Salvation 4. Grave Image 5. Among Us 6. Words of Dead Men 7. No Horizon 8. Plague of Virtue 9. A Servant 10. Return to Silence
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Line Up
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La band non fornisce informazioni in merito
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