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LEGEND CLUB, VIALE ENRICO FERMI 98 - MILANO

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ARCI BELLEZZA, VIA G. BELLEZZA 16/A - MILANO

Solitude Aeturnus - Through the Darkest Hour
29/08/2020
( 1793 letture )
The day has dawned
But not the light
Clouds like black ink
Spill through the sky
I feel an anger
Pulsing through my veins
All the injustice
Driving me insane.


Arlington, Texas, una ridente e verdeggiante città da quattrocentomila abitanti della Contea di Tarrant, parte nord ovest dell’enorme Stato della stella solitaria, che cresce attorno a corsi d’acqua, il Johnson Creek e il Trinity River, i quali formano anche piccoli laghi nell’abitato. Un bel posto, con una bella università, industrie in particolare nel settore delle auto e della ricerca scientifica, con temperature che, agli estremi, hanno toccato i quarantacinque gradi di massima e i meno ventidue di minima. Quarantanovesima città per abitanti degli Stati Uniti e settima del Texas, è la più grande città dello Stato a non essere sede di Contea, onore che tocca alla vicina Fort Worth. Ma, prima di ogni altra cosa, Arlington occupa un posto speciale nel cuore di ogni doomster che si rispetti perché è la città natale dei Solitude Aeturnus, band monumento dell’epic doom e, indubitabilmente, gruppo a torto tra i meno celebrati e considerati al mondo, nonostante una discografia che definire eccellente è quasi un eufemismo.
A dirla tutta, ad Arlington, per molto tempo e forse tuttora, non sapevano esattamente cosa farsene di una band doom. Guardiamoci negli occhi, il Texas è lo Stato degli ZZ Top, del blues, del country, del bluegrass, dei cappelli da cowboy e del record per esecuzioni capitali. Non è un posto che si associa facilmente al metal (e casomai al thrash) e men che meno al doom. Facendo un parallelo, Arlington è un po’ come fu Wichita per i Manilla Road: città di provincia, lontane dai circuiti che contano e dalle avanguardie e diffidenti verso tutto ciò che esce dalla norma e dalla tradizione. Formati nel 1987 da John Perez, i Solitude dovranno andare incontro a diversi problemi e cambi di formazione, prima di diventare Solitude Aeturnus e trovare una line up stabile, che durerà inalterata dal 1989 al 1996 e produrrà i primi quattro album considerati classici della propria discografia, con l’ennesimo capolavoro, Adagio, che uscirà nel 1998 con un nuovo bassista, ai quali si aggiungerà solo nel 2006 l’uscita di Alone, a cui segue il silenzio. Un destino duro da accettare, considerato che parliamo appunto di una band stratosferica, che ha prodotto solo album di livello superiore e che può essere considerata, assieme ai Candlemass, la più importante di tutto il genere.
All’interno di questa discografia purtroppo dimenticata, esistono comunque un paio di album che sono generalmente addirittura meno considerati degli altri. Il primo dei due è appunto il terzo, Through the Darkest Hour, disco che per diversi aspetti è invece assolutamente fondamentale nello sviluppo dell’identità del gruppo e che risulta nel complesso affatto inferiore ai predecessori e, anzi, per certi versi anche più longevo.

Per non farsi mancare niente in termini di difficoltà, diremo che le prospettive iniziali non fossero proprio le più rosee: la band infatti piuttosto misteriosamente perde il contratto con la Roadrunner nel febbraio del 1993, appena rientrata dal tour di sei settimane di supporto ai Killers di Paul Di Anno. Rimessisi al lavoro senza perdersi d’animo, i cinque riescono a firmare un nuovo contratto con la Pavement Music nel dicembre dello stesso anno e, in virtù di questo, decidono di cambiare aria, andando a registrare il disco in Inghilterra, ai Rhythm Studios, nel maggio del 1994. Through the Darkest Hour sarà quindi pubblicato nell’agosto dello stesso anno e mostra alcune significative novità. Le caratteristiche tipiche del gruppo restano di base le stesse, ma si può percepire come le canzoni siano generalmente appena più semplici nelle strutture, in media appena più brevi, rinunciando in toto alle accelerazioni thrash del disco di debutto e andando ancora più a fondo nella tessitura doom, pur mantenendo le influenze di scale simil-orientali che ritroveremo in tutta la loro discografia. Dal canto suo, Robert Lowe sceglie un approccio meno “estremo” di quanto fatto su Beyond the Crimson Horizon, riducendo l’altissimo range vocale utilizzato nel disco precedente e scegliendo di interpretare maggiormente i brani, con toni medi che si adattano meravigliosamente alla sua bellissima voce, che non rinuncia comunque ad improvvise impennate, giusto per ricordare a tutti la sua impressionante estensione. Il risultato di questo processo di “asciugatura” è un disco estremamente equilibrato e rifinito, con nove brani molto diversificati tra loro, dotati ciascuno di una propria specifica identità e caratterizzati da un livello di scrittura altissimo, funereo, stupefacente e ammaliante al tempo stesso. Il tutto senza perdere neanche quella vaga connotazione prog che consente alla band di costruire brani dalle strutture movimentate e diversificate, pur senza ricercare complessità fini a se stesse. Equilibrio resta la parola vincente di Through the Darkest Hour e questo ci si aspetta da una band al terzo album: che abbia limato gli eccessi e le imperfezioni dei dischi precedenti e porti la propria formula al massimo livello formale.

Il disco si apre con Falling, opener perfetta con riff dinamico e sepolcrale al tempo stesso, refrain accattivante e decelerazione centrale mortale, esaltata al solito da un Lowe enorme, che non rinuncia a sovraincisioni e parlati per enfatizzare i passaggi. Le atmosfere mediorientali giganteggiano in Haunting the Obscure, sontuosa e regale nelle strofe quanto implacabile nelle ritmiche, che trovano respiro solo nello spettacolare ritornello, da urlare al cielo assieme a Lowe, salvo poi precipitare nelle ammorbanti decelerazioni poste subito dopo. Viene quasi da ridere a pensare che questo potrebbe essere considerato quasi un brano di “passaggio” rispetto alla doppietta in arrivo, tanto è perfetto nella costruzione e nelle soluzioni ritmiche e melodiche. Da tramandare ai posteri. The 8th Day: Mourning già dal titolo ci introduce in una dimensione dolente e densa di oscurità. Ritornano le atmosfere di Into the Depths of Sorrow, col riff portante solenne e funereo, accompagnato dalla ritmica di una chitarra elettrica in pulito, che crea lo spettro malinconico e sofferente assieme all’interpretazione di Lowe, stavolta misurato, con un refrain melodico e avvolto da una tristezza infinita e le strofe più sostenute. Stupendo il break centrale ed è proprio in questo brano, come dopo in Eternal, che si coglie il cambio di passo del gruppo rispetto al primo disco: più concreta asciuttezza, senza rinunciare in niente alle atmosfere tipiche. The 9th Day: Awakening evidentemente collegata alla precedente, come testimoniato dagli stralci del testo riportati all’inizio e alla fine della recensione, è invece un brano di riscatto, di rivincita, di lotta contro l’avverso destino e difatti il ritmo si fa più alto, con un bel riff sabbathiano a dettare la marcia e il refrain eroico, con doppio pedale a ventaglio a sostenere l’urlo di rivincita, seguito naturalmente dal solito giro mediorientale. Pain, che ricorda invece Beyond the Crimson Horizon, è forse la canzone più particolare del disco, già dall’aereo e sospeso inizio, che apre poi ad un riff-travertino di cemento armato e ad una strofa spezzata di grandissimo effetto dinamico, sulla quale il delay della voce di Lowe si adagia da par suo, per poi lanciare un refrain che più catartico non si potrebbe: ”Feel the pain” urla il singer, quasi senza pietà, a sottolineare l’unica reale condizione umana, nell’ottica doom. Canzone che poi prosegue in crescendo salvo essere brutalmente tagliata all’altezza dell’assolo, che lascia spazio ad una seconda parte arpeggiata con un assolo etereo e sepolcrale, che ben rende l’idea del disegno di copertina (non bellissima, a dirla tutta, come praticamente tutte le copertine della band), sulla quale Lowe incastra una nuova stupenda melodia, che viene però a sua volta brutalizzata dal ritorno al riff e alla sequenza iniziale che, quasi sadisticamente, viene di nuovo troncata sul crescendo, stavolta in maniera definitiva. A riportarci alla normalità è Pawns of Anger, classico midtempo eroico alla Solitude Aeturnus, con strofa su obbligato ritmico e Lowe che ruggisce la solita melodia perfetta, salvo poi tornare su un ritornello ancora una volta struggente, che alterna dolcezza e ruvidezza, lasciando il proscenio all’esortazione incalzante

Breath the burning air
So go ahead and kneel or bow
I will choose to stand
To be my own
Until the end
Until the end


A conferma del ritornante tema del riscatto e della lotta, per uscire “dall’ora più oscura” del titolo. A corollario l’ennesimo grandissimo assolo con finale incandescente, stavolta intero. Ci avviamo verso la conclusione del disco ed è da brividi la rievocazione di Dream of Immortality che apre Eternal (Dreams Part II). Il brano ricollegandosi al primo album mostra ancora una volta la crescita della band in termini di controllo della propria capacità espressiva, finalmente con un mixaggio all’altezza della situazione, per quanto ancora appena troppo scuro. Bellissimo il refrain dolente e ancor di più il break dell’assolo, mentre poco da dire c’è sulla insistita e stupenda qualità delle strofe, che alternano riff e sequenze armonizzate, con un finale che definire epico è poco. Perfect Insanity recupera dinamica e velocità, con una parte iniziale che conduce al potentissimo riff spezzato, sul quale Lowe si inserisce con un filtro alla voce, un binomio che ritroveremo in particolare su Adagio, mentre la strofa torna sul cantato armonizzato, con una parte centrale in continuo movimento che ben solleva l’album sul finale. Pezzo questa volta davvero di “passaggio” resta comunque su livelli altissimi ed ha appunto il pregio di anticipare soluzioni che saranno poi riprese dal gruppo anni dopo e di tenere alta la dinamica, salvo poi durare forse qualcosina di troppo sul finale. Ultima traccia, Shattered My Spirit ci congeda con un lento, prevalentemente acustico, arte di cui i Solitude Aeturnus sono maestri, con un’atmosfera che non potrebbe che essere di doloroso commiato, di abbandono e di resa, di fronte all’impossibilità di raggiungere la felicità e, con essa, la pace. Gli squassanti ingressi della distorsione sul ritornello rendono appunto questo senso di rabbiosa presa di coscienza, alla quale sembrano arrendersi i pensieri, più che lo spirito. Shattered, distrutto, come dopo una battaglia, appunto, che è ciò che siamo tenuti tutti a compiere: provare. Essere semmai sconfitti e annientati, ma provando. Strepitoso il break centrale, che nuovamente apre letteralmente l’animo e le emozioni dell’ascoltatore, come solo i grandi sanno fare.

Terzo disco capolavoro per i Solitude Aeturnus, Through the Darkest Hour come dicevamo soffre di un mancato riconoscimento postumo, che se non altro ha nel frattempo raggiunto il gruppo texano, più per l’esperienza di Robert Lowe nei Candlemass che ha gettato luce sulla “sua” band di provenienza, che per uno spontaneo risveglio da parte dei metal fan. L’album è senz’altro graziato da una produzione finalmente all’altezza, ma soffre per una copertina abbastanza anonima anche se coerente all’iconografia doom e anche per un nuovo monicker, sicuramente più in evidenza rispetto al medievaleggiante precedente, ma tutto sommato assai poco significativo. La storia ci dice che anche in questo caso la band deve contrattare mesi per la pubblicazione e, soprattutto, per il tour, che li vede di spalla ai Mercyful Fate negli States e ai Revelation in Europa. A fronte dei tiepidi riscontri in termini di vendite, il gruppo entra in una fase di stallo, salvo poi tornare in studio nel 1996 per il quarto album, Downfall, l’ultimo con la formazione “classica”. Sintesi mirabile dei primi due album e a sua volta disco praticamente imprescindibile, Through the Darkest Hour regala un’ora di musica di altissimo livello, dolente ed eroica. Il riscatto non arriverà, anche stavolta, lo spirito è distrutto, ma la lotta prosegue.

Stormbringer hear me
Down for days
The rain will end
Stormbringer hear me
Down for days
Free again.



VOTO RECENSORE
90
VOTO LETTORI
86.2 su 5 voti [ VOTA]
Legalisedrugsandmurder
Domenica 5 Maggio 2024, 11.05.20
7
Questo e Downfall sono i migliori come scrivevo 3 mesi fa; peccato che siano usciti quando il filone era in ribasso, li avessero pubblicati negli anni 80 sarebbero molto più conosciuti
duke
Domenica 5 Maggio 2024, 10.57.17
6
...riascoltato oggi....capolavoro....
Legalisedrugsandmurder
Giovedì 8 Febbraio 2024, 10.59.02
5
Con downfall per me è il migliore
iommi
Giovedì 8 Febbraio 2024, 10.40.44
4
bellissimo
Epic
Domenica 30 Agosto 2020, 10.20.10
3
Discone assoluto, band eccezionale. 82
The Outsider
Sabato 29 Agosto 2020, 13.49.56
2
Questo sì che è un discone con la D (di doom) maiuscola di una band impossibile da dimenticare! Ottimo rispolverato Saverio.
Duke
Sabato 29 Agosto 2020, 11.50.53
1
Tra...le migliori bands Doom....una leggenda...
INFORMAZIONI
1994
Pavement Music
Doom
Tracklist
1. Falling
2. Haunting the Obscure
3. The 8th Day: Mourning
4. The 9th Day: Awakening
5. Pain
6. Pawns of Anger
7. Eternal (Dreams Part II)
8. Perfect Insanity
9. Shattered My Spirit
Line Up
Robert Lowe (Voce, Tastiera)
John Perez (Chitarra)
Edgar Rivera (Chitarra)
Lyle Steadham (Basso)
John “Wolf” Covington (Batteria)
 
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