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27/04/25
THE LUMINEERS
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Solitude Aeturnus - Downfall
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03/09/2022
( 1530 letture )
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Il metal, e in generale la musica rock, è costellato da band ed artisti che hanno conseguito un successo inversamente proporzionale alla qualità della musica prodotta; musicisti che difficilmente hanno scalfito quel muro che separa i pochi che ce l’hanno fatta da chi è affondato nei mari dell’insuccesso, nonostante una proposta artistica altissima ed inattaccabile. Fato avverso, fortuna cieca, ambiente culturale, mancanza di promozione e pubblicazioni capillari, critica specializzata insensibile o peggio ancora ignara? I motivi di questi mancati traguardi sono molteplici e sovente concomitanti: a volte, senza ricorrere per forza al fatalismo (che fa molto doom), sembra quasi che il destino si accanisca con energia soverchiante nei confronti di determinati artisti, trascinandoli a fondo nelle tenebre dell’anonimato ogni qual volta essi intravedano le luci della ribalta. Se esistesse una classifica volta a premiare queste sfortunate realtà, i Solitude Aeturnus sarebbero inamovibili ed irraggiungibili al primissimo posto, inoppugnabile nonché amara realtà dei fatti. Senza addentrarci troppo nei dettagli, la storia della band di Arlington, Texas, è letteralmente scandita da eventi infausti sin dalla genesi: dall’obbligo legale di cambiare il nome da Solitude a Solitude Aeturnus al fallimento della prima etichetta discografica quando l’esordio era pronto per la stampa, solo per annoverarne alcuni: ancora prima di scendere in pista, la malasorte ha avuto costantemente un occhio di riguardo per John Perez e soci. A questo si aggiungono fattori ambientali e temporali non favorevoli: da uno stato natale, il Texas, non esattamente la culla del doom, agli anni, tra la fine degli eighties e l’inizio dei nineties, che videro l’esplosione del thrash prima e del grunge e dello stoner poi. Eppure, per stessa ammissione del leader indomito, John Perez, le avversità servirono per temprare lo spirito e la risolutezza della band, fornendo il propellente necessario per realizzare il proprio desiderio più profondo e sincero: produrre musica di qualità che avrebbe superato, immutabile, il passare del tempo, incurante del successo e delle mode in voga nel periodo d’appartenenza. Come uno scultore solitario, i Solitude Aeturnus, album dopo album, hanno scolpito e cesellato il proprio nome tra i grandi del metal tout court, riuscendo in pochissimi anni ad ammantarsi di un’aura di band leggendaria. Senza proclami o slogan il quintetto texano con pochi album monumentali, frutto di un durissimo lavoro, si è ritagliato uno spazio nel cuore degli appassionati, senza cedimenti né compromessi.
Downfall, quarto full-length in carriera, segue di soli due anni quel Through the Darkest Hour, che sancì lo status di alfieri del doom a stelle e strisce per i Solitude Aeturnus e li fece conoscere capillarmente grazie alla tournée con i Mercyful Fate. Rispetto al predecessore, inciso in Inghilterra, Downfall viene prodotto, registrato e mixato interamente da Dave Osbourn presso i Regal Studios di Dallas, per poi essere distribuito e pubblicato il 29 lugllio del 1996 dalla label Pavement Music. Il risultato finale, in termini di dinamiche e pulizia del suono, viene sin da subito pesantemente criticato sia dalla band che dalle riviste specializzate del settore, anche se i giudizi sul fronte artistico, nel complesso sono più che positivi. Stilisticamente la quarta prova sulla lunga distanza segue le orme di Through the Darkest Hour, un album che nel 1994 aveva segnato una svolta graduale, un passaggio dal metal aulico con vene progressive degli esordi ad un doom meno elaborato e volutamente più graffiante e diretto. L’album si potrebbe idealmente dividere in due segmenti, interrotti dalle centrali Elysium, un delirante spoken word salvato solo dall’interpretazione magistrale di Robert Lowe e dall’anonima cover di Deathwish dei Christian Death. Senza che ci siano necessariamente grosse variazioni stilistiche tra questi due blocchi della tracklist, si avverte comunque un cambiamento nel mood delle composizioni. Brani come l’opener, Phantoms, Only This (and Nothing More) e Together and Wither puntano sull’impatto; il riff portante è centrale nell’economia di brani più veloci e diretti, dove la sezione ritmica di Lyle Steadman e John Covington può lanciarsi in brevi sfuriate quasi al confine del thrash più melodico (Phantoms), elemento alquanto inusuale per un album doom. Anche nella cadenzata Together and Wither si avverte comunque un’urgenza, il bisogno di esprimere la propria arte in maniera meno strutturata, ne consegue che gli arrangiamenti siano volutamente ridotti all’osso, alla ricerca dell’essenziale. Quell’opera di snellimento stilistico, iniziata in Through the Darkest Hour, trova infatti in queste composizioni un definitivo compimento. Per evitare di connotare monocromaticamente la prima metà dell’album, Midnight Dreams, con i suoi rimandi ai Black Sabbath con Ronnie James Dio alla voce, riannoda il filo con il passato e permette a Robert Lowe di mettere in scena una prestazione teatrale e maestosa, dove ogni registro del doom viene interpretato e rinvigorito dall’ugola del cantante americano. La seconda metà di Downfall si riallaccia in maniera più palese agli album degli esordi, dove riappaiono quei tropi e quelle soluzioni grandiose, sospese tra il metal progressivo di fine anni ottanta e l’epic metal più puro. In brani quali These Are the Nameless e Chapel of Burning, magniloquenza e malinconia vanno a braccetto, le note e i testi dei Solitude Aeturnus ritraggono il passaggio da un passato eroico alla decadenza che affligge chi è sopravvissuto. John Perez può svincolarsi dalle strutture rigide del doom per riappropriarsi del suo strumento a 360 gradi. Tra arpeggi e riff, riaffiorano finalmente lunghi assoli, trademark dell’ascia texana, che non mancano di marchiare a ferro e fuoco queste composizioni rendendole più complesse e sfaccettate. Concern chiude Downfall, per chi scrive il picco più alto di tutto l’album, e tutti i membri della band vengono chiamati in causa in un gran finale che cala il sipario su un album di luci ed ombre, ma comunque eccellente. Cambi di tempo, l’alternarsi tra arpeggi e riff, e su tutto la voce di Robert Lowe che esalta e impreziosisce un brano al limite della perfezione. John Perez, da navigato veterano della musica, sa di avere tra le mani uno dei fuoriclasse assoluti che il metal abbia regalato negli ultimi cinquant’anni, gli permette di scatenarsi, di liberarsi dalle barriere e i vincoli imposti da un genere a volte troppo asfittico, e viene ampiamente ripagato con una prova che farebbe impallidire la quasi totalità dei cantanti metal attualmente in circolazione, un perfetto commiato per un album imperfetto sì, ma comunque di caratura nettamente superiore.
Downfall non riesce replicare interamente al suo predecessore in termini di qualità, complice anche una produzione che tenta di evocare la resa dal vivo della band, ma che offusca a volte il lavoro delle chitarre e della voce in favore di una sezione ritmica tellurica, sbilanciata nei suoni e forse troppo alta nel mixaggio. Il break centrale spezza volutamente l’ascolto, ma poteva essere gestito meglio, evitando sperimentazioni (Elysium) che non sono nelle corde della band, così come la scelta della cover, eseguita pedissequamente. Eppure, il resto di Downfall ha dei picchi qualitativi così elevati che fanno dimenticare o per lo meno minimizzare, buona parte degli errori commessi. Downfall risulta così l’ennesimo ottimo album di una band, i Solitude Aeturnus, che non ha mai conosciuto cali. Anche nell’ora più buia, quando le tenebre della malasorte hanno rischiato di affossare i cinque musicisti americani, il leader della band, Jonh Perez, non ha mai vacillato. E se la pubblicazione di Downfall ha di fatto sancito l’ennesimo divorzio discografico e conseguente cambio di lineup, il capitano ha guidato caparbiamente la propria nave attraverso l’ennesima tempesta, saldo al timone, e condotto infine i Solitude Aeturnus, feriti ma sopravvissuti, verso nuove rotte e nuove lidi, pronti a combattere, indomiti.
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6
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Non credo di poter riuscire ad esprimere quanto questo album abbia significato (e significhi tuttora) per il sottoscritto.
Altri dischi mi riportano alla memoria periodi personalmente bui, tanto da non riuscire ad ascoltarli; non è il caso dell' immenso Downfall che risento sempre volentieri nonostante tutto. |
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5
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Bonsoir Le Marquis. I Dreadnought sono una band eccellente, con una tale varietà stilistica da renderli sempre accattivanti. Chapeau. |
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4
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Album bellissimo come tutta la produzione dei Solitude Aeternus con un songwriting coinvolgente e molto intenso. Difficile scegliere un pezzo su un'altro anche se la doppietta iniziale è notevole.
Da ascoltare assolutamente con un grande vino da meditazione e rigorosamente da soli. Una musica che ti prende non poco. Una band che si distingue dal resto del panorama doom anche se ultimamente aggiungerei i Dreadnought (anche loro Statunitensi di Denver) veramente originali. Qui comunque siamo al top. Au revoir. |
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3
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Bellissimo, forse il mio preferito del gruppo |
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2
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...ottimo disco.....band eccezionale.....da avere assolutamente....un must...per gli amanti del doom..... |
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1
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Il disco grazie al quale ho scoperto questa meravigliosa band, ormai venticinque anni orsono. Sempre siano lodati gli scomparti delle offerte dei negozi di dischi, nei quali frugare a ore in cerca di qualcosa che attiri l'attenzione. In questo caso, un nome che non poteva non richiamare i Candlemass e una doppietta iniziale come Phantoms e Only This. Ho ancora i brividi a pensarci, non potevo crederci. Tra i migliori soldi mai spesi in vita mia. Mi mancano tantissimo. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Phantoms 2. Only This (and Nothing More) 3. Midnight Dreams 4. Together and Wither 5. Elysium 6. Deathwish 7. These Are the Nameless 8. Chapel of Burning 9. Concern
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Line Up
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Robert Lowe (Voce) John Perez (Chitarra) Edgar Rivera (Chitarra) Lyle Steadman (Basso) John "Wolf" Covington (Batteria)
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RECENSIONI |
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