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Stoner - Stoners Rule
03/08/2021
( 1932 letture )
Una sonora presa in giro. Uno scherzo che non fa per nulla ridere. Una provocazione non riuscita. Un atto di superiorità risolto però in uno scivolone imbarazzante. Questi sono solo alcuni dei pensieri che si accavallano nella mente quando si ascolta Stoners Rule, l’indecente debutto del supergruppo composto dagli ex membri dei leggendari Kyuss Brant Bjork e Nick Oliveri.
Tutto ha inizio nel dicembre del 2020, quando viene annunciata una serie di concerti in streaming in diretta dal deserto del Mojave – idea forse ripresa dopo il successo del meraviglioso live degli Yawning Man pubblicato nell’ottobre dello stesso anno – e tra alcune band dai nomi celebri come Earthless e Nebula compaiono gli anonimi Stöner: dietro un moniker tanto banale si nasconde in realtà il motore ritmico dei Kyuss, che inizia a rilasciare video di esibizioni live più invitanti a causa dei membri coinvolti piuttosto che per la musica in sé.
Successivamente, nel maggio del 2021, la nuova band appena formata rilascia i primi singoli con il benestare di Heavy Psych Sounds Records, la quale deve aver fiutato un affare non da poco con i musicisti in ballo nel progetto. Il disco si presenta invero molto bene, con una copertina gradevole e una tracklist breve che lascia presagire brani lunghi e un’aura psichedelica ben pronunciata. Ciò che vi è contenuto invece lascia davvero basiti e con un amaro in bocca difficile da descrivere, soprattutto per chi si definisce amante dello stoner rock e del suono del deserto coniato anche da Bjork ed Oliveri all’alba degli anni ’90.

Sono due i termini che si possono affibbiare a Stoners Rule per inquadrarlo nella maniera più breve e concisa possibile: banalità ed approssimazione. Il primo riguarda il songwriting, spento e mai brillante, che si basa principalmente sulla scrittura di Bjork, da tempo legata a doppio filo ad un’impostazione blues elementare apprezzabile nei suoi album solisti, ma qui decisamente ridotta all’osso in maniera irritante. Il secondo si rifà alla produzione, a cura (cura?) di Yosef Sanborn, che risulta insufficiente sotto quasi tutti i punti di vista. È chiarissimo il concetto alla base di questo album: voler tributare un sound ormai istituzionalizzato attraverso le sue componenti fondamentali, arrivando all’essenza stessa del desert rock. Un proposito lodevole, dal momento che i protagonisti sono gli stessi musicisti che quel sound lo hanno forgiato, perciò chi meglio di loro ne potrebbe conoscere le basi? Il risultato però lascia esterrefatti in quanto quello che si ascolta nel prodotto finale suona talvolta molto peggio di un qualunque demo di una band esordiente registrato nel garage di casa.
L’introduzione di Rad Stays Rad è eloquente per esplicitare tutto ciò che abbiamo detto finora: un fuzz sgonfissimo dà avvio ad un riff di chitarra sul quale si appoggia il basso di Oliveri, che qui gode di un suono fin troppo pulito per i suoi standard. Le prime parole che Bjork pronuncia sono “Hey Ho Let’s Go” e la partenza non può che essere a questo punto disastrosa. Ryan Güt alla batteria (già presente in un paio di dischi solisti di Brant Bjork) non aggiunge assolutamente nulla ad un brano che non ha inizio né fine, ma si limita solamente a macinare minuti su minuti ignorando qualunque tipo di dinamica e trascinandosi stancamente sulle linee vocali di un Bjork piattissimo, ravvivato solo dagli innesti di Oliveri in qualche sporadico coro. Sei minuti e mezzo che sembrano durare il doppio non sono un buon biglietto da visita e la monotonia che regna sovrana nel brano ha solo l’effetto di annoiare e non, al contrario, di fungere da espediente lisergico.
Questa è la cifra stilistica che dà forma al disco e che caratterizza un songwriting praticamente inesistente basato su una singola idea ripetuta ad libitum per l’intero svolgimento dei brani. Chiaramente il carisma di due personaggi come Bjork ed Oliveri si sente e probabilmente è solo questo aspetto che salva l’album dal baratro assoluto della mediocrità: bene o male la voce del chitarrista è riconducibile allo stoner rock, anche se non gode dell’unicità di timbro di un John Garcia, e i suoi suoni sono comunque quelli che una buona fetta di fan associa al deserto californiano, così come lo stile del bassista è piuttosto riconoscibile e nei rari casi in cui Oliveri si prende cura delle composizioni il suo estro risalta: Evel Never Dies è una scheggia punk che, sebbene suoni spompatissima e debole, in un contesto come questo assomiglia quasi ad un brano hardcore da quanto si distacca dal mood generale. L’impronta dei mai dimenticati Dwarves è ben percepibile, ma ancora una volta è la produzione vergognosa che non rende giustizia ad un brano banalissimo, ma che poteva risultare godibile.
Quando si parla del carisma dei personaggi coinvolti esso può essere ben descritto da un episodio mediamente gradevole come Stand Down, dove il blues sciamanico della chitarra trova una dimensione finalmente adatta per essere esaltato grazie a riff semplici, ma ficcanti e ad uno svolgimento complessivo un pelo più fantasioso del solito. Rimangono comunque del tutto assenti le dinamiche e la batteria continua a non offrire nessun contributo davvero significativo, come d’altronde il basso di Oliveri, fermo su un'unica nota per buona parte del brano. Non male però lo special che arriva dopo i primi tre minuti, dove le carte si mescolano leggermente e finalmente le frequenze basse emergono maggiormente, anche se in maniera fin troppo confusionaria.
In ogni caso la batosta più infida la si trova alla fine, con i tredici minuti di Tribe/Fly Girl: inizio in realtà interessante per via di un approccio tribale che va a richiamare vagamente i momenti più psichedelici dei Kyuss, ma per l’ennesima volta la stessa idea viene riproposta per una durata interminabile rendendo il tutto ben presto tedioso. Fortunatamente per la prima volta in tutta la scaletta, intorno al quinto minuto, l’intensità comincia ad aumentare ed anche la batteria si rende maggiormente protagonista con dei fill finalmente diversi dal solito e un approccio più genuinamente rock e meno blues. Il problema fondamentale però è che il brano non decolla mai e il tutto poteva essere risolto in meno della metà della durata complessiva: i riff si appiccicano l’uno all’altro senza soluzione di continuità e nella seconda parte si assiste ad una jam che di originale ha ben poco, se non dei suoni che per qualche istante danno l’apparenza di essere azzeccati. Le jam lisergiche dei Kyuss, ad ogni modo, sono lontane anni luce.
Il finale un po’ più tirato risveglia dal torpore dei minuti precedenti, ma l’unica nota positiva che porta con sé è quella relativa alla consapevolezza che finalmente il disco è terminato.

Stoners Rule poteva essere un’opera da sogno per tutti gli adepti dello stoner rock, ma i musicisti in gioco hanno probabilmente giocato al ribasso, forti della propria personalità e del fatto che questa sarebbe bastata per comporre un disco dignitoso. Forse è lo stesso pensiero che ha avuto anche Heavy Psych Sounds Records al momento di rilasciare l’album, ma entrambi hanno avuto torto, poiché il risultato finale parla da solo.
Nessuno vieta che Stoners Rule potrà piacere a qualcuno e si leggono già commenti entusiasti da parte di svariati critici e fan, accorpati però alle altrettanto numerose stroncature che il disco sta ricevendo a livello internazionale. Non c’è dubbio che gli Stöner finiranno piazzati in qualche classifica di fine anno, ma bisognerebbe avere il coraggio di valutare la musica senza il filtro dei nomi coinvolti e chiedersi cosa sarebbe potuto succedere se al posto di Bjork ed Oliveri a rilasciare questo disco fossero stati Tizio e Caio.
Ciò che fa innervosire ancora di più poi è che Stoners Rule verrà considerato molto di più rispetto a tanti altri dischi underground o indipendenti che meriterebbero ben più attenzioni e questo fa male ad una scena che ha nella saturazione delle pubblicazioni il suo più grande problema.
In conclusione se avete apprezzato il debutto del supergruppo in questione date almeno una possibilità anche alle centinaia di album stoner rock che passano ogni giorno in sordina nel web; anche ad occhi chiusi si trova di meglio, decisamente di meglio. E soprattutto meritevole di essere sostenuto.
Per tutti gli altri invece il consiglio è quello di aspettare gli sviluppi dell’eventuale reunion dei Kyuss annunciata mesi fa; chissà che Josh Homme e John Garcia non ci facciano un regalo più gradito di quello che ci hanno donato Brant Bjork e Nick Oliveri.



VOTO RECENSORE
42
VOTO LETTORI
59.28 su 14 voti [ VOTA]
Enrico
Sabato 23 Ottobre 2021, 22.31.27
5
Dopo l'ennesimo ascolto, gli do un 60 perché mi piace parecchio l'ultimo brano da oltre 13 minuti. Diciamo che quel pezzo, secondo me, può essere un buon punto di ripartenza per il prossimo disco.
Galilee
Mercoledì 4 Agosto 2021, 8.53.40
4
E concordo con Alex, l'idea di base del disco è fica. Però...
Galilee
Mercoledì 4 Agosto 2021, 8.52.08
3
È la prima volta che ascolto dei pezzi rock composti da meno note di una canzone di Ligabue. Ho degli amici che hanno band.. Sun of a beach, black wings if destiny etc Che ci pisciano sopra a sta porcheria.
Korgull
Mercoledì 4 Agosto 2021, 6.54.57
2
Severo ma giusto. Quest'album avrebbe dovuto farmi saltare sulla sedia ma ė alla fine una jam tra amici scazzati che aspettano l'ora di cena. Brutto, noioso, registrato male e con nessunissima buona idea. Mi viene da dire che il voto di Alex ė anche generoso.... Stavolta Bjork e Olivieri gli scenari desertici li avevano solo in testa
alifac
Martedì 3 Agosto 2021, 18.00.50
1
Grafica del Logo presa "in prestito" dai KISS... Gene sta allertando gli avvocati...
INFORMAZIONI
2021
Heavy Psych Sounds Records
Stoner
Tracklist
1. Rad Stays Rad
2. The Older Kids
3. Own Yer Blues
4. Nothin’
5. Evel Never Dies
6. Stand Down
7. Tribe / Fly Girl
Line Up
Brant Bjork (Voce, Chitarra)
Nick Oliveri (Voce, Basso)
Ryan Güt (Batteria)
 
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