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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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Vildhjarta - Måsstaden under vatten
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15/12/2021
( 2467 letture )
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Un intero decennio è trascorso dall’uscita di Måsstaden, esordio degli allora promettenti Vildhjarta, band svedese in rampa di lancio dopo l’EP Omnislash e la firma con la prestigiosa Century Media Records. L’album ai tempi spaccò la critica (e i fan) provocando un’accesa battaglia polarizzata in due opposte fazioni: da un lato, chi lo considerava nient’altro che una copia scialba dei conterranei Meshuggah, dall’altro chi lodava la volontà di confrontarsi con quel preciso sound adattandolo però ad esigenze differenti. In seguito a quel debutto tanto controverso, il gruppo -ad eccezione di un extended-play (Thousands of Evils, 2013)- fece perdere completamente le proprie tracce fino al 2019, anno del singolo den helige anden che avrebbe dovuto anticipare kaos2, titolo work-in-progress di una seconda release prevista nel 2020. Ovviamente la pandemia ha fatto saltare il piano originale e così l’atteso sequel si è materializzato solo a fine 2021, riprendendo il discorso esattamente da dove era stato lasciato.
Måsstaden under vatten (la città dei gabbiani sott’acqua) è infatti un altro concept allegorico ricco di simbolismo, ardite metafore e concezioni esistenziali legate al tema del viaggio, la conoscenza di sé, il rapporto con la dualità luce/ombra e con entità astratte come vita, morte e il destino. L’attualizzazione di argomenti così densi a livello semantico avviene tramite una musica altrettanto magniloquente e impegnativa, elaborata sotto forma di un pantagruelico djent snodantesi lungo diciassette brani per una durata complessiva di ottanta minuti, come se fossimo innanzi ad un poema epico del passato trasfigurato in chiave moderna. Chi deciderà di affrontare quest’opera immane, deve necessariamente avere dimestichezza con la materia djent, altrimenti il cammino sarà troppo faticoso e a dir poco insostenibile: è vero che i Vildhjarta non stritolano l’ascoltatore con le folli ed ossessive meccaniche dei Meshuggah, però lo scenario da essi apprestato comprende in ogni caso orde di riff in accordatura ribassata, poliritmie, tempeste sincopate pronte a scatenarsi in ogni momento, decelerazioni, ripartenze improvvise e labirinti di tempi dispari. In un simile tempio della dissonanza” la claustrofobia e un opprimente senso di angoscia rischiano di essere soverchianti, ma la band è abile nello spezzare l’asfissia generatasi mediante incisi di chitarre clean, lenitivi break ambient e trame elettroniche regolate da tastiere mai sopra le righe, fondamentali per dar ossigeno all’ascoltatore. La formazione attuale, ridotta a quattro elementi (rispetto ai sette di Måsstaden), si affida all’unico cantante rimasto Vilhelm Bladin, sicuro nel padroneggiare -rigorosamente in lingua madre- il growl e lo scream senza precludersi anche qualche rara divagazione in pulito; in molte composizione si ricorre inoltre all’uso dei cori, espediente atto ad amplificare l’enfasi e la gravitas del cantato principale.
Il lungo percorso verso l’immaginaria città ha inizio dalla strumentale lavender haze, vortice di fratturate ritmiche djent e barlumi di gelida melodia. D’ora in poi le sferzate del vento e gli spuntoni acuminati di ghiaccio saranno le nostre guide, come esemplificano la rocciosa när de du älskar kommer tillbaka från de döda (quando le persone amate tornano dalla morte), la chirurgica toxin -un misto di growl sprezzante, blast-beat e cori innevati- o la mancata title-track kaos2, introdotta dai minacciosi rintocchi del basso e prima traccia ad accogliere le brevi schiarite delle clean vocals. Fra le contorte serpentine djent-y della tetra brännmärkt e la solennità di den helige anden (under vatten), si arriva ad un importante punto di svolta in passage noir, sospirata visione di un faro nelle immensità di un oceano senza confini, dimostrazione concreta che la strada intrapresa è quella giusta. L’inno della città risuona in måsstadens nationalsång (under vatten), mentre i richiami di una melodia quasi ancestrale si insinuano tra le pieghe della micidiale heartsmear, accettazione di essere figli di un’oscurità nella quale prima o poi dovremo fare ritorno. Una voce di incerta provenienza eppure familiare riecheggia in Vagabond, sette minuti in cui la mattanza djent viene interrotta da break di cristallina purezza e dal tono evocativo dei molteplici cori: è vero, il cuore si sta facendo man mano più pesante (mitt trötta hjarta) e la ritualità del luogo mette i brividi (phantom assassin), ma ormai la meta è a portata di mano. Sunset Sunrise Sunset Sunrise -tra un growl vorace, ricami ambient e rinnovate sezioni di cantato pulito- annuncia il raggiungimento della missione, definita amara eppure senza alcun rimpianto; dopotutto, grazie a questa peregrinazione ci siamo sollevati dal cumulo di ceneri che definiamo vita e abbiamo fatto breccia in una dimensione extra-sensoriale al di là della fisica umana. In un posto del genere -dimenticato e forse mai più accessibile- ci siamo ritrovati, ma qual è la ricompensa per tale impresa? Il titolo dell’ultimo brano costituisce la risposta: paaradiso. Dieci minuti che sanno di eternità, fluenti nelle rapide del djent e nelle dilatazioni melodiche premianti la caparbietà mostrata nel voler conseguire un obiettivo tanto ambizioso.
Måsstaden under vatten, più che un semplice album, è a tutti gli effetti una sfida probante (non solo per gli ascoltatori ma anche per il redattore), un atto di fede negli apostoli del djent riemersi da un oblio decennale e sicuri che il loro verbo continuerà ad essere tramandato. Inaffrontabile per i neofiti, il nuovo lavoro degli svedesi dal cuore selvaggio (questo il significato di Vildhjarta) è un vero e proprio compendio delle caratteristiche principali del djent, corredate da mirati layer melodico/atmosferici e da una narrazione arcana di grande spessore. Impresa titanica certo, però se qualcuno avesse il coraggio (o l’incoscienza) di approcciarsi a un simile contesto, sappia che in cambio avrà un lasciapassare per un mondo “altro” temibile e affascinante allo stesso tempo: lasciatevi guidare dal volo dei gabbiani per vivere un’esperienza in musica temprante e impossibile da dimenticare.
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5
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Come ben detto da Salironth bisogna aver la volontà di dedicare a quest'opera il tempo che serve per riuscire a comprenderla e forse il tempo non sarà mai sufficiente per comprenderla del tutto.... sono solo all'inizio di questa lenta assimilazione ma posso già dire di essere di fronte a qualcosa di unico, di incredibile e di sconcertante!!! Che viaggio!!! |
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4
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A regà... sto disco è un capolavoro, e si.. somigliano ai Messhuggah, ma nel contempo sono totalmente diversi.
Spettacolare l'antitesi chitarra baritona/chitarra shimmered.
Un capolavoro. e sono più che contento di aver sentito quest'album in cuffia mentre sciavo per montagne innevate, tanto per sentire ancor di più il mood glaciale dentro  |
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3
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Il loro primo lavoro non mi aveva fatto impazzire, ma per quanto mi riguarda qui siamo su un altro pianeta.
Måsstaden under vatten è un lungo viaggio impervio e periglioso, dove il rischio di cadere in giudizi affrettati è dietro l'angolo. I brani, pesanti e apparentemente caotici, si susseguono l'un l'altro come capitoli di uno stresso racconto destrutturato e contorto, in cui non v'è posto alcuno per strofe e ritornelli.
Le atmosfere cupe e opprimenti, sapientemente rese da arpeggi onirici e delicati, vengono di continuo esaltate da sezioni articolate e variopinte, in cui la possenza delle note più basse viene di continuo punteggiata da stilettate acute e dissonanti.
Lo stile, tuttavia, si discosta non poco da quello dei giganti di Umeå. Nei Vildhjarta, e ancor di più in quest'ultimo loro lavoro, le ritmiche, per quanto irregolari e mai vagamente prevedibili, confluiscono coese in uno "stil nuovo" tutt'altro che dolce in cui confluiscono componenti sperimentali eterogenee. Le evocative tinte doom di derivazione scandinava riprendono a tratti un feeling gojiriano che adombra la derivazione meshugghiana dei suoni.
Date a quest'opera monumentale le energie cerebrali necessarie per poterla capire. Datele lo sforzo e il tempo che merita. Solo così potrete entrare a far parte della nicchia di ascoltatori cui è per ora destinata. Solo così potrete apprezzarla per ciò che è, e cioè un capolavoro di visionaria ispirazione. |
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2
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Concordo in pieno con il signore qua sotto.
Aggiungo che questo secondo me è il disco che davvero evolve il concetto di suono meshugghiano, senza contaminarlo troppo o portarlo verso altri lidi, ma rendendolo ancora più destrutturato e imprevedibile. Epocale. |
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1
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per me signori, sto disco è da 95, pochi cazzi, solo loro suonano roba talmente assurda in sta maniera, chi li chiama cloni dei meshuggah non capisce un beato nulla |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. lavender haze 2. när de du älskar kommer tillbaka från de döda 3. kaos2 4. toxin 5. brännmärkt 6. den helige anden (under vatten) 7. passage noir 8. måsstadens nationalsång (under vatten) 9. heartsmear 10. vagabond 11. mitt trötta hjarta 12. detta drömmars sköte en slöja till ormars näste 13. phantom assassin 14. sunset sunrise 15. sunset sunrise sunset sunrise 16. penny royal poison 17. paaradiso
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Line Up
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Vilhelm Bladin (Voce, Basso) Daniel Bergström (Chitarra) Calle-Magnus Thomér (Chitarra) Buster Odeholm (Batteria)
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RECENSIONI |
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