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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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16/09/2022
( 718 letture )
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Ormai sono venti gli anni di attività del duo canadese dei Nadja, coppia sia nella musica che nella vita e da anni residenti a Berlino, culla per antonomasia delle sonorità più sperimentali d’Europa e non solo. Alfieri di una complessa sintesi tra drone music, noise e doom metal, Aidan Baker e Leah Buckareff si sono ritagliati un posto di spicco all’interno della comunità estrema internazionale, grazie ad una produzione discografica sterminata e a concerti live all’insegna dell’acufene. L’interesse per i canadesi è aumentato nel corso del tempo, tanto da scomodare etichette importanti come Profound Lore e Southern Lord, ma la band ha sempre preferito muoversi in territori underground, decisamente più ricettivi verso la proposta singolare del progetto. Torniamo ora per un momento al 2021, anno di uscita di Luminous Rot, il ventiquattresimo album in studio del gruppo (ma senza considerare Ep, split, live…) e primo vero segnale di interesse da parte della scena metal nei riguardi del gruppo: con quel disco Baker e la Buckareff cercavano di plasmare la propria musica per renderla maggiormente avvezza ad un pubblico metal tout court, mantenendo comunque fede al sound originario drone/doom, ma contemporaneamente ricercando soluzioni meno sbilanciate verso il noise. Quell’anno il disco viene recensito positivamente da buona parte della critica che, spesso, si accorge per la prima volta della band e questo porta ulteriore notorietà ai due musicisti, costantemente impegnati a portare la propria musica dal vivo. Ecco però che, nel febbraio dell’anno in corso, esce quasi a sorpresa un nuovo lavoro intitolato Nalepa, il quale cambia le carte in tavola spostando il baricentro del songwriting su versanti al confine tra ambient e post rock, per un risultato oscuro e a tratti impenetrabile, per il quale collabora la batterista Ángela Muñoz Martínez. L’ennesimo aspetto curioso sta nel fatto che, contemporaneamente, lo stesso Aidan Baker pubblica da solista un album con lo stesso titolo, che invece propone sonorità drone con svisate addirittura jazz e space rock! Entrambe i lavori sono registrati live in studio con pochissima post produzione. Prevedibilmente la scena metal snobba il tutto, ma la cosa sembra non interessare ai nostri, che ritornano a settembre con Labyrinthine: eccoci dunque al cospetto di un’ora abbondante di sperimentazione sonora, che cerca di aggiudicarsi lo spettro di opera più estrema e sfidante mai composta dai due canadesi.
Labyrinthine è un incubo ad occhi aperti che si svolge lungo quattro brani dalla durata elevata, ma che ha la particolarità – inedita per i Nadja – di ospitare per ogni composizione un cantante diverso. E quindi, per la prima volta nella carriera del duo, la voce diventa l’elemento cardine in fase di scrittura, il fulcro attorno al quale sviluppare i pezzi e concentrare l’attenzione dell’ascoltatore. Per l’occasione la componente strumentale fa un passo indietro, lavorando più sugli arrangiamenti e meno sul costruire muri sonori o droni infiniti, talvolta lasciando addirittura spazio per cantabili melodie vocali che assurgono al ruolo di protagoniste assolute. Ma non si deve pensare che la violenza diminuisca anzi, se possibile sono proprio i momenti più catartici a rivelarsi più complicati da sostenere. Introdotto da una copertina enigmatica il disco svela se stesso attraverso una struttura ad anello, ben esemplificata dai brani: in apertura e chiusura viene esaltata la potenza elettrica degli strumenti e la furia delle voci e nel mezzo invece si vive in una dimensione più riflessiva, grazie all’impiego delle voci femminili. Andiamo con ordine, partendo dalla titletrack, che vede dietro al microfono il veterano del drone/doom metal Alan Dubin, voce dei defunti Khanate ed attualmente in forza al progetto noise Gnaw: la partenza è sommessa e lascia che siano i feedback degli amplificatori ad esprimersi, accompagnati da estenuanti percussioni industriali; le corde vocali di Dubin vengono manipolate elettronicamente fino a renderle strazianti e lo screaming belluino del cantante rimbalza su tonanti note di basso fino a spegnerle completamente intorno al quinto minuto. Si riparte subito però e senza mai abbassare l’intensità, con il volume che aumenta fino a creare un’indescrivibile ibrido industrial/noise doom metal capace di annichilire al primo ascolto, ma successivamente mostrare un po’ la corda per via di un minutaggio prossimo al quarto d’ora. Violenza cieca che rivela un testo nichilista e nero come la pece, ma che si stempera nella successiva Rue: in questo caso sale in cattedra Rachel Davies dei validi Esben and the Witch, la quale offre una prova convincente per un brano che si muove sottopelle tra battiti industrial e ritualistici; l’ascolto qui è reso più fruibile e sicuramente la prima parte della composizione non dispiacerebbe affatto ai fan di nomi come Lingua Ignota e Marissa Nadler, ma ecco che intorno al decimo minuto la chitarra di Baker deflagra in un turbinio elettrico che ricorda gli ultimi Low e alcuni sparuti vocalizzi annegano in un mare industrial/noise qui realmente coinvolgente. Non c’è spazio per respirare perché immediatamente inizia Blurred e un nuovo rumore asfissiante prende posto sulla scena. Stavolta la parola chiave è ciclicità: tutto il brano sfrutta ritmiche ripetitive ed anche la voce di Lane Shi Otayonii – degli Elizabeth Color Wheel – segue la stessa linea, subentrando dopo quasi cinque minuti di assalto noise/drone con un timbro sofferto riuscendo ad ipnotizzare istantaneamente. La cantante regala alcuni dei momenti vocali più ragguardevoli dell’album e intorno all’undicesimo minuto inizia a recitare una sorta di mantra destinato a spegnersi solo sei minuti più tardi, con la musica che raggiunge livelli di insostenibilità altissimi. Un esperimento riuscito forse a metà – ma vai poi a sapere cosa avevano in mente i Nadja – con una prima parte seducente ed una seconda insostenibile, non necessariamente in senso positivo. Si arriva stremati all’ultimo brano, che era stato rivelato in parte negli scorsi mesi, ovvero Necroausterity; qui l’ospite è di nuovo un uomo e nello specifico il talentuoso Dylan Walker dei fenomeni noise-grind Full of Hell. Quasi diciannove minuti di tormento auditivo con un avvio tutto sommato contenuto, ma che poi lascia spazio alle urla disumane di Walker che vengono lasciate spesso da sole a portare avanti il brano. La musica diventa a tratti robotica, con percussioni metalliche che rimbombano all’unisono con il basso di Leah Buckareff, mentre la voce diventa sempre più simile ad uno strumento sonoro portato all’estremo delle possibilità. Nella seconda parte, dopo un crescendo terrificante, la voce rimane unica protagonista del brano per tre minuti buoni prima che il basso torni possente a concentrarsi su un’unica nota condotta con stakanovismo invidiabile fino alla conclusione del pezzo. Rimangono persistenti sullo sfondo alcuni suoni riconducibili forse a sintetizzatori, che aumentano la componente meccanica e riescono nell’intento di inquietare e disturbare allo sfinimento l’ascoltatore.
Labyrinthine finisce così, dopo un’ora e due minuti di terrore, ma anche tanta – a volte troppa – noia. Se i due canadesi volevano shockare e spiazzare chiunque probabilmente sono riusciti nel loro intento, anche se i fan di lunga data sicuramente non avranno scorto troppe novità in questo disco; senza dubbio l’esperimento delle quattro voci diverse è curioso e per certi aspetti azzeccato: se questa fosse stata una pubblicazione solamente o prevalentemente strumentale l’interesse da essa suscitato sarebbe stato minore, ma gli ospiti contribuiscono a rendere più vario l’ascolto e allo stesso momento anche più terribile. Il minutaggio poi è davvero fuori misura, anche per chi non accetta compromessi come i Nadja; per un’opera del genere si poteva stare abbondantemente sotto l’ora di durata e il risultato finale ne avrebbe giovato moltissimo. Ne esce totalmente vincente solo Rue, che si fa notare in positivo e si lascia ascoltare e riascoltare grazie alla buona sapienza utilizzare nel dosare gli ingredienti del brano; il resto è un insieme di idee e spunti buoni, a volte ottimi, ma tirati o troppo per le lunghe o resi estremamente monotoni. Logicamente la ripetitività e la monotonia sono alcuni dei tratti distintivi dei lavori di questa band, ma nel caso specifico essi si rivelano controproducenti, andando a rovinare composizioni che con qualche accorgimento in più avrebbero potuto posizionarsi tranquillamente tra le cose migliori mai prodotte dal duo. Rimane quindi l’ennesimo album da annoverare nella discografia di Aidan e Leah, ma purtroppo non possiamo parlare di un lavoro riuscito del tutto.
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2
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@Marzio Per essere una mattonata è una mattonata, innegabile. Ma sia in senso positivo che negativo. Comunque lo conoscerai, ma io ho apprezzato moltissimo il recente disco di Baker "Tenebrist" uscito lo scorso maggio. Lo stile è quello, ma è un noise molto chitarristico ed atmosferico, interessantissimo. |
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La solita indigesta mattonata.
Peccato, quanto rimpiango ad esempio le collaborazioni di Aidan con Tim Hecker. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Labyrinthine 2. Rue 3. Blurred 4. Necroausterity
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Line Up
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Aidan Baker (Chitarra, Drum Machine) Leah Buckareff (Basso)
Musicisti Ospiti: Alan Dubin (Voce su traccia 1) Rachel Davies (Voce su traccia 2) Lane Shi Otayonii (Voce su traccia 3) Dylan Walker (Voce su traccia 4)
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RECENSIONI |
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