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Lux Incerta - Dark Odissey
15/10/2022
( 377 letture )
I Lux Incerta (che dal latino è traducibile con qualcosa come "luce dell’alba") sono un five piece proveniente dalla terra dell’Hellfest, che si è formato nel 2000, proprio al volgere del secolo. Già dall’anno successivo esce il primo di quelli che saranno ben quattro EP, di cui uno non è altro che la riedizione nel 2007 dell’omonimo Lux Incerta. Viene quindi da chiedersi: con i cortometraggi se la cavano bene, ma quando potremmo assistere al loro primo full length, così da poter apprezzare appieno le qualità della band sul lungo periodo? Per arrivare a questo dobbiamo attendere quattro anni, quando l’uscita di A Decade of Dusk sancisce a livello ufficiale l’attività dei francesi ed ottiene anche un discreto riscontro di critica e pubblico. Nonostante ciò, si assiste all’interno del gruppo ad una piccola diaspora e la band rimane in pausa per qualche anno, salvo poi riunirsi nel 2018 con l’aggiunta di nuovi componenti. E’ così che dopo altri quattro anni è il momento di tornare in pista con Dark Odissey, ma prima di parlare del disco sono necessarie le presentazioni. I membri presenti all’interno della band dall’alba dei tempi sono il chitarrista principale Arkham ed Argom, la voce della band, che si è occupato anche di alcune partiture di basso. A completare la formazione ci pensano il bassista effettivo Maxime Pascal, Pheel Ti alla batteria e l’altra chitarra Tibo Pfeifer.
Si definiscono una band affine a Paradise Lost, My Dying Bride e Cathedral. Nomi grossi, nomi che fanno tremare i polsi e creano subito un sacco di aspettative altissime, ma nel corso dell’ascolto si scoprirà che gli accostamenti non sono sbagliati, soprattutto per quanto riguarda lo stile cupo e goticheggiante con cui i nostri si approcciano al doom. Stando sempre alle parole dei Lux Incerta, il concept alla base di Dark Odissey riguarda un viaggio interiore, alla ricerca della propria persona nelle profondità del proprio animo, viaggiando tra luci ed ombre in compagnia della tristezza, della felicità e della morte. Quest’ultimo elemento è particolarmente importante poiché il loro compagno Shervine viene purtroppo a mancare due settimane prima di entrare in studio, e l’album è dedicato alla sua memoria. Ora sì è il momento di parlarne.

Piazzano subito all’inizio una suite dal titolo Far Beyond the Black Sky, della durata di quindici minuti. Un modo per introdurre l’album in modo sostanzioso e allo stesso tempo darci un assaggio di quello che ci aspetta, dato che l’opener cerca di racchiudere al suo interno tutti gli elementi che fanno parte del sound proposto dal gruppo. Il rumore della tempesta fa da cornice alle prime note di pianoforte, che ci accoglie nel mondo malinconico e drammatico dei Lux Incerta. Se questo aspetto era facilmente intuibile, uno degli elementi che invece non era scontato riscontrare è la dinamicità delle partiture, quasi progressive verrebbe da dire, e se mettiamo insieme i numerosi cambi di tempo, le transizioni continue, i pattern articolati di batteria, si potrebbe quasi dire di assistere ad una versione gothic doom di Metropolis Pt1: The Miracle and the Sleeper. Un esempio un po’ forzato, giusto per dare un’idea abbastanza indicativa della cosa. La parte finale in particolare sarà quella che rimane impressa già al primo ascolto, molto carica di pathos, e risalta particolarmente rispetto al resto della traccia. Archiviata la lunghissima opener, si prosegue con Dying Sun, che riprende i cori angelici lasciati in chiusura della precedente, ma saranno l’unica cosa di angelico che si sentirà nel brano. Questo perché già nel giro di qualche secondo si avverte una brusca sterzata e sopraggiunge un growl luciferino, dopo di che saranno pesanti accenti doom a cadenzare l’impronta della traccia, con una batteria quadrata e la voce profonda a manifestare la propria sofferenza, sia quando si tratta di litanie stranianti sia quando si tratta di lacerare con growl rabbiosi. Si trova spazio anche per un assolo solforoso che ha il compito di spargere la cenere dopo il massacro sonoro, mentre i rintocchi della campana sanciscono la fine di tutto. Decay and Agony è il singolo estratto con tanto di video a seguito, introdotta da un arpeggio tenebroso, e vede poi nuovamente protagoniste gli affondi doom, con la voce che per la maggior parte del tempo si esibisce nelle consuete litanie e parti sussurrate. Si rivela l’episodio più onirico dell’album, che non lesina al suo interno accelerazioni improvvise con moti di rabbia, portati alla ribalta da un growl aggressivo e raffiche di doppia cassa. Nel finale si assiste anche all’inserimento di riff di matrice black metal, mentre a congedarci sono dei canti simil gregoriani. Arrivati quindi a metà album, è il turno di Farewell, che si apre con degli accordi di piano dall’andamento dinoccolato, dopo di che si solleva subito la prima alzata di batteria, ma è la chitarra in questo caso a prendere le redini del tutto, all’inizio quando c’è da sbrodolarsi con un riff prolungato ad oltranza, poi quando si tratta di sorreggere la voce, invece molto lineare in questo brano, rimarcando la stessa linea melodica durante le strofe. Molto bello l’inserimento dell’organo dopo la pausa centrale, con accordi a digressione tentacolare che duettano con i riffoni chitarristici, i quali tornano protagonisti dopo il breve monologo del cantante, mentre nel finale si torna a picchiare come fabbri con un blast beat terremotante e shredding a manovella. Shervine è la prima strumentale che troviamo, la seconda sarà proprio la traccia conclusiva dell’album. Fallen inizia subito con il rombo dei motori a sei corde, e quando si staglia la voce sopra tutti si capisce che stiamo per ascoltare qualcosa di grosso. Difatti Fallen possiamo tranquillamente archiviarla tra gli episodi migliori dell’album, oltre che tra i più memorabili. Qui forse più di tutti emerge l’aspetto più My Dying Bride della faccenda, se non altro per l’utilizzo che si fanno del growl e delle chitarre seghettanti, ma anche per l’appeal del brano stesso, che punta più sul tenebroso rispetto al malinconico. Da non far passare in sordina anche l’assolo meraviglioso che si insinua tra un passaggio in transizione ed un growl assassino. Arriva poi una parte fatta apposta per creare fomento ed aizzare il pubblico durante i live, sempre con un cantato ferale e una batteria che va a spron battuto. Nonostante gli ultimi secondi di arpeggi malinconici, si chiude quindi sulle ali dell’entusiasmo, ed è così che si giunge alla fine del viaggio interiore, dove a darci il commiato troviamo come detto The Ritual. Paradossalmente parlando non sembra la tipica traccia con la quale si dovrebbe chiudere un album, tuttavia, se Shervine fungeva da semplice intermezzo, questa possiamo quasi considerarla una traccia vera e propria, nonostante manchi l’apporto significativo della voce. Per la verità nei primi secondi si sentono le registrazioni di una voce al contrario, che fa da introduzione lasciando poi spazio ai synth, ad arpeggi orientaleggianti e alla batteria che scandisce il tempo come un orologio. Fin dai primi momenti si capisce che ci troviamo di fronte ad un brano atmosferico con una marcata vena di sperimentazione, mentre il tono viaggia molto sull’apocalittico andante. Ritorna quindi la voce dell’incipit, e si ha la sensazione forte che si stiano scandendo gli ultimi secondi di un tempo che tutto sgretola, che sta anche per esaurirsi, finché non giunge la dissolvenza, che porta con sé la fine annunciata e, con essa, termina anche l’album.

Cosa dire quindi di questo ritorno dei Lux Incerta? I brani lunghi sono chiaramente l’elemento su cui ci si sofferma maggiormente, oltre a quelli che fanno davvero la differenza quando si tratta di alzare la valutazione. Compositivamente parlando ci troviamo di fronte ad un lavoro ricco di sfaccettature, con le transizioni gestite ad hoc tanto da essere sempre pertinenti da non accorgersi di una discrepanza tra un passaggio e l’altro. Difatti l’ascolto scorre via con disinvoltura, senza mai incappare in momenti di noia o riempitivi che si avrebbe voluto tagliare volentieri per ottimizzare il minutaggio. Da apprezzare anche l’utilizzo del bilinguismo con l’alternarsi di inglese e francese: non che siano facilmente distinguibili all’inizio, ma con il progredire degli ascolti ci si rende conto che si ha a che fare con due idiomi diversi ed in realtà, se sfruttata ancora più marcatamente, la cosa potrebbe essere una carta in più da giocare per la band transalpina. Viene reso molte bene il concetto di contrasto tra luce e ombra che si era prefissato la band, con tanto di sviolinate al termine dei brani per rappresentare lo spiraglio di speranza ma, a differenza della band, non sembra che l’album abbia un lieto fine e si esca a rimirar le stelle. Non ci troviamo di fronte a un disco che possa mettersi sullo stesso piano dei capolavori delle band sopra menzionate, ciò non toglie che il livello sia comunque molto alto e potrebbe candidarsi a una delle migliori uscite per chi mastica doom di un certo tipo.



VOTO RECENSORE
81
VOTO LETTORI
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INFORMAZIONI
2022
Klonosphere Records
Gothic / Doom
Tracklist
1. Far Beyond the Black Skies
2. Dying Sun
3. Decay and Agony
4. Farewell
5. Shervine
6. Fallen
7. The Ritual
Line Up
Agone (Voce)
Arkham (Chitarra)
Tibo Pfeifer (Chitarra)
Maxime Pascal (Basso)
Pheel Ti (Batteria)
 
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