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Lethian Dreams - Season of Raven Words
( 3590 letture )
Lethian Dreams è un progetto nato una decina d’anni fa dall’ormai consolidata collaborazione artistica dei francesi Carline Van Roos e Matthieu Sachs, i quali trascorsero i primi anni della loro esperienza comune realizzando alcuni demo. Nel frattempo, allo scopo di esplorare altri orizzonti protraendosi verso sonorità più oscure, anche avvalendosi della collaborazione del batterista Norman Müller, la coppia diede vita ad un progetto parallelo, sotto il monicker Remembrance, su cui concentrò prevalentemente i propri sforzi prima di decidere di rilanciare con decisione il progetto iniziale. Fu così che, nel 2009, scelsero di incidere Bleak Silver Streams, primo full-lenght che, in realtà, più che proporre materiale effettivamente nuovo, raccoglieva insieme alcune tracce sviluppate nei primi anni di attività della band. Così, mentre lei continua a occuparsi del suo progetto solista Aythis in campo “ambient” (vedi, ad esempio, Glacia), a due anni di distanza dal controverso ultimo full-length dei Remembrance (vale a dire Fall, Obsidian Night, di stampo prevalentemente doom-death ma con lui alle prese con un cantato in stile vagamente “funeral”), finalmente i due trovano il tempo e l’ispirazione per mettere nero su bianco nuove idee per Lethian Dreams. Nasce così questo Season of Raven Words, in cui senso di solitudine ed abbandono, ma anche qualche fievole barlume di speranza, sono associati ad immagini talvolta consolatorie, bensì più spesso cruenti, della natura che ci circonda.

Entrando nel vivo di questo interessante nuovo lavoro, non si può fare a meno di notare i rilevanti cambiamenti rispetto a quello passato. Anzitutto la band si è spogliata della voce di Carlos D'Agua, che, alternando growl a parti recitanti, si contrapponeva a quella soave di Carline Van Roos, in una sorta di dialogo impostato su schemi ormai diffusi a macchia d’olio soprattutto in campo gothic, ma, in linea di massima, ancora desueti in ambito prettamente doom.
Forse proprio a causa dell’assenza del contrasto con una voce maschile, oppure per via dell’adozione costante e totale di tecniche di attenuazione ed alterazione delle frequenze vocali (tra cui certamente il riverbero), spicca particolarmente l’impostazione che Carline, ancor più che in passato, ha voluto dare alla sua linea vocale: sommessa, affranta, leggera quasi al punto di librarsi nell’etere come una foglia nel vento, trascinando con se un’intensa sensazione di tristezza e desolazione. Di contro, c’è da dire che la vocalist, diversamente da altre sue più o meno illustri colleghe di ruolo, non esibisce particolari doti canore e che purtroppo la sua interpretazione appare troppo spesso incolore, uniforme, di solito impostata su toni medio-bassi e con scarsa intensità anche quando le circostanze richiederebbero l’esatto contrario, vale a dire quando magari le parti strumentali acquisiscono vigore quasi chiedendole esplicitamente qualcosa di più. Probabilmente si tratta di un espediente appositamente voluto, o magari (con un pizzico di malizia) si potrebbe perfino pensare che sia studiato apposta per adattarsi alle non certo illimitate capacità canore della francese. Alla luce di ciò, nutro un leggero disappunto circa la scelta di abbandonare del tutto il cantato maschile, quantomeno quello in clean, che, opportunamente dosato, avrebbe potuto spezzare l’eccessiva rarefazione ed, ahimè, la talvolta tangibile monotonia dell’interpretazione canora.
Ad ogni modo, tornando ad una visione globale, è in definitiva apprezzabile anche in questo caso l’accostamento tra melodic doom e voce femminile, un connubio che nel tempo ha prodotto risultati veramente interessanti. A tal proposito non si può fare a meno di citare come riferimento quello che fu, oserei dire, il capostipite In Fields of Pestilent Grief dei Funeral, ma anche, volendo riferirsi al passato più recente, Repose degli Omit, sebbene con i dovuti distinguo, legati non solo all’intonazione da mezzo soprano delle protagoniste, ma anche all’impostazione classica o addirittura sinfonica adottata in quei lavori.
In comune con essi c’è certamente una spiccata tendenza verso atmosfere evanescenti ed oniriche, derivanti, oltre che dallo stile di canto, anche e soprattutto dall’apporto del synth, normalmente in secondo piano ma che spesso fa capolino anche al centro della scena, quasi in punta di piedi, per alleggerire il peso specifico dei brani, specie nelle parti più quiete e dimesse.
Tuttavia, rispetto ai riferimenti citati, qui ci si trova di fronte a qualcosa di decisamente diverso, sempre giocato in prevalenza sul down tempo, ma con l’aggiunta di un guitar work del tutto inusuale per il genere, ad opera dell’abile mano di Matthieu Sachs, che per l’occasione modifica radicalmente il suo stile rispetto all’album precedente. Il suo riffing, costantemente in tremolo picking, crea un flusso continuo e vorticoso di suoni elettrici distorti, una spirale di vibrazioni elettriche di grande intensità ed energia, un percorso accidentato lungo il quale le note svariano dinamicamente generando giri armonici travolgenti.
Il risultato è una tendenza che la stessa band prova a definire “depressive atmospheric doom”, dove il primo aggettivo (“depressive”), è essenzialmente imputabile proprio al guitar work, non solo perché quest’ultimo sembra liberare con forza la disperazione e quel senso d’impotenza nei confronti delle manifestazioni avverse di madre natura, ma anche perché rappresenta un chiaro riferimento a tecniche prevalentemente usate nel black ed, in particolare, in quel suo sottogenere spesso etichettato appunto come “depressive black” per la sua caratteristica vena disfattista ed avvilente.
A questo punto della trattazione non posso però omettere di spendere parole di encomio per Carline Van Roos, per ragioni che vanno ben oltre la sua performance canora, dato che nel caso specifico non si ha semplicemente a che fare con una comparsa o ragazza immagine, bensì con una songwriter ed artista a tutto tondo, dato che è stata lei stessa a curare la maggior parte degli arrangiamenti e persino l’esecuzione, utilizzando praticamente tutti gli strumenti a disposizione. Una volta ancora, bisogna superare inutili pregiudizi (e qui mi rivolgo esclusivamente a chi ne avesse ancora) e riconoscere il rilevante contributo che anche le donne hanno dato - e potranno dare ancor più nel futuro - in un campo tradizionalmente maschile (o forse sarebbe meglio dire maschilista) come il metal. Difatti, sono prevalentemente opera della polistrumentista francese gli inserti di suoni sintetici e i deliziosi accenni di chitarra acustica, ma non solo… Per farsi un’idea della sua abilità con gli strumenti, basti ad esempio ascoltare la traccia conclusiva, Roads, che magari non sarà una delle migliori dal punto di vista melodico, ma che probabilmente è la più dinamica ed articolata dell’intero platter. Il brano in questione, interamente eseguito da lei, consente di apprezzare, più che altrove, anche il corpulento suono delle quattro corde ed un drumming molto vivo e curato nei minimi dettagli, a dispetto di tante altre sezioni dell’album in cui questo risulta letargico e spento. Si tenga presente che l’intera sezione delle percussioni è stata, anche questa, curata completamente da lei, come del resto in Bleak Silver Streams, attraverso un lavoro minuzioso di programmazione della drum machine, con un frequente e gradito ricorso al suono dei piatti. Per la verità, mentre nelle parti più esuberanti il riffing sovrasta praticamente tutti gli altri suoni lasciando la possibilità ad ogni modo di apprezzare anche qualche passaggio ritmico più sostenuto, nelle altre si avverte un po’ quel vago senso di plasticità dovuto all’assenza della mano umana.
Il breve ma toccante brano strumentale See, invece, è l’occasione per saggiare al meglio la sua straordinaria capacità di esprimere infinita tristezza e di lasciare un gusto amaro in bocca all’ascoltatore, profondamente immalinconito da una tenue composizione al piano (in echo) e dalla sua voce fredda e distante. Oltre a questo brano, anche altri momenti, come ad esempio alcune porzioni di White Gold, hanno rievocato in me il ricordo delle arie lievi e sottili proposte, in alcuni passaggi della loro storia, dagli Anathema e forse, ancor di più, da una delle loro “costole”, vale a dire gli Antimatter.
I leggiadri sospiri di lei accompagnano invece il brano strumentale Invisibile, stavolta eseguito da Matthieu, che pizzicando le corde della chitarra acustica e carezzando le tastiere dimostra anche in questa veste una perizia tecnica davvero fuori del comune.

Il livello medio dei brani è abbastanza buono; ciò nondimeno, meritano senza dubbio una speciale menzione, oltre che le ammalianti linee melodiche del già citato White Gold, anche l’entusiasmante Wandering, in cui, nello stacco tra sezioni più quiete ed altre caratterizzate da tremolo riff molti tirati, finalmente Carline ha un sussulto esibendo un timbro più deciso ed energico, a dimostrazione del fatto che in fondo ciò non sia fuori dalla sua portata (nella speranza che in futuro decida di far ricorso più spesso a questo espediente).
Pregevole è altresì il fatto che la durata media dei brani sia stata ridotta rispetto al passato, risultando ragionevole ed appropriata, evitando così inutili ridondanze e consentendo di apprezzare meglio il susseguirsi dei brani, i quali, pur senza allontanarsi troppo dalle classiche andature doom, viaggiano sovente su ritmi leggermente più sostenuti e, grazie al prezioso lavoro di Matthieu, talvolta si mostrano decisamente caldi e vibranti.
In ultima analisi, si tratta di un lavoro degno di nota, ricco di spunti attraenti, meritevole di interesse ed attenzione; rivedendo alcune impostazioni o posizioni preconcette, in futuro il progetto Lethian Dreams potrebbe senza dubbio rappresentare lo strumento per la definitiva consacrazione del duo, che qui mostra di possedere buone doti compositive, rilevanti abilità tecniche e particolare meticolosità negli arrangiamenti. Oltre a tutte queste non indifferenti ragioni, questo album è vivamente consigliato a chi riesca a trarre particolare giovamento dal contrasto tra sensazioni di completo abbandono e relative reazioni energiche.



VOTO RECENSORE
73
VOTO LETTORI
49.5 su 18 voti [ VOTA]
andrea
Sabato 31 Marzo 2012, 9.38.47
1
a me i lavori di questi francesi son sempre piaciuti sinceramente. doom monolitico e "stagnante" ma... that's the way it is, suppongo. ora mi manca questo Season..., comunque sono proprio contento che abbiano ripreso il progetto, l'ho sempre preferito all'incarnazione Remembrance.
INFORMAZIONI
2012
Orcynia Records
Doom
Tracklist
1. Dawn
2. Wandering
3. See
4. Raven
5. White Gold
6. Invisible
7. Satyrs
8. Roads
Line Up
Carline Van Roos (Vocals, Guitars, Bass, Keyboards, Drum Programming)
Matthieu Sachs (Guitars)
 
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