Ci sono cose che cambiano perennemente pur restando nell’essenza le stesse. Partendo da questo contradditorio ossimoro, presento a voi lettori l’ultima creazione del gruppo torinese Lilyum, difensore di una concezione dell’espressione musicale che non cede né al compromesso né alla forma sterile. Una formazione la quale, in dieci anni di onorata attività, ha modificato molteplici aspetti del proprio suono, cercando di trascinare l’ascoltatore verso vuoti pneumatici via via più oscuri, più tetri e scevri da speranza. Nonostante ciò il cuore pulsante della band, Kosmos Reversum, non ha rinnegato se stesso, la sua visione, incarnando nella sua stessa individualità i concetti che comunica attraverso il pentagramma.
Human Void prosegue su questa, finora ostica ma degna di omaggi, strada, riportando il tempo alla metà degli anni ’90, quelli dominati dalla seconda ondata di nero metallo, costruendo i diciotto minuti che compongono l’uscita adoperando gli stessi stilemi che hanno reso celebri artisti di cui oramai si discorre con deferenza. Tuttavia l’opzione adottata è semplicemente una forma, una veste: oltre la superficie le tracce svelano un pessimismo frammisto ad odio misantropico che scardina qualsiasi sintassi, qualsivoglia congettura sulla tecnica (che pure è notevolissima), per colpire, proditoriamente, allo stomaco, risvegliando obliate fonti di risentimento. Oserei dire che l’EP è un disco, benché diretto nell’impostazione, il quale per agire deve obbligatoriamente penetrare sotto l’epidermide, così da facilitare alla corrosiva ugola di XeS annienti le prime resistenze, operando da avanguardia, prima che il drumming inferocito, simbolo di forza e prorompente potenza, impersonato da Frozen, obblighi l’ascoltatore alla capitolazione definitiva. Inoltre esso persevera nell’offrire una proposta rivolta all’ermetismo, in cui il dialogo fra opera e fruitore dev’essere instancabile, proficuo, sincero. Nel conato dei Lilyum c’è la raffigurazione dei nostri istinti reconditi, del nostro, celato per non offendere, disgusto, della nostra rimossa repulsione verso l’insensatezza dell’universo ed il vuoto dell’essere umano. Human Void appunto.
La discesa all’Averno comincia con una breve introduzione strumentale, continua con il vento invernale che pervade e mantiene ardente The Flame Of Hate, nella quale la doppia cassa mai abbandonerà le vostre cuffie, traccia nel complesso quasi perfetta, sia discorrendo del mero sforzo esecutivo, sia rivolgendo l’attenzione alla perizia nel creare un’atmosfera opprimente, rotta dai riff orientati alla melodia, intervallo complementare alla monotonia delle parti affidate allo scarno tremolo picking, culmina infine nella title-track, caratterizzata da un parte centrale facilmente assimilabile, ornata da quello che potrebbe essere identificato come un abbozzo di assolo. Si resta però invischiati in una pania raggiungendo boccheggianti Disgust, nella quale un flusso incessante di catrame ricopre occhi, bocca, narici, costringendoci a restare inermi sul ciglio della strada, paralizzati, arrabbiati, impotenti. Vittime della crescente ira, dell’acre disgusto che infetta la gola.
La produzione, a dispetto di voler essere emule dello stile lo-fi, nasconde, dietro al paravento superficiale (costante nei Lilyum), la controprova della maturità artistica nonché umana del gruppo: un basso rotondo ed udibile accompagna come un Virgilio chiunque manifesti l’intenzione di intraprende il periglio, le chitarre non soffrono mancanza alcuna di volume, compenetrandosi una con l’altra, la batteria non monopolizza la scena, la voce non è sommersa dal muro sonoro eretto dalla strumentazione. A differenza del precedente full-lenght, Nothing Is Mine, il risultato provenienti dagli amplificatori è meno impastato, quasi, sotto un certo punto di vista, più scorrevole.
Ancora una volta i quattro cavalieri oscuri hanno buttato sotto i riflettori, togliendosi la pesante maschera quotidiana, e sostenendo l’esistenza d’un cielo fuori dal teatro, il loro intimo sentire, non curandosi affatto di quanto ciò che narrano sia anti-conformista, scomodo, complesso da accettare. Questo perché Human Void straccia il velo ricoprente i complessi che affliggono l’essere umano, il quale, volendo conservare il suo equilibrio, non interroga la sua ombra, adeguandosi alla corrente. I Lilyum combattono strenuamente, risalgono il fiume finché ne hanno l’energia, fino all’estrema goccia di sangue, dietro un accumulo preoccupante di bacchette, piatti infranti, plettri “sgranati”, dita disarticolate dalla forsennata volontà di percuotere il quattro corde con maggiore veemenza. Natura da fari la loro, resistono arroccati su uno spoglio promontorio alle tempeste, ai diluvi, alle onde che intaccano la costa stagione fredda dopo stagione fredda.
In conclusione, black metal in linea con le sue origini, povero, primordiale, primitivo, personale, elitario, che rifugge le strutture accademiche e rabescate. Freddo e glaciale, soffocante, dissonante, Human Void spezza le catene della quotidianità, dipingendo un opprimente affresco in cui i protagonisti non hanno volti, ma erme irriconoscibili.
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