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BRUTAL ASSAULT - Day 3 & 4 - Josefov, Repubblica Ceca, 11-12/08/2017
01/09/2017 (1268 letture)
DAY 3

CROWBAR
La giornata inizia ufficiosamente con il leggendario quartetto sludge della Louisiana, i Crowbar. Similmente ad altri gruppi della stessa scena di NOLA, l’unione di elementi doom metal classici con altri spiccatamente hardcore o altri ancora radicati nella tradizione del southern blues/rock ha creato un’alchimia poi declinatasi in un metal pesante, generalmente piuttosto lento ma nerboruto, ruvido ma con molto pathos. Credo che la musica dei Crowbar si possa proprio descrivere così, pensando alla solennità del doom, all’ossatura dell’hardcore e all’aspetto introspettivo e malinconico, spesso depresso, del southern rock. L’impatto sonoro del gruppo è veramente spesso, carico di groove e pesante come ci si sarebbe aspettati. Il carismatico frontman Kirk Windstein si mostra in ottima forma vocale e sa decisamente prendere le redini dello show ed interagire con il pubblico.

L’incedere lento e cadenzato dei pezzi sfocia talvolta in sezioni più lanciate, prima di ricomporsi su mid-tempo opprimenti. Diverse delle tracce proposte sono estratte dai lavori più recenti, ma la scaletta è principalmente costituita da classici, tendendo comunque conto del costante standard qualitativo dei lavori del gruppo. È comunque interessante vedere come tutto lo spettro emotivo della musica dei Crowbar sia esplorato passando da pezzi estremamente diretti come High Rate Extinction ad altri tetri ed oscuri come Planets Collide, semplicemente da brividi. In conclusione, una delle performance più emozionanti del festival.

ULCERATE
Reputo gli Ulcerate tra le band odierne meglio in grado di portare freschezza e idee sufficientemente originali entro i confini espressivi tipici del death metal. Non solo contano su una preparazione tecnica di notevole caratura, ma attraverso cinque full-length hanno dato forma ad un songwriting estremamente personale e riconoscibile, nonché quasi incredibile per come riesca ad essere tanto opprimente, oscuro e soffocante mantenendo complessità strutturale ed esecutiva, intensità e brutalità: praticamente, un gruppo unico.

Risultano infatti uno dei gruppi più seguiti sul terzo palco, ma purtroppo la loro esibizione è in parte compromessa da un suono di batteria fin troppo presente, quasi da risultare fisicamente doloroso anche a diversi metri dal palco, e inficiando anche sulla chiarezza delle chitarre. Il ruolo del drummer comunque è assolutamente centrale nella musica degli Ulcerate, dal momento che si trova a condurre il flusso inarrestabile dei riff chitarristici, conducendoli con maestria e curando ogni fill con la massima attenzione, nonché prestandosi per la massima brutalità qualora la musica lo richieda.

SACRED REICH
Avvicinandosi al palco principale per l’esibizione dei thrasher Sacred Reich, vediamo il cielo stravolto da un movimento fin troppo anomalo di nuvole scure; più tardi, si scoprirà che una tromba d’aria ha danneggiato il paese vicino e la rete elettrica, mentre sul festival comincia a scatenarsi un temporale intensissimo che ci costringe a ritirarci sotto una tenda, mentre i concerti vengono interrotti. Il tutto dura meno di 20 minuti, dopo i quali siamo di nuovo sotto il palco sperando che gli statunitensi riprendano il concerto, ma siamo sconfortati nel vedere il palco sotto manutenzione per essere asciugato e reso perfettamente agibile, e ci abituiamo all’idea di non vedere il gruppo esibirsi. Fortunatamente i gestori del festival decidono di ritardare tutto il running order di 30 minuti, e permettere ai Sacred Reich di suonare il loro intero set senza alcun taglio. Inizialmente si contano poche decine di persone, ma dopo un paio di pezzi la normale affluenza di pubblico è ripristinata.

Galvanizzati dalla prova di devozione dei fan, che tanto hanno incitato la ripresa del concerto, il trio dell’Arizona spinge al massimo il proprio thrash carico di groove, incita il pubblico a cantare e si diverte sinceramente sul palco, proponendo una scaletta di classici immediatamente apprezzati dal pubblico e infila Surf Nicaragua in encore per un effetto esplosivo davanti al palco, complice anche il tempo d’ora in avanti assolutamente clemente. Non avevo ancora avuto modo di vederli, per vari motivi, ma la nomea di ottimo gruppo live li aveva preceduti e posso dire che hanno mantenuto fede alle aspettative, nonostante non li reputi tra i gruppi migliori della scena thrash statunitense. Certamente sono un gruppo divertente dal vivo, situazione per la quale la loro musica sembra pensata ad hoc.

POSSESSED
Altro nome storico in una giornata di nomi selezionati: i Possessed dalla California tornano al Brutal Assault in un tour di festival estivi in cui celebrano il trentennale del loro terzo lavoro discografico, l’EP Eyes of Horror, che viene per l’occasione suonato nella sua interezza all’inizio del set. Nelle diverse occasioni in cui ho avuto modo di vederli, ho sempre pensato che li estratti di quel mini album fossero particolarmente prestanti dal vivo, o per lo meno che si adattassero meglio all’incarnazione odierna dei Possessed, che di fatto annovera soltanto il cantante Jeff Becerra tra le proprie fila. In ogni caso, ritengo che sia il lavoro più maturo e completo del monicker, al di là della normale affezione per Seven Churches e per Beyond the Gates, che qua sono rappresentati da una manciata di classici per forza di cose più risicata del solito.

Contrariamente all’andazzo del palco del tendone, i suoni sono molto taglienti e generalmente convincenti, a favore della godibilità dell’esibizione. Sembra che la scelta del terzo palco sia stata dettata da problemi logistici legati alla mobilità dello stesso frontman, essendo questo direttamente in comunicazione con l’area di backstage adibita allo spostamento di musicisti e backline, altrimenti ci si sarebbe aspettati di vederli su uno dei due palchi principali – non per nulla, infatti, il tendone risulta stracolmo, anzi c’è gente che si sofferma pure all’esterno nella speranza di sentire qualcosa, mentre la vista è già preclusa dopo qualche fila, data l’altezza ridotta del palco.

È stato inoltre suonato uno dei nuovi pezzi che apparirà sul nuovo full-length dei Possessed, che non pubblicano nulla (demo esclusi) da ben 3 decadi e sono infine tornati con nuovo materiale, dopo la separazione con i Sadistic Intent che avevano fatto da band a Jeff Becerra durante la primissima reunion del gruppo e che avevano cominciato a lavorare su questo fantomatico full-length che dovrebbe infine uscire l’anno prossimo per Nuclear Blast. Ammetto che ero molto scettico e sinceramente in ansia, ma la qualità del pezzo era assolutamente decente, stilisticamente non distante da quanto fatto dalla band negli anni ’80 – di fatto, l’unica prospettiva accettabile perché questo disco di ritorno non sia una catastrofe per il nome di un gruppo così leggendario.

CARCASS
Successivamente alla piuttosto sospetta cancellazione dell’ultimo minuto del tour europeo dei Morbid Angel, con il ritrovato frontman del periodo F-G-H, Steve Tucker, gli inglesi Carcass sono stati chiamati proprio per il rotto della cuffia a sostituire gli eminenti colleghi statunitensi nel ruolo di main band death metal di questo venerdì di festival, sebbene con un po’ di amaro in bocca data la frequenza con cui si è avuto modo di vederli negli ultimi anni praticamente ovunque, e sempre con la stessa identica scaletta. Nulla di nuovo quindi, nessuna particolare aspettativa, nessuna sorpresa né delusione: i Carcass sembrano una band che con il death metal ha poco ha che vedere, ma sanno ancora suonare magistralmente. La setlist è anche dignitosamente bilanciata tra i vari periodi, soprattutto considerando la mutata attitudine del gruppo rispetto agli esordi.

A tal proposito non manca anche un po’ di ironia, quando Jeff Walker ammette: “Non siamo i Morbid Angel, come potete vedere. Nemmeno ci vestiamo come loro!”, quando i due gruppi rappresentano in un certo senso due lati opposti di questo genere musicale, a voler vedere bene. Da un punto di vista visivo, i Carcass attuali hanno più l’estetica dei rocker, ma anche da questo punto di vista hanno sempre avuto intenzione di distinguersi dal filone principale, e volenti o nolenti con ogni uscita discografica hanno settato un nuovo trend, dal goregrind, al death patologico, al melodic death finanche al death ‘n’ roll, come lo chiamavano.

Dal punto di vista strumentale sono fondamentalmente ineccepibili, anche se più chirurgici che feroci, sperando di rendere bene l’idea. In ogni caso, il songwriting creativo del gruppo, nonché l’aspetto solistico, è sufficiente a trattenerci come ogni volta, ed è impossibile non essere coinvolti sui classici del gruppo, che rispolvera anche il solito paio di estratti di dovere dal mio favorito Symphonies of Sickness. Verso il termine del set mi sposto davanti all’altro palco perché l’affluenza per l’imminente concerto degli Electric Wizard (che di certo non spartiscono il pubblico con i connazionali death metallers) sta già divenendo proibitiva.

ELECTRIC WIZARD
Altro concerto attesissimo in quel di Jaromer è quello delle leggende dello stoner/doom inglese Electric Wizard, soprattutto successivamente alla cancellazione imprevista dello scorso anno successivamente a un problema legato a visti o passaporti. La band di Jon Osbourne torna quest’anno con tutti gli onori del caso, suonando sul palco principale alle 23, quindi praticamente come headliner putativi, e sfoggiando un’affluenza di pubblico imbattuta quella sera, e facendo pensare che siano non pochi i fan che si siano mobilitati per vedere al Brutal Assault una delle loro rare esibizioni.

Uno dei motivi per cui ho cercato preventivamente di avvicinarmi al palco prima dell’inizio del set è dipesa dal suggerimento di un mio amico di rinunciare a seguire attentamente anche le proiezioni psichedeliche sullo sfondo del palco, oltre al gioco di luci piuttosto ipnotico. Spezzoni di film occult/horror/sexploitation uniti a immagini inquietanti, policromie caleidoscopiche, assieme alla doverosa dose di THC subito prima dell’inizio sono stati vitali per ricreare la sensazione angosciante e l’effetto psicotropo della musica degli Electric Wizard. Tutto sommato, avrei preferito un set che favorisse i primi lavori del gruppo, per me abbondantemente superiori al resto della loro comunque solida discografia, ma la scelta della setlist ha privilegiato l’incarnazione in un certo senso più easy listening della band nei suoi ultimi anni, quelli dell’incredibile sensazionalismo che si è sviluppato su un gruppo che fino a meno di un decennio fa era assolutamente di nicchia.

Non che facessi queste considerazioni in quel momento, diciamo che si tratta di pensieri a freddo, mentre l’ora di concerto l’ho passata in fissa su quei giochi di luci e immagini, mentre fumo e luce viola avvolgevano i musicisti fino ad occultarne la vista, mentre il sound strabordante delle chitarre e della batteria travolgevano i timpani con intensità quasi inverosimile se rapportata alla lentezza dei pezzi, e con volumi tanto alti che la voce quasi stenta a trovare spazio. Per finire, la chiusura con Funeralopolis è stato tra i momenti più emozionanti, assuefanti e al tempo stesso sinistri ed angoscianti del festival, davvero unico.


DAY 4

DEMOLITION HAMMER
Tra la tappa dello scorso anno a Trezzo, e il Netherlands Deathfest di qualche mese fa, ho avuto modo di capire che quella dei Demoltion Hammer è stata una delle più riuscite tra la gamma di reunion di gruppi del passato tanto comuni al giorno d’oggi. Non riesco nemmeno ad immaginare come nei loro anni d’oro potessero essere più violenti di così, anche se sono pronto a scommettere che lo erano; ma per essere così incazzati a quest’età devono avere l’ex-moglie che chiede gli alimenti, due mutui da pagare, l’auto pignorata (semi-citazione di un mio conoscente, ne riconosco i diritti)… Il 55enne Steve Reynolds, al basso e voce, ci ha preso gusto in questi mesi in giro per il mondo davanti a migliaia di pazzi pronti ad ammazzarsi davanti al loro palco, e tra un pezzo e l’altro, nelle presentazioni di rito, pronuncia più “fuck” che parole di senso compiuto. Derek e James alle chitarre sono completamente indemoniati, e il nuovo batterista che naturalmente sostituisce il compianto Vinnie Daze riesce a dare il dovuto tiro ai pezzi massacranti di Epidemic of Violence e Tortured Existence, per me tra i capolavori assoluti del thrash statunitense, e di certo tra i più pensanti.

Data la discografia piuttosto limitata del gruppo non ci si può mai lamentare della scaletta, ma nello specifico riescono sempre a rispolverare qualcosa di ancora non riproposto dopo la reunion (a questo giro è toccato a Omnivore), in modo tale che nel giro di 3 concerti a cui ho assistito, ho collezionato almeno una prestazione live per ciascuno dei pezzi dei due album classici, giusto per dare un’idea. Lo show è a questo punto perfettamente rodato, la macchina ben oliata e l’esecuzione tanto precisa da garantire la massima pesantezza immaginabile, come se la pletora di riff da violenza primitiva contenuta in quei due album non fosse sufficiente a garantire la completa regressione del pubblico agli istinti neanthertaliani (per giocare con il titolo di uno dei loro pezzi più noti).

SHEER TERROR
Tra i generalmente non pochi gruppi hardcore proposti anche quest’anno dal festival, gli Sheer Terror da New York sono decisamente un classico. Formati a inizio anni ’80, sono stati tra i pionieri di quella scena newyorkese che avrebbe incorporato elementi affini al metal nel proprio sound, andandosi a sviluppare poi in quella direzione, sebbene questo gruppo sia più classicamente hardcore di tali successori. Molti i classici proposti dal loro album di debutto Just Can’t Hate Enough, che aveva il merito di aver cercato una fusione tra il NYHC che rappresentava il background del gruppo e, in qualche modo, il tono di chitarra dei Celtic Frost. Ne risulta quindi materiale hardcore veloce, intenso ed estremamente pesante.

La voce del carismatico leader e vocalist Paul Bearer è in forma smagliante, nonostante i drink e le sigarette tra un pezzo e l’altro, che la rendono roca e perfetta per questo tipo di punk oscuro e rabbioso. Peccato però che così poche persone abbiano deciso di assistere all’esibizione del gruppo, di gran lunga tra le meno visitate tra quelle che ho avuto modo di vedere, soprattutto se rapportate coi pienoni di altre band hardcore più moderne (e meno vicine ai miei gusti in questo genere) come Madball o Hatebreed.

VALLENFYRE
I Vallenfyre sono il relativamente recente side-project di Gregor Mackintosh, chitarrista fondatore e compositore della leggenda doom metal/gothic rock britannica Paradise Lost, dai quali però questo progetto si discosta radicalmente. Gregor riveste qui i panni di cantante, sebbene sia lui il compositore attivo e il chitarrista in studio, e fin dall’estetica decisamente crust punk del gruppo se ne riconoscono le intenzioni: tra le principali influenze del gruppo troviamo tutto il filone stenchcore, ossia quel movimento (soprattutto inglese) che univa il death metal allo sporco del crust (ad esempio, il primo album dei Bolt Thrower ad esempio, o andando più propriamente nel filone punk i vari Deviated Instinct o i primissimi Sacrilege). Si aggiunga una massiccia dose di doom death alla Asphyx e Autopsy, ma mantenendo qualche incursione più melodica a ricordare proprio i primi Paradise Lost, My Dying Bride o Anathema, chiaramente quando erano in tutto e per tutto band death metal. Il cerchio si chiude includendo anche l’attitudine del grindcore primordiale di Scum dei Napalm Death, che emerge nelle parti più feroci, e il suono marcatamente swedish dell'HM-2 che però ben si adatta al plotter, per quanto possa sembrare una scelta guidata dal trand del momento.

La proposta sembra quindi molto invitante, e l’escalation qualitativa delle uscite discografiche del gruppo ne è la riconferma, per quanto non sia nell’intento del gruppo la ricercatezza o l’estetica di culto: anzi, tutt’altro, dato che il sound dei Vallenfyre raccoglie molte influenze, guarda al passato ma non rinuncia all’immediatezza, risultando generalmente molto diretto ma anche di facile memorizzazione, a testimonianza di un songwriting sicuramente non nella norma. Dal vivo il gruppo è veramente inarrestabile, pesantissimo ed estremamente intenso; penso che nessuno si sarebbe mai aspettato una voce del genere da parte di Mackintosh, che seppellisce senza mezzi termini il collega e compagno di band Nick Holmes, che oltre ai Paradise Lost, naturalmente, canta negli svedesi Bloodbath, con risultati non propriamente convincenti.

La varietà dello show gioca molto sulla contrapposizione di pezzi estremamente lenti ed oscuri a vere e proprie bordate grind e d-beat dirette alla giugulare, su cui non viene fatto nessun compromesso in termini stilistici. I Vallenfyre hanno dimostrato subito di essere una band old school, ma lontana dal revivalismo (cosa che paradossalmente potrebbe allontanare molti fan odierni) o dalla mediocrità, che non trova posto in un songwriting così solido e in una prestazione così muscolare.

INCANTATION
Il secondo concerto degli Incantation al Brutal Assualt, su un esclusivissimo totale di ben tre show (uno venerdì, uno sabato e poi la domenica all’after party di Praga), consiste nel primo doom set della band, che si esibisce eseguendo soltanto pezzi notevolmente lenti della propria carriera (non pochi, di fatto) per circa 45 minuti sull’Oriental Stage, il palco situato letteralmente all’interno della fortezza in uno spiazzo open air centrale. Questo e quello dei Cough sono stati gli unici concerti che ho avuto modo di vedere lì quest’anno, ma posso garantire che sia la resa sonora che la componente evocativa delle mura che incombono sul palco, con tanto di torce ardenti alle parti, è veramente unica, e si presta ottimamente a show più oscuri e atmosferici, garantendo anche una notevole intimità tra pubblico e band, dato lo spazio più ristretto e la scarsa altezza del palco.

Oltre alle ovviamente presenti Abolishment of Immaculate Serenity e Christening the Afterbirth, per le quali un set del genere sembra progettato apposta, buona parte della carriera del gruppo viene ripercorsa, sebbene da (modestamente) profondo estimatore e conoscitore del gruppo non posso non ammettere di aver sofferto la mancanza di alcuni pezzi che avrei giudicato più indicati. Proprio le sezioni più lente sono a mio parere uno dei punti di forza degli Incantation dal vivo, e proprio per questo il primo set doom della loro carriera è stato subito azzeccatissimo. Il gutturale cavernoso di John McEntee ormai ben si adatta a ogni estratto della lunga carriera degli Incantation e ai pezzi di ciascuno dei diversi vocalist del gruppo (il chitarrista e fondatore ha infatti assunto il ruolo di cantante solo da una dozzina d’anni, quindi poco meno dell’età del gruppo, il che però esclude diverse pubblicazioni, e generalmente le più famose).

Sebbene non trovi lo stile solistico del comunque preparatissimo Sonny Lombardozzi, devo ammettere che nelle sezioni più lente lo spazio che riesce a ricavarsi è più accettabile che in altre situazioni più propriamente death metal. La sezione ritmica è assolutamente pesantissima, con un Kyle Severn al pieno delle proprie energie, ben dispensate lungo un set esecutivamente meno impegnativo, possiamo immaginare. L’unico rimpianto è che non sia durato di più, sebbene la band avesse altro tempo a disposizione, ma immagino che preparare appositamente una scaletta per un’occasione speciale sia piuttosto difficoltoso in termini di gestione dei tempi, soprattutto a ridosso dell’uscita del nuovo album Profane Nexus, formalmente rilasciato il giorno precedente e celebrato nel primo set (una sorta di release show).

MAYHEM
E si termina il festival con il set di De Mysteriis Dom Sathanas da parte dei Mayhem, come d’altra parte tutti i loro show quest’anno. Avevo avuto modo di seguire lo stesso set ad Aprile in Scozia, in apertura agli Autopsy, e devo dire che sebbene l’esecuzione fosse stata all’altezza, i suoni erano stati piuttosto deludenti soprattutto nella prima metà del concerto. Questa volta, invece, la qualità audio, per così dire, era veramente ineccepibile, tanto che in ogni momento i riff risultavano pienamente intellegibili, mai coperti da una batteria comunque perfettamente udibile. Come ad ogni show di questa sorta di tour, prima del concerto un messaggio audio ricorda al pubblico di non utilizzare il telefono e assolutamente evitare i flesh per non ledere all’atmosfera dell’esibizione – piuttosto inutile, naturalmente, ma effettivamente il comportamento del pubblico ha più volte leso alla qualità sensibile di concerti dal carattere rituale, come quello impostato dai Mayhem in questo caso.

Per quanto sia anche ragionevole ritenere che qualcosa di simile, un set dedicato ad un album così iconico e controverso, non debba esistere nel 2017, resta il fatto che l’esperienza dal vivo è stata assolutamente di spessore. L’esecuzione eccellente non lascia dubbi sulla professionalità del gruppo, e Attila canta quasi esattamente come su disco. Scenografia e pause sono studiate per dare continuità all’esperienza d’ascolto, accentuandone l’aspetto più sinistro ed inquietante. Se quindi le mie aspettative erano un po’ azzoppate dal timore di una situazione audio che poco rendesse merito a questo tipo di concerto, ammetto con soddisfazione che questo set è stato praticamente impeccabile, e suonato alla luce di una luna piena di dimensioni quasi anomale.

AFTER PARTY
Come ogni anno, la domenica che segue l’ultimo giorno di festival si tiene un after party ufficiale al piccolissimo Modra Vopice di Praga, che non conta mai più di un paio di centinaia di presenti. In questo caso si sono esibiti gli Incantation, per il loro terzo e ultimo set, e gli islandesi Zhrine, band piuttosto singolare che propone un mix piuttosto singolare di black metal e death metal atmosferico, non troppo distante dai connazionali Svartidaudi (ma meno morboso), piuttosto che dai Deathspell Omega, e nelle parti meno black-oriented agli ultimi Ulcerate. Particolare anche la scelta di un contrabbasso elettronico, che si accompagna all’estetica del gruppo, decisamente fuori dai canoni del metal (qualcuno direbbe piuttosto “hipster”). I pezzi sono piuttosto interessanti e ben eseguiti, anche se ammetto di essermi annoiato in qualche passaggio.

Gli Incantation invece propongono infine un set standard, con diversi classici e molti estratti dall’appena pubblicato Profane Nexus. Nonostante le temperature proibitive all’interno del piccolo locale, la band apprezza l’estrema vicinanza del pubblico (non ci sono transenne al Modra Vopice) e sembra sinceramente divertirsi, ottenendo in compenso un’ottima risposta. Vedere una delle proprie band preferite in assoluto in una situazione così intima, pur non rinunciando a dei buoni suoni, è un’esperienza più unica che rara!



tino
Lunedì 4 Settembre 2017, 18.32.52
1
I sacred reich sono un trio? Perché chi è andato via?
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