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JEFF BUCKLEY - Last Goodbye, un tributo originale....
06/06/2019 (1148 letture)
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A distanza di ventidue anni dalla sua morte, Jeff Buckley resta uno degli ultimi grandi interpreti del rock. Una meteora, per tanti versi, ma così bruciante di evidente talento da lasciare un solco indelebile ed indimenticabile per i tanti che ancora oggi non riescono davvero a lasciar andare il ricordo della sua musica e della sua meravigliosa vocalità. Uscito nei primi mesi di questo 2019 per la Edizioni BD, Last Goobye – Un tributo a Jeff Buckley, è un progetto tutto italiano che ripercorre la storia del musicista e cantante con un taglio originale e particolare che si adatta splendidamente al formato fumettistico, restituendo un quadro completo e sfuggente al tempo stesso, che tratteggia senza soffocare di interpretazioni postume una personalità unica e travagliata, contraddittoria, infantile e drammatica al tempo stesso. Queste le nostre impressioni….
UNA STORIA CINEMATOGRAFICA Senza voler ripercorrere una storia che molti già conoscono e hanno magari vissuto in prima persona a metà degli anni Novanta, quella di Jeff Buckley è davvero una vicenda che forse neanche la penna di uno sceneggiatore avrebbe saputo tratteggiare in maniera così ricca e carica di fascino, incredibilmente triste e al contempo così “predictable” da apparire quasi voluta e cercata. Difficile immaginare un Jeff Buckley ricco e famoso, felice rockstar ultracinquantenne. La verità è che, una volta messi in fila gli eventi della sua vita, un esito diverso sarebbe apparso quasi più incredibile della già incredibile realtà dei fatti. Nato a Orange, in California, Jeff è figlio non riconosciuto di Tim Buckley, cantante e compositore folk/jazz di discreta fama tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta e di Mary Guibert, musicista a sua volta. Cresciuto dalla madre e dal padrino, Ron Moorehead, col nome di Scott Moorehead, Jeff erediterà dal padre gran parte dei lineamenti e la straordinaria sensibilità artistica e vocale, crescendo in un ambiente estremamente stimolante: la madre e il padrino contribuiranno in maniera determinante al suo patrimonio musicale e sarà la nonna a donargli la prima chitarra. Jeff incontrerà il padre Tim una sola volta, trascorrendo con lui e la sua nuova famiglia qualche giorno, poche settimane prima della morte per overdose, il 29 giugno del 1975. Jeff non ha ancora compiuto nove anni a questo punto, ma quel padre mai davvero conosciuto, nonostante l’affetto sincero per il padrino, resterà per sempre una figura enorme e ingombrante, che ritornerà spesso nelle sue canzoni e nella sua vita. Con lui, Jeffrey avrà sempre un rapporto difficile e interrotto, non di odio, ma comunque tormentato: il rifiuto del padre di riconoscerlo, sancito dalla canzone I Never Asked to Be Your Mountain, dedicata alla madre quando i due si separarono, non è un evento che si dimentica. Cresciuto come musicista fino al diploma al Musicians Institute di Los Angeles e riappropriatosi sia del cognome che del nome originario, contenuto nel suo certificato di nascita, Jeff si trasferirà a New York a seguito proprio di un concerto commemorativo per il padre, tenuto il 26 aprile 1991, al quale fu chiamato grazie al vecchio produttore di Tim, Herb Cohen, che lo aveva già in precedenza contattato aiutandolo a registrare il proprio primo demo. Rivelatosi al mondo come il talentuosissimo figlio di Tim Buckley, nel tentativo di fare pace con la sua figura, Jeff cercò sempre di mantenere la propria figura artistica come autonoma dal padre e si esibirà dal vivo in vari locali cittadini come solista, con la propria chitarra. L’eco della sua esibizione al tributo, nel quale intonerà quattro brani, fu talmente forte e tanto il richiamo che quel ragazzo sollevava nei locali underground della città che, ben presto, i talent scout delle major cominciarono a ronzargli attorno. Sarà Steve Berkowitz della Sony/Columbia Records a metterlo sotto contratto, facendolo debuttare con un EP dal vivo, Live at the Sin-è, registrato presso un piccolo locale e casa base di Jeff in quegli anni. Messa su velocemente una band, per Buckley arriva il momento di lavorare al proprio debutto, assieme alla futura superstar Andy Wallace. Di Grace, unico album ufficiale da studio rilasciato, è stato detto tutto ed è inutile ripercorrere l’inchiostro già versato. Siamo semplicemente al cospetto di uno degli album più importanti degli anni Novanta e di tutto il rock in generale. Costato un sacco di soldi, rischiava di rimanere una perla dell’underground a causa della volontà di Jeff di non girare video promozionali e di togliere dalla scaletta quella Forget Her che per i discografici era il singolo perfetto. Venuto a patti con la necessità di rientrare dalle ingenti spese delle registrazioni e con la necessità di sospendere per un po’ i continui tour di supporto che stavano drenando lui e la band, Jeff accettò infine di registrare alcuni video promozionali e il successo a quel punto arrivò davvero, a livelli forse anche inaspettati, tanto che il rischio divenne quello di ritrovarsi nel ruolo di “ragazzo immagine” nel giro di pochi mesi. Gli effetti dello stress non tarderanno a mostrarsi e alla fine a farne le spese sarà il batterista Matt Johnson, che lascerà il gruppo durante il tour australiano, dopo quasi tre anni ininterrotti on stage. A questo punto, Buckley comincerà a lavorare ai brani per il secondo album, My Sweetheart the Drunk, per il quale comporrà molto materiale in una prima versione, presentata anche dal vivo con la band, nella quale nel frattempo era entrato Parker Kindred dietro le pelli. Il lavoro col leader dei Television, Tom Verlaine, si rivelerà però non soddisfacente, così come il materiale raccolto fino a quel momento e Jeff deciderà così di restare in solitario a Memphis, per sottrarsi ad un circo che non lo interessava e trovare la propria ispirazione, lasciando che la band a febbraio tornasse a New York, con l’impegno di ritrovarsi per le registrazioni a partire dal 29 maggio 1997, col fido Andy Wallace. Raggiunto da Gene Owens, suo tour manager e dal roadie Keith Foti, che avrebbero dovuto preparare la casa che Jeff aveva affittato in quei mesi per l’arrivo dei musicisti della band, il cantante si mostrò entusiasta e pronto alle registrazioni. La sera stessa, però, Jeff convinse Foti, che era con lui, a scendere lungo il Wolf River, un affluente del Mississippi nel quale aveva preso l’abitudine di immergersi, nonostante l’acqua sporca e piena di mulinelli. Il racconto del roadie è preciso: i due scesero lungo l’argine, portandosi dietro uno stereo, nel quale ascoltavano a tutto volume Led Zeppelin II. Jeff entrò in acqua con le scarpe e vestito, cantando Whole Lotta Love. Qualcosa successe a quel punto, che distrasse Foti, il quale non vide più il cantante, mentre la notte scendeva. Provò a chiamarlo più volte quando si rese conto che un battello stava passando, ma non ricevette nessuna risposta. Fu a quel punto che, preso dal panico, corse a chiamare Owens e i ragazzi della band, che nel frattempo erano arrivati a Memphis. Furono subito allertati la polizia e i sommozzatori, ma il corpo di Buckley non fu ritrovato fino al 4 giugno, sfigurato dalla lunga immersione, in un altro punto del fiume. Jeff Buckley ci lasciava quindi a trent’anni, due più del padre, con un solo meraviglioso album e un secondo al quale aveva appena iniziato a lavorare e che prometteva di essere probabilmente un doppio, piuttosto diverso e molto più variegato, “ruvido” e diretto del suo incredibile predecessore.
LAST GOODBYE Questa a grandi linee la biografia. The Last Goodbye riparte proprio da questa e dall’evento del ventennale della morte di Jeff Buckley, per il quale si è tenuto a New York un concerto tributo, triste ironia della sorte, come quello che si tenne per il padre Tim, che lanciò la sua carriera. La luminosa idea dell’autrice dei testi e della post-fazione, Micol Beltramini, è quella di non far parlare Buckley in prima persona e di non inventare un improbabile narratore, ma di lasciare che siano sette persone realmente esistite a raccontare la loro esperienza con Jeff, ricostruendo attraverso loro gli eventi della sua vita e contribuendo così a non scrivere una biografia, ma una esperienza sfaccettata e necessariamente frammentaria, nella quale gli eventi si intersecano tra loro, integrandosi, e nella quale la personalità del cantante emerge via via come riflessa dagli occhi di chi sta in quel momento raccontando. Le persone sono state naturalmente scelte per il particolare contributo che potevano dare al racconto: si comincia con la compagna di Tim Buckley, Judy, che invitò il bimbo a casa a conoscere il padre, per passare a Janine Nichols, organizzatrice assieme ad Hal Willner del concerto tributo a Tim, al proprietario del Sin-è, Shane Doyle, al manager Steve Berkovitz, all’amica e confidente Penny Arcade, al batterista Matt Johnson, per chiudere con Pat O’Brien, proprietaria dell’ultima casa nella quale Jeff ha vissuto, a Memphis. Sono loro le voci narranti in sequenza temporale dell’intera vicenda, che i meravigliosi disegni di Gea Ferraris, per i quali è stato giustamente preferito il bianco e nero, rendono vivi e sognanti al tempo stesso, con il continuo ondeggiare tra la realtà “odierna” (in realtà di due anni fa, il ventennale è stato nel 2017) e i flashback del passato. Il quadro che emerge riesce in un compito difficilissimo, quello di essere sintetico ed emozionante al tempo stesso, segnando le principali tappe della vita e della carriera del cantante e dando al contempo anche una visione romantica, ma non per questo eccessivamente romanzata, della persona Jeff Buckley. Un artista complesso e una persona ancora più contraddittoria, non per forza meraviglioso, nonostante meravigliosa sia la sua Arte, meno icona di quanto ci si aspetterebbe da parte di un tributo e forse proprio per questo più vicino, vero e al contempo mai davvero compreso fino in fondo, come nessuno di noi lo è, per chi osserva da fuori. La lettura è veloce e ci si ritrova alla fine in un baleno: una fine che tutti conosciamo e non per questo attendiamo, come sperando che le nuvole di inchiostro ci raccontino un finale diverso, nel quale tutto va nel migliore dei modi, il disco viene registrato ed è un successo milionario, secondo di una lunga serie di capolavori; nel quale magari invece semplicemente i fantasmi di Jeff trovano pace e pace trova il ricordo del padre e di quella infanzia felice, ma al contempo straziata, come niente di definitivo era stato fino a quel momento per lui. Invece, ulteriore plauso alle due autrici, non avviene niente di tutto questo e, anzi, tutta la mitologia dietrologa sulla morte del cantante viene smontata con pochi efficacissimi tratti, lasciandoci senza altro appiglio che una realtà fredda e senza reale spiegazione. Un incidente, come ne avvengono tanti. Una morte in realtà continuamente evocata, come ad esorcizzarne la paura, ma non cercata. Un taglio drastico alla scena e alla storia, una sera di inizio estate, lungo un fiume. Un ricordo che dopo vent’anni ancora non trova requie e continua ad affiancare tutti coloro che hanno amato Jeff Buckley, la sua musica, la sua incredibile voce, il suo enorme talento. Un bellissimo tributo, che nella forma del fumetto d’autore e nel taglio dato alla narrazione trova una chiave di lettura molto interessante e pazienza se resta il dispiacere per non sentire la versione del padrino, Ron Moorehead, che ha cresciuto come padre un figlio non suo, per vederlo tornare al suo nome originario e poi ad una morte così precoce (ricorda qualcosa, non è vero?) o se neanche la madre, Mary Guibert, ha trovato un posto nella narrazione, se non una fugace apparizione all’inizio. Infine, se neanche riusciamo a sentire la voce di Gary Lucas, primo chitarrista e collaboratore di Jeff a New York, autore assieme a lui di alcuni dei brani che andranno poi su Grace. Pazienza. Le storie sono anche fatte di scelte su cosa mettere in luce e cosa invece lasciare nella penombra e le scelte delle autrici sono comprensibili, come comprensibile la necessità di lasciare al lettore l’approfondimento di alcuni particolari altrimenti non chiari, in particolare relativi alla prima parte della storia, quella narrata da Judy Buckley. Particolari che un lettore che non conoscesse a prescindere la storia di Jeff e Tim, probabilmente non riuscirebbe a capire e decifrare. Ammirevole comunque, a livello narrativo, l’espediente col quale il fatto che Jeff sia cresciuto con un altro nome, salvo poi adottare quello del padre, viene sintetizzato, per chi invece è in grado di coglierlo. Insomma, Last Goodbye vale i soldi che spenderemo per acquistarlo? Assolutamente sì. Almeno, purché non si pretenda da un fumetto che sia esaustivo al cento per cento e che contenga tutto quello che è successo nei trent’anni di vita di Jeffrey Scott Buckley. Buona lettura.
::: ::: ::: RIFERIMENTI ::: ::: ::: Titolo: Last Goodbye – Un Tributo a Jeff Buckley Autore: Micol Beltramini (Storia), Gea Ferraris (Disegni), Laura Tartaglia (Lettering), Giovanni Marinovich (Design di Copertina) Casa Editrice: Edizioni BD Prezzo: 14€ Pagine: 128 pagine, formato 16,7x24 cartonato ISBN: 9788832756500
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Azz! ok! e io che mi scervellavo pensando a qualche rock star |
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Beh direi vanno più che bene quelli che hai detto... Se sono morti giovani... |
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sinceramente neanche io ho capito a cosa ti riferisci. luke skywalker? gesù? goku? |
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Naturalmente va intesa come provocazione e non in senso, diciamo, blasfemo o elegiaco. Diciamo che mentre lo scrivevo, mi è venuto in mente un altro esempio di un padre che ha allevato un figlio non suo, che poi è morto molto giovane. Se ci pensi, credo sia abbastanza facile intuire. |
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Scusate l'ignoranza, ma quando Lizard dice "che ha cresciuto come padre un figlio non suo, per vederlo tornare al suo nome originario e poi ad una morte così precoce (ricorda qualcosa, non è vero?) " a cosa si riferisce? |
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