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PARADISE LOST - No Celebration - La Biografia Ufficiale dei Paradise Lost
08/09/2024 (839 letture)
L’idea di base di questo libro, No Celebration, era in realtà di fare l’opposto di ciò che suggerisce il titolo, ovvero celebrare la carriera dei Paradise Lost facendo un tuffo senza precedenti negli album di cui sono responsabili. Il mio obiettivo era quello di fornire un esame approfondito di ogni lavoro in studio dei Paradise Lost, che ne comprendesse il processo di composizione e registrazione, nonché il ciclo di tour per ciascuno. (David E. Gehlke)

L’AUTORE E IL LIBRO
Americano e conoscitore della band dai tempi di One Second, David E. Gehlke potrebbe non sembrare il miglior cantore di una band del Nord Inghilterra, che aveva iniziato la propria carriera da dieci anni e proprio con quel disco stava consumando una rottura che poi sarebbe stata ancora più profonda in seguito con le proprie radici metal. Eppure, dopo oltre vent’anni di passione per il gruppo, Gehlke si è posto il problema di raccontare la loro carriera, i loro dischi e la band stessa, cercando di coglierne le idee, i principi, le fondamenta stessa della loro identità. Un compito non facile, dato che i Paradise Lost sono famosi per non essere proprio una band di chiacchieroni, di avere un senso dell’umorismo tipico del Nord e del contesto post-industriale dal quale provengono e di non gradire molto le interferenze esterne, in alcun modo.
Il compito, insomma, si prospettava piuttosto duro, ma con la partecipazione di tutti i membri presenti e passati, del management (rimasto negli anni sempre delle stesse persone, Andy Farrow in particolare, con la sua Northern Music), dei discografici che hanno seguito la band, dei produttori e dei copertinisti dei vari album, il quadro che il giornalista è riuscito a comporre è in effetti molto ampio. Forse, diremmo a conclusione, fin troppo dettagliato sotto alcuni aspetti, mentre qualcosa resta comunque sfuggente. Ma con una band del genere, è davvero difficile illuminare la scena completamente, dato che, in qualunque sua forma ed evoluzione, la costante è sempre rimasta l’oscurità.

CONDANNATI A CAMBIARE
Provenienti da Halifax, centro industriale tessile in piena crisi economica negli anni Ottanta e orgogliosi rappresentanti della classe proletaria, i Paradise Lost sono prima di tutto un gruppo di amici, alcuni dei quali cresciuti assieme o che si sono conosciuti comunque ai tempi della scuola, quando hanno deciso di fondare una band. Per chi li avesse conosciuti negli ultimi anni, sarà forse sorprendente che il leit motiv di fondo tanto nella formazione del gruppo, quanto nelle amicizie con altre formazioni, fosse il death metal. Ma questa è la scena dalla quale i Paradise Lost provengono e se è vero che possono e devono essere indicati come il gruppo pioniere e inventore del gothic doom, le cui uscite discografiche ed esibizioni hanno poi influenzato e coinvolto tutti gli altri, è vero anche che la loro identità nasce e viene modellata a partire dal death metal e non dal doom, come in tanti potrebbero pensare e l’introduzione a firma Karl Willets (Bolt Thrower / Memoriam), non fa che confermarlo. Ovviamente, il racconto non poteva che partire da qui, dai primi concerti, dai localini, dalle prime composizioni e da quella che è la peculiarità ritmica del gruppo, con Matthew “Tuds” Archer, che rivela candidamente come la lentezza dei Paradise Lost deriva in primis dalla sua impossibilità di suonare più veloce la batteria, mentre Gregor Mackintosh e Aaron Aedy fin da subito si dividono i compiti, tra chi suonerà sempre e solo la solista e chi sempre e solo la ritmica. Una continuità che ormai ha superato abbondantemente i trent’anni di carriera e che costituisce le fondamenta stesse dei Paradise Lost, che nella loro esistenza hanno visto il solo ruolo di batterista cambiare con una certa costanza.
Naturalmente, quando si tratta di raccontare la prima, trionfale tranche della carriera degli inglesi, non si può nascondere la loro importanza, il ruolo avuto sulla scena, come i cambiamenti continuamente impressi alla loro musica, con i primi due dischi di fondamentale importanza per la nascita del gothic doom e il passaggio di Shades of God e del suo singolo, As I Die, come momento chiave dell’evoluzione del gruppo, che porterà ai trionfi di Icon e Draconian Times. Un passaggio questo che vide il gruppo assurgere alla propria massima fama, con la partecipazione al Monsters of Rock di Castle Donington (col nuovo batterista, Lee Morris) e i titoli della stampa inglese, che li definiva “i nuovi Metallica”. In queste pagine, gran parte dello schema ricorrente del libro viene già fuori, con la descrizione dell’album, le sue ispirazioni, le linee guida dei testi, la scelta della copertina (e le sue conseguenze, come nel caso della famigerata copertina di Lost Paradise o quella decisamente peculiare di Gothic, che rappresenta l’interno della tasca di Steve Edmonson), le fasi di registrazione, l’accoglienza e il tour conseguente. Il tutto, con i commenti della band e di tutti coloro coinvolti nel processo. Ancora più approfondito, il momento poi del trauma, della rottura, dell’abbandono delle radici metal, a partire da One Second e a maggior ragione con Host, primo album su major, con un cambiamento di vita e di organizzazione che la band perseguì volontariamente, lasciando la Music For Nations e incontrando i primi veri problemi personali (alcol, in primis) e le prime crisi interne, dettate da una strada non più condivisa, in particolare da Lee Morris, in piena rottura personale con MacKintosh. Al punto che i due smisero di parlarsi e venivano anche spesso alle mani. Poi, il lentissimo ritorno alla loro dimensione di gruppo metal, a partire dallo spento Believe in Nothing, la rottura con la EMI, l’uscita di Morris e un rapporto con i fan totalmente da ricostruire, assieme a una carriera che conoscerà per fortuna il passaggio con Century Media e l’arrivo del produttore Rhys Fulber, per un graduale rilancio che troverà infine il proprio lieto fine e un nuovo periodo di fecondità artistica da parte del gruppo. Il quale, mantenendo fede alla propria natura, continuerà a cambiare, senza mai rinnegare i propri anni di band elettronica “alla Depeche Mode” e non esiterà a lasciare anche la Century Media per passare a Nuclear Blast, riconquistando il proprio posto faticosamente anche negli Stati Uniti, mai raggiunti nei primi anni di carriera (nel libro c’è tutta una storia e relativa spiegazione, in merito al difficile rapporto con gli States). Arriviamo così agli ultimi anni e agli ultimi dischi, col recupero delle sonorità più pesanti della band e del conseguente ritorno al growl da parte di Nick Holmes, con tre batteristi cambiati nel corso del tempo, la soddisfazione del disco orchestrale (con qualche rimpianto e qualche insoddisfazione neanche troppo latente) e del concerto del trentennale, tenuto ad Halifax davanti a 150 persone. Nel mezzo, i dischi di MacKintosh con i Vallenfyre, con la sua scoperta del cantato growl e dell’essere leader e frontman di una band e di Nick Holmes con gli amici Bloodbath, a conferma delle radici death metal del gruppo e della venerazione che anche musicisti esperti, ma più giovani, continuano a provare per i Maestri inglesi. Il libro si chiude con l’uscita di Obsidian, a oggi ultima fatica in studio della band, mentre nulla viene riportato degli Host, ritorno di MacKintosh e Holmes (con la complicità del produttore Jaime Gomez Arellano) alle sonorità dark new wave, a conferma di una infatuazione per la musica elettronica e per un certo tipo di sonorità, che ne certifica in qualche modo la sincerità, anche nel momento più buio della carriera dei Paradise Lost e personale dei due musicisti.

UNA CELEBRAZIONE SOBRIA, MA SENTITA
No Celebration è un libro piuttosto corposo, con le sue quattrocentoventitre pagine, pur scritte in carattere grosso e con tante foto a inframmezzare il testo. Lo stile di David E. Gehlke è piuttosto pulito e lineare, senza retorica. Verrebbe da dire quasi “freddo”, anche quando si getta in difesa del periodo “elettronico” o esalta le ultime produzioni della band. Un cronista, nel vero senso della parola, che pur da fan e conoscitore del gruppo, cerca di non passare avanti ai fatti e alle opinioni dei musicisti e degli altri protagonisti della storia, per i quali non lesina complimenti e critiche, quando occorrono. Come sempre accade, a volte l’agiografia prende un po’ il sopravvento e così fanno l’elenco di aneddoti e riflessioni, non sempre del tutto indispensabili o particolarmente significativi. Tanto che, come spesso accade in queste pubblicazioni, a una prima parte estremamente dettagliata e carica di ricordi e significati, si arriva poi a una seconda parte nella quale il canovaccio descrittivo è talmente usurato che il passaggio da un disco a un altro avviene piuttosto repentinamente, quasi a dire “ok, anche questo è fatto, andiamo al prossimo”. Situazione abbastanza inevitabile di fronte a una band dalla lunga carriera e molto prolifica da un punto di vista discografico, che la “freddezza” del raccontatore non aiuta a superare, seppure appunto non manchino mai dettagli e descrizioni.
Nel complesso, il libro riesce assolutamente a mantenere fede al proprio assunto, riportato a inizio articolo, a sottolineare l’importanza e rilevanza dei Paradise Lost non solo nel panorama degli anni Novanta, ma assolutamente anche in quello attuale, senza per questo trasformarsi in una tronfia galleria di trofei e, anzi, riservando ampia trattazione a quello che può e deve essere ricordato come il periodo “buio” nel quale il gruppo, anche in fuga da una fama e da un circuito distruttivo personale che ha serrato le proprie mani su Holmes e MacKintosh, in particolare, ha di fatto coscientemente scansato la propria occasione di diventare una band di primissimo piano. La volontà di non ripetersi e di esplorare altro ha vinto, con tutte le conseguenze del caso. Non sapremo mai come sarebbe andata in realtà e, d’altra parte, sappiamo bene quanti gruppi raggiunto un apice, si siano poi bruciati in fretta. I quattro di Halifax (più uno) non erano e non sono una di quelle band: restano un gruppo di amici che ama scherzare assieme, ai quali piace ancora la reciproca compagnia e che, probabilmente, smetterà solo quando riterrà di non avere più nulla all’altezza del proprio nome da proporre.
In conclusione, No Celebration è una ottima biografia, un gran lavoro redazionale e un utilissimo compendio della carriera e della discografia dei Paradise Lost. Che siate fan del gruppo o meno, saprà raccontarvi tanto di loro, lasciando sempre un alone di non spiegato irraggiungibile nel quale, evidentemente, solo i membri del gruppo sanno penetrare, quando si tratta della loro storia.

AUTORE: David E. Gehlke
TITOLO: No Celebration – La Biografia Ufficiale dei Paradise Lost
EDIZIONE ORIGINALE: Reg Flag Media 2019
EDIZIONE ITALIANA: Tsunami, Gli Uragani 63, Seconda edizione luglio 2024
COPERTINA: Flessibile
PAGINE: 423
ISBN: 978-88-94859-88-1
PREZZO: € 25



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Conosciuti con Gothic, copia in vinile rosso, amati alla follia fin da subito.
Rob Fleming
Giovedì 12 Settembre 2024, 13.07.39
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Il primo disco che presi su Shades of God; per Icon li andai pure a vedere a Firenze e con Draconian Times capitolai definitivamente. Anche se, oggi come oggi, il disco che ascolto di più è One Second.
Robbhunter
Giovedì 12 Settembre 2024, 11.13.33
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Purtroppo non sono mai riuscito ad apprezzarli.
E.B.
Giovedì 12 Settembre 2024, 10.29.57
4
Conosciuti ai tempi dì Gothic grazie a un mio amico più grande che ne arrivava dal Gothic rock. Mai più mollati.
Barfly
Martedì 10 Settembre 2024, 19.53.11
3
Saranno per sempre nel mio cuore per aver realizzato IL disco metal degli anni 90, Draconian Times
Alberto
Martedì 10 Settembre 2024, 18.27.04
2
Band enorme che ha saputo reinventarsi riscoprendo se stessa negli ultimi anni, con dischi forse anche più maturi e completi... per me, dei giganti e forse ancora sottovalutati.
Giasse
Martedì 10 Settembre 2024, 0.14.20
1
Veramente incredibile associare oggi i Metallica ai Paradise Lost… ma con grande lucidità si rammenta nell’articolo che quando usci Icon, molti furono i paragoni sprecati in quella direzione. Amati alla follia dai tempi di Lost Paradise. Visti la prima volta di supporto ai Sepultura a Sesto San Giovanni quando - per me - surclassarono la corazzata brasiliana. Restano e resteranno uno dei miei gruppi preferiti assieme ai My Dying Bride. Curioso di leggere il libro. M.
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