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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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13/12/2015
( 921 letture )
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Forse in pochi se ne sono accorti, ma nel 2012 i Teodor Tuff hanno rilasciato un gran bel disco di heavy/prog, che avrebbe meritato rispetto e attenzione da parte di tutti gli amanti del genere. La band norvegese iniziò il proprio percorso qualche anno fa e nel 2009 aveva prodotto il proprio primo album, di matrice prevalentemente hard rock. Come spesso accade in questi casi, pur a fronte di un buon riscontro e di qualche tour di supporto anche importante (Whitesnake e Deep Purple, tanto per dire), le cose all’interno del gruppo non sembravano girare più e fu così che ben tre membri della band lasciarono. A sostituirli arrivarono due fratelli, Christer e Rayner Harøy, chitarra e basso, mentre loro cugino Terje divenne invece il cantante. I due fratelli Harøy provenivano da un’altra band, i Divided Multitude ed erano già molto affiatati, tanto che l’arrivo del terzetto spostò notevolmente l’asse musicale della band, che da lì a poco avrebbe assunto una connotazione decisamente più originale e progressiva, con l’approdo verso sonorità più heavy e prog oriented, che andavano a completare le influenze classiche e mediorientali del restante chitarrista Knut Lysklætt, amante anche della rock opera. Il risultato del mix di influenze è il qui presente Soliloquy, un disco a suo modo unico e decisamente interessante.
Come detto, la base di partenza della band era l’hard rock e, per certi versi, si potrebbe dire che qualcosa sopravvive ancora di quella primaria influenza: i brani infatti pur se fortemente articolati e decisamente originali e particolari, non rinunciano mai ad una prominente melodia e all’attenzione verso linee comunque memorizzabili ed a refrain cantabili, approfittando per questo della gran prova dietro al microfono di Terje Harøy, un vero talento dalla buona estensione e dalla timbrica chiara e piacevole, che riesce a diversificare in maniera encomiabile il proprio approccio tra canzone e canzone, tanto da diventare un trademark della proposta della band. Eppure, la particolarità del sound del gruppo non risiede in questo, ma nel riuscito equilibrio tra le influenze heavy e prog da un lato e tra quelle folk e legate alla opera metal dall’altro. Non sorprenda pertanto di scorrere la scaletta e di trovare una variegata compagnia ad accoglierci, che va dai cori operistici che aprono il disco, alle sonorità quasi vicine al power di Delusions of Grandeur che fanno il paio con riffoni e assoli tipicamente prog metal, con cori polifonici a sorreggere il refrain hard rock, piuttosto che l’hard rock moderno e potente di Addiction o al bilanciamento tra heavy e prog dell’ottima The Last Supper. In questo senso, il lavoro delle due chitarre appare a dir poco fondamentale: Christer Harøy e Knut Lysklætt formano un duo di tutto rispetto e di elevato tasso tecnico ed entrambi riescono compositivamente a completarsi, offrendo ciascuno uno spaccato del complesso e particolare affresco poi messo in opera dai Teodor Tuff al completo. Le partiture ritmiche scelgono spesso la soluzione del riff trainante, salvo poi aprirsi ad arpeggi, assoli, break strumentali di pregio e di ottima fattura, che non vanno mai a giocare però un ruolo da protagonista che, come detto, viene praticamente sempre lasciato alla voce e ai cori polifonici, confermando come tutti i musicisti abbiano saputo mettersi al servizio della band e della musica, senza per questo rinunciare alle proprie peculiarità e brani come The Last Supper e Mountain Rose non possono che confermarlo. La lunga e strutturata Heavenly Manna esalta il complesso e le sue architetture particolari, così come le scelte melodiche e armoniche messe in campo, finendo per giocare il ruolo di spartiacque dell’album. In particolare, su questa traccia troviamo un lungo duello chitarristico nel quale hanno modo di mettersi in mostra, oltre ai due padroni di casa, anche gli ospiti Martin Buus (Mercenary), Mattias IA Eklundh (Freak Kitchen, Evergrey) e nientedimenoche Jeff Waters (Annihilator), i quali contribuiscono ad esaltare questo brano dall’atmosfera araba. Il lato più propriamente prog viene messo in mostra nella successiva Deng’s Dictum, dal refrain ipnotico, come spesso accade in Soliloquy e dalla ritmica serrata e ossessionante. Niente da dire, il gruppo sa davvero come costruire brani che pur mantenendo una facilità di ascolto notevole, non sembrano fornire punti di contatto preciso con altre realtà coeve, si prendano ad esempio una Hymn (for an Embattled Mind) e Mind Over Matter, il cui sviluppo riesce ad essere al tempo stesso del tutto spiazzante, eppure melodicamente credibile e coinvolgente. Molto emozionante Lullaby, col suo crescendo di matrice heavy/power che esalta l’inizio acustico e una fine che arriva fin troppo improvvisa, quasi a non voler rincuorare troppo l’ascoltatore col suo incedere caldo e appassionato. Chiude il disco Tower of Power, brano scelto come singolo e perfetto esempio delle qualità della band: si tratta indubbiamente di una delle tracce migliori del disco e il suo refrain è irresistibile, eppure sbaglierebbe chi pensasse che il suo ascolto potesse rendere un’idea esaustiva del caleidoscopio musicale eretto dai norvegesi, rivelandosi invece un ben più che gradevole antipasto di quanto si trova in Soliloquy. L’ascolto è comunque più che consigliato per un primo passo nel mondo dei Teodor Tuff.
Siamo insomma al cospetto di un gruppo meritevole e dalle grandi potenzialità, che è riuscito nel difficilissimo compito odierno di non somigliare a nessuno in particolare, senza rincorrere la via dell’ermetismo musicale. L’originalità o per meglio dire la personalità del gruppo emerge nel modo peculiare in cui gli ingredienti di base sono utilizzati e messi assieme, più che in un’assoluta novità. I brani sono tutti melodicamente apprezzabili e riusciti ma dotati di una personalità particolare e non facilmente riportabile ad altro. L’ottimo e moderno lavoro delle due chitarre e la qualità vocale di Terje Harøy, assieme al riuscito connubio di heavy/power e prog, di influenze operistiche, l’insistito e perfettamente incastonato uso di armonie e cori polifonici, il riffing potente ma al contempo melodico, assieme al gusto particolare nella creazione dei brani e delle strutture, fanno di Soliloquy un disco da avere per gli appassionati del genere e per chi cerca del buon metal moderno ed evoluto che non sia astruso o richieda infinita pazienza per estrapolarne il contenuto. La produzione, ad opera di Jacob Hansen (Volbeat, Mercenary, Pestilence), regge il difficile compito di dare merito alle stratificazioni di suono e agli arrangiamenti ricercati. Merito infine per la particolare vena lirica del gruppo, piuttosto sarcastica e molto incentrata su temi spirituali e di ricerca personale. Ce n’è abbastanza per attendere con ansia il loro ritorno verso un terzo album che potrebbe fare dei Teodor Tuff una delle band su cui puntare per il futuro del genere.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Godagar 2. The Last Supper 3. Addiction 4. Mountain Rose 5. Hymn (for an Embattled Mind) 6. Delusions of Grandeur 7. Heavenly Manna 8. Deng’s Dictum 9. Lullaby 10. Mind Over Matter 11. Tower of Power
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Line Up
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Terje Harøy (Voce) Christer Harøy (Chitarra) Knut Lysklætt (Chitarra) Rayner Harøy (Basso) Knut Hellem (Batteria)
Musicisti Ospiti Tonje Harøy (Cori su tracce 2, 5, 8, 9) Ida Haukland (Cori e voce su tracce 3, 7) Jacob Hansen (Cori su tracce 4, 11) Jeff Waters (Solo su traccia 7) Mattias IA Eklundh (Solo su traccia 7) Martin Buus (Solo su traccia 7) Eskild Kløften (Tastiera su tracce 3, 8, 11) Helge Flatgard (Tastiera su tracce 1, 2, 4, 5, 7, 11) Coro su traccia 1 (soprano Ingrid Synnøve østvang, soprano Kjersti østeras, soprano Merethe Trøan, alto Camilla Rusten, alto Margareth Nordbøe Brøndbo)
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