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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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17/08/2017
( 1205 letture )
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Louisiana, Georgia e Texas sono gli stati principali degli USA che, oltre a rappresentare la “culla” dello sludge, continuano a sfornare un'infinità di band che vanno a nutrire una scena praticamente tanto vasta quanto eterogenea (pur parlando di un unico stile), nonché particolarmente viva anche a livello di piccole label nel promuovere un genere che, a quanto pare, sembra non accusare particolari segni di stanchezza, per lo meno in linea teorica. Avevamo già parlato della Artificial Head Records in occasione della recensione dell'album di esordio dei Mountain God, la stessa etichetta texana ci propone ancora un altro album di debutto ovvero quello dei connazionali Cursus. Innanzitutto, uno sguardo anche solo sommario al moniker ci indirizza verso richiami esoterici: i cursus sono infatti dei tratti longitudinali risalenti all'era neolitica delimitati da strutture di recinzione al cui interno si suppone venissero officiate delle processioni rituali.
La band è costituita da un duo che suddivide le proprie mansioni rispettivamente tra chitarra, voce e sample da una parte e batteria dall'altra; l'essenzialità della line-up riflette un songwriting particolarmente scarno, tendente alla costruzione di brani che si basano sostanzialmente su un riff portante più qualche piccola variante; al loro interno vengono intercalati dei sample che vanno a determinare delle specie di “oscillazioni armoniche”. Nell'insieme questa concezione di scrittura dovrebbe indurci ad una sorta di ipnosi liturgica, quasi come se ci stessimo addentrando in una di preparazione ante-cerimoniam. Nella sostanza, tuttavia, le buone intenzioni del duo si scontrano con un'evidente approssimazione nella registrazione, nell'esecuzione e nella composizione, inficiando pesantemente il risultato finale pur considerando che in linea generale lo sludge e più universalmente il doom non sono generi particolarmente categorici su questi parametri a differenza delle intenzioni nel suonarlo, che non possono prescindere da una ricerca quasi spasmodica di ciò che scuote e perturba il nostro essere.
Parliamo in primis della registrazione; come sappiamo il lo-fi è ampiamente tollerato, non nel caso però in cui si tocchino degli estremi tali da rendere un'incisione praticamente innocua; praticamente ogni dettaglio, dalle distorsioni delle chitarre alle dinamiche pressoché ridicole della batteria, fino a tutto l'insieme della pasta sonora, viene per così dire affondato in una specie di sostrato uniforme nel quale è impossibile percepire la forza e la rabbia che questo genere ha insito nel suo DNA, assicurandovi tra l'altro che una ripresa amatoriale dal vivo di questa stessa band ha una resa sonora decisamente superiore.
Riguardo ai brani, abbiamo fatto riferimento ad una certa semplicità di fondo come tratto distintivo, il che di per sé non rappresenta un difetto, ma ovviamente a condizione che a questa si affianchi una consistente scintilla sul versante ispirazionale, che purtroppo, in questo caso, risulta assolutamente assente. Precisiamo meglio il contesto: l'impressione è che i pezzi nascano da una sorta di jam tra due musicisti a cui manchi effettivamente la volontà di insistere sul songwriting per creare qualcosa che abbia effettivamente un senso compiuto, come se si stesse registrando una serie di spunti per analizzarli e lo step successivo in realtà non si realizzasse. A questi, come dicevamo, vengono aggiunti degli arabeschi che, alla prova dei fatti, rivelano una funzione poco più che ornamentale, sorta di espediente scenico per celare una povertà di fondo che sfortunatamente non si dissolve mai per tutta la durata del viaggio. In realtà gli spunti offerti dal riffing e dal drumming possono anche non dispiacere, pur rivelandosi assai rozzi e basilari, ma al contempo non esaltano e soprattutto non lasciano il segno. Oltre ai soli cinque brani inediti, i Cursus giocano inoltre la carta della cover e per l'ennesima volta la scelta cade su un brano dei Pink Floyd, nella fattispecie Set the Controls for the Hearth of the Sun. Al di là della (sfortunata, per il duo in questione) coincidenza dell’uscita praticamente in contemporanea della versione della medesima traccia elaborata dai portoghesi Wells Valley, sorretta da ben altro lavoro in sede di scrittura e da una capacità di rapportarsi con l’originale decisamente più feconda, restano alcune considerazioni non proprio confortanti sulle scelte delle band quando decidono di avventurarsi sul pianeta cover. Se infatti, da un lato, due rielaborazioni della stessa traccia in due album differenti (apparsi oltretutto nel breve volgere di pochi mesi) certificano l’inossidabilità di una devozione floydiana ormai prossima alle celebrazioni del mezzo secolo, dall’altro sarebbe auspicabile una ben più consistente dose di coraggio, alla ricerca di strade diverse che, certo, comportano l’abbandono dell’ombrello protettivo dei grandi nomi, ma, del pari, ridurrebbero il rischio delle brutte figure, offrendo oltretutto la possibilità di allargare orizzonti e prospettive. Ma ahinoi, purtroppo, almeno per ora nelle corde dei texani non ci sono né gli Slayer di Undisputed Attitude né, tanto per restare sul patrio suolo, i The Hounds of Hasselvander di Ancients Rocks… ed è un peccato. In ultimo manca perfino la voglia di descrivere un confronto tra le due versioni, visto che risulta difficile descrivere un abisso.
Detto ciò non ci resta che rinviare i Cursus ad un prossimo confronto, augurandoci che queste critiche possano stimolare i due texani a concentrarsi sui vari layer che caratterizzano la loro proposta. Non manca una discreta base, in termini di originalità, ora l’obiettivo è lavorare veramente sodo al fine di creare finalmente un risultato tanto unico quanto affascinante, non di certo “fruscii” che si trascinano senza ricordo lasciare. Buona gavetta, ragazzi.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Her Wings Covered the Sky 2. Waters of Wrath 3. The Guardian 4. Set the Controls for the Hearth of the Sun 5. Trail of Tears 6. The Empire Will Fall
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Line Up
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Cj Salem (Voce, Chitarra, Samples) Sarah Ann Roork (Batteria)
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RECENSIONI |
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