|
27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
|
|
|
15/09/2017
( 2762 letture )
|
Incredibile come, a distanza di quasi dieci anni dall'ormai ultimo Sound Proof (2008), sia tornato a farsi sentire uno dei grandi maestri della chitarra. Greg Howe, ultimamente sotto i riflettori più del solito vista la sua intensa attività live dell'ultimo periodo, torna a far parlare di sé con Wheelhouse. Di contro alle nostre parole, a dare voce alle sue frasi invece troviamo la sua meravigliosa sei corde, protagonista indiscussa -come sempre- dei suoi dischi strumentali. Alla fine dopo tanti anni continuiamo a parlare di fusion, sporcata di solidi riff tipici dell'hard rock, atmosfere blues ed eleganti fraseggi jazz. Con una miscela del genere è facile cadere nel banale errore di tirare fuori un disco estremamente tecnico ma povero d'idee: non a caso la fusion stessa negli anni ha tirato fuori tanti dischi meravigliosi quante vicendevoli fotocopie. Eppure fin dai lontani esordi nel 1988 con l'omonimo lavoro, il chitarrista di Easton ha avuto un occhio di riguardo nel panorama musicale. Greg Howe rientra infatti nella cerchia dei chitarristi lanciati dalla Shrapnel Records di Mike Varney, che in quegli anni si è curata di far emergere dei grandi simboli della chitarra moderna come Marty Friedman, Jason Becker, Paul Gilbert e Richie Kotzen. Con l'ultimo chitarrista citato Howe pubblicherà anche due dischi di spessore come Tilt (1995) e Project (1997). Questi sono solo alcuni dei tanti nomi dell'esplosivo ambiente di fine anni ottanta, che ad immaginarlo oggi lascia veramente i brividi.
Le sensazioni che giungono all'apertura di Tempest Pulse sono le medesime, poiché sembra di essere tornati indietro nel tempo ai ritmi funky di Introspection, che tanto hanno forgiato la fama dell'artista. La timbrica del maestro si è fatta ancora più pulita e la firma stilistica rimane pressoché invariata: Greg Howe rimane, tra legati, rapidi arpeggi in palm mute e lick con continui salti di corda uno dei chitarristi che si riconosce dopo pochissime note. Dopo un'opener che potrebbe essere la definizione del genere da manuale, con un leggero sapore rétro e caraibico, con un piacevole break classicheggiante, proseguiamo l'ascolto su altri lidi. Inizio rilassato e scandito per 2 in 1, altro pezzo fenomenale di questo Wheelhouse che sembra bruciare la partenza senza risparmiarsi niente. La seconda traccia vede la presenza dell'organista jazz Ronnie Foster (noto per le sue collaborazioni con George Benson, Chet Atkins, Stevie Wonder, etc.). Le influenze si miscelano meravigliosamente: basta prendere come esempio lo stacco poco dopo i cinquanta secondi dall'inizio del pezzo, dove la pacatezza del jazz si miscela perfettamente con un riff distorto tipicamente hard rock. Il combo funziona tremendamente bene e tutta la composizione conferisce ampiamente spazio ad entrambi gli artisti. Il finale di matrice easy jazz / swing anni quaranta dove è l'organo di Ronnie Foster a fare da protagonista non può che lasciarci il sorriso, mettendo la ciliegina sulla torta a un gran brano. Con Throw Down ci spostiamo ulteriormente, andando ad approdare su lidi più veloci e rock. Nonostante l'apparenza più fiera, il pezzo è un susseguirsi di finezze: il lick sullo stacco a un minuto e sei secondi è assolutamente incredibile e vale l'ascolto di quasi tutto il pezzo. Scale dopo scale si susseguono con un grande tecnicismo che tuttavia non è mai fine a se stesso e che non tralascia mai il gusto melodico. Passando per le atmosfere rarefatte di Landslide, dove ritmi più lenti e sonorità jazz incontrano momenti di maggiore serietà sonora, ci rendiamo conto come Howe abbia sempre mantenuto altissimo il gusto melodico delle sue composizioni, senza mai finire a svolgere meri esercizi di pratica. Cosa difficilissima e per niente scontata nell'ambiente fusion e, più in generale, in quello shred/solista. I lunghi assoli del chitarrista si alternano a quelli più brevi, ma altrettanto corposi del bassista Jon Reshard. Key to Open è il classico interludio acustico costellato di sestine, armonici e rapidi arpeggi che spezza a metà molti dei dischi dell'artista preso in analisi quest'oggi. Un ponte breve e funzionale al suo scopo che, dopo averci lasciato un po' di fiato, ci porta su una costa jazz dal sapore leggermente più acid. Push On mette in risalto, seppur in maniera meno trascinante rispetto alle tracce antecedenti, la ricerca di uno stratocaster-tone negli anni sempre più pulito e orientato ai pickup single coil. Le atmosfere si alleggeriscono nuovamente con Let it Slip dove funk e blues si abbracciano amorevolmente. La cosa che colpisce è come la composizione del brano e l'impronta solista di Howe sia tremendamente onesta e naturale, mai forzata o artificiosa. Il brano, solare e spensierato, regala diversi momenti sorridenti e leggeri in piena tradizione dell'artista. Ci avviciniamo alle conclusioni con I Wonder, brano più ostico e acido sia nella costruzione che nelle sonorità. Classe ed eleganza miscelano ritmiche funky ad un uso del wah-wah abbastanza pronunciato in sede solista, producendo sezioni più nervose che si alternano ad altre decisamente più ariose e leggere. A circa metà composizione molto spazio viene lasciato alle pelli di Pepe Jimenez che svolge un gran lavoro solista, senza risultare eccessivamente pretenzioso ed invadente, ma integrandosi morbidamente nel contesto. La chiusura è affidata all'unico pezzo cantato di tutto il disco, che vede la presenza di Richie Kotzen sia alla sei corde che al microfono. Shady Lane è una ballad scritta dal chitarrista e dal fratello nei primi anni novanta, che -come rilasciato in una recente intervista- ha molto significato per lui e negli anni è stato un punto di connessione fra molte persone della sua vita. Le atmosfere in clean ospitano versi di un amore passionale e finito male, cantati dal registro -forse troppo alto per il pezzo in questione- dello stesso Kotzen, che si presta successivamente in un buon assolo che va ad alternarsi con i fraseggi puliti di Howe.
Un velo di tristezza viene steso sulle ultime note di questo platter, che trova una chiusura sicuramente d'effetto e di buon livello. Wheelhouse è tanto omogeneo in termini qualitativi, quanto eterogeneo nella proposta. Nonostante il disco aggiunga poco e niente alla già ricca carriera di Greg Howe, senza ridefinire lo stile della sua sei corde o della fusion, il livello medio delle composizioni rimane decisamente alto e non si può non consigliare l'acquisto di un disco del genere. Adatto alle riflessioni della sera e alle giornate con il sole sul volto, Wheelhouse risulta estremamente godibile e versatile. Ancora una volta: complimenti maestro, sei una delle poche certezze rimaste.
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
4
|
Finalmente è tornato... e con un signor disco!!! Si conferma uno dei più grandi della sei corde! Perfetto equilibrio di tecnica eccezionale e gusto musicale! Come detto nella recensione: una certezza! |
|
|
|
|
|
|
3
|
Ciao JTG, come sempre siamo in accordo e ti ringrazio tanto per la tua bella aggiunta in calce a questa recensione. Un carissimo abbraccio.. aspettavo al varco il tuo commento ! |
|
|
|
|
|
|
2
|
Ciao Jim! Un saluto  |
|
|
|
|
|
|
1
|
Howe è rimasto uno dei pochi chitarristi solisti che riescono sempre a sorprendere. Finalmente torna in sala di incisione per rinvigorire un settore piuttosto impanato e lo fa recuperando influenze di stili, di incisioni passate e riducendo il gain della sua chitarra portanto il sound piuttosto "tele-stratocaster" senza tralasciare nessuna tecnica chitarristica come solo lui sa fare. Tutto questo ermerge Da "Tempest pulse" con influenze ritmiche nello stile di Michel Camilo, in "2 in 1" con battute swing degli anni '40, al recupero di un brano composto molti anni addietro come "shady lane". Un disco in linea con lo stile tipico di Howe: c'è il suo trascinate jazz-rock impreziosito dal funky, qui ancora una volta contaminato negli sviluppi dei box dal compianto holdsworth. Insomma come sta accadendo per molti chitarristi solisti, il plettro compositivo si comporta come un motore di ricerca ciò si tente a sbirciare, prima nel proprio passato artistico e alle proprie influenze stilistiche caratterizzanti, ma anche in quello Dei periodi d'oro che hanno fatto scuola e successo nel settore musicale in particolare nel rock-blues-jazz. Un meccanismo comprensibile, forse giustificabile per Howe visto che sono passati già 30 anni dal suo debutto nella scuderia Shrapnel. Il tutto suona bene, molto meno " guitar hero", molto, ma molto più amichevole e piacevole tanto da renderlo facilmente assimilabile, certamente un lavoro adatto ad un pubblico vasto e meno di nicchia. Per gli appassionati di shred forse È un po' poco, ma mi sento di scrivere in questo spazio "...ben tornato "Greg Howe". (Voto 8).. un saluto a Michele. Jimi TG (di passaggio) |
|
|
|
|
|
INFORMAZIONI |
 |
 |
|
|
|
Tracklist
|
1. Tempest Pulse 2. 2 in 1 3. Throw Down 4. Landslide 5. Key to Open 6. Push On 7. Let it Slip 8. I Wonder 9. Shady Lane
|
|
Line Up
|
Greg Howe (Chitarra)
Musicisti Ospiti: Richie Kotzen (Voce, Chitarra nella traccia 9) Ronnie Foster (Tastiere nella traccia 2) Rochon Westmoreland (Basso nelle tracce 1, 3, 6, 7 e 8) Kevin Vecchione (Basso nelle tracce 2 e 9) Jon Reshard (Basso nella traccia 4) Gianluca Palmieri (Batteria nelle tracce 2, 4 e 9) Pepe Jimenez (Batteria nelle tracce 1, 3, 6, 7 e 8)
|
|
|
|
RECENSIONI |
 |
|
|
|
|
|
|
|