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27/04/25
THE LUMINEERS
UNIPOL FORUM, VIA GIUSEPPE DI VITTORIO 6 - ASSAGO (MI)
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07/06/2018
( 3660 letture )
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“When I was in the emergency room, I felt the worst pain I've ever felt. Then I left my body. I completely dissociated. There was a period of time, though I'm not sure if time had anything to do with it, where I was aware but I wasn't "me" at all…”
Dolore, sofferenza e perdita di contatto col tempo e col “sé”… non poteva iniziare con premesse più inquietanti ed oscure, l’iter creativo del successore di quel Clearing the Path to Ascend che nel 2014 aveva definitamente consacrato gli Yob tra le punte di diamante del panorama doom internazionale, ennesimo gioiello di una carriera incapace di attraversare fasi non diciamo di crisi ma anche solo di semplice e forse fisiologico appannamento, stante un orizzonte temporale ormai prossimo al completamento del quarto lustro di attività. A pronunciare una simile frase è stato il deus ex machina della band, Mike Scheidt, reduce da un delicato e interminabile intervento chirurgico dopo una grave crisi intestinale frutto della patologia diverticolare da cui il singer/chitarrista è cronicamente tormentato e che mai come in questa occasione ha rischiato di mettere la parola fine alla storia del moniker dell’Oregon. Già durante l’interminabile periodo di convalescenza e annessa riabilitazione (in cui, detto per inciso, Scheidt ha potuto toccare con mano l’affetto di amici e fan, complice una riuscitissima raccolta fondi per pagare le spese mediche, a testimonianza peraltro del non traboccare dell’oro nelle tasche dei metal artisti contemporanei… oltre che della discutibile architettura del sistema sanitario a stelle e strisce), la chitarra è stata l’inseparabile compagna di terapia sulla strada della ripresa fisica, capace di riprodurre in musica i cambi di prospettiva che quasi inevitabilmente accompagnano i grandi crocevia dell’esistenza.
Così, a un solo anno di distanza dalla dura prova affrontata dal loro frontman, gli Yob possono oggi ripresentarsi sulla scena con l’ottavo capitolo sulle lunghe distanze di un full-length, pronti a distillare ancora una volta quella pozione “fuori commercio” che li ha resi una realtà unica tra i discepoli della scuola sabbathiana. Già, perché se mai dovessimo indicare un esempio non convenzionale per affrontare e declinare la materia doom, il terzetto di Eugene si aggiudicherebbe senza grossa fatica uno dei posti d’onore dell’ipotetico podio dell’imprevedibilità, stante il carico di contaminazioni e ibridazioni messo in campo in ogni uscita fin da Elaborations of Carbon. Sludge, stoner, psych, space, post, ci siamo arrovellati per anni, nel tentativo di inquadrare la loro musica affinando il livello di dettaglio, ma la realtà è che i Nostri si sono sempre sottratti a qualsiasi tentativo di rigida catalogazione, offrendo così più di una sponda da un lato agli amanti dei percorsi al limite della sperimentalità e dall’altro alle perplessità dei doomsters più ortodossi. Con simili premesse, non ha mai stupito il fatto che l’altro grande pilastro della poetica della band sia da sempre un’immediatezza (eufemisticamente) problematica sul fronte della fruizione, al punto che solo ripetuti ascolti e una dedizione totale consentono di entrare in sintonia con lavori oggettivamente difficili da assimilare.
Ansia di catalogazione e approccio superficiale sono i nemici giurati anche di questo Our Raw Heart, con l’aggiunta di una durata complessiva e delle singole tracce davvero significativa, in un continuo tourbillon di fondali e linguaggi che rischia di stancare per overdose di spiazzamento o, nella migliore delle ipotesi, di generare compulsivi ricorsi al tasto FFWD. Chi ha seguito l’iter di lancio del platter, con le canoniche anticipazioni rilasciate dalla label (la Relapse Records, nella fattispecie, dopo l’abbandono della Neurot a conferma di un più che discreto “nomadismo”, sul fronte dell’accasamento discografico), sa perfettamente cosa attendersi dopo aver ascoltato due anteprime così distanti stilisticamente come The Screen e la titletrack, ma, se possibile, il tasso di smarrimento crescerà ulteriormente alla fine di questi 75 minuti, in cui si viene sballottati tra passaggi spigolosissimi e momenti di autentica estasi lirica, attraversando tutta la gamma dei possibili “colori” intermedi. Non ci sono grosse sorprese, peraltro, neanche sul versante degli altri marchi di fabbrica che hanno nobilitato le prove del passato, a cominciare dall’essenzialità delle linee narrative (alla ricerca di una psichedelia mai d’effetto ma piuttosto giocata sulla circolarità del ritmo) e dalla prova al microfono di Scheidt, semplicemente mostruoso alle prese con la triade scream/growl/clean (con particolare nota di merito per quest’ultimo timbro, in cui Mike rivela doti da vero interprete, molto più vicino a Brian Adams che a Thomas A.G. Jensen, estremizzando il concetto). Tutto perfetto, dunque? Possiamo annoverare Our Raw Heart tra le pietre miliari delle uscite doom di questo 2018? Non del tutto, purtroppo, perché a differenza del passato stavolta qualcosa di un motore generalmente impeccabile non gira perfettamente a regime e scopre il fianco a un senso di saturazione che intacca in più di un episodio il coinvolgimento emotivo, a dispetto (o forse proprio per colpa) del banchetto pantagruelicamente apparecchiato.
Prendiamo come plastico esempio la già citata The Screen o la “sorella” In Reverie: ritmo marzialmente incalzante, architetture imponenti, fango sludge che affiora a rallentare l’andatura, tutto formalmente impeccabile, ma cosa è rimasto delle pirotecniche soluzioni stoner/hard rock che avevano animato, per esempio, un brano dalle pari velleità come Revolution, sul debut? Oppure concentriamoci sulla stessa, conclusiva titletrack, cesellata alla perfezione con un gusto atmosferico/malinconico che esalta la componente introspettiva da sempre nelle corde del terzetto incastonandola in una cornice space, ma che si trascina un po’ troppo stancamente raffreddando di molto gli entusiasmi iniziali a mano a mano che ci si avvicina al (lontano, collocato com’è alle soglie dei quindici minuti) traguardo finale. Attenzione però a immaginare anche solo lontanamente o in via puramente ipotetica che gli Yob possano rilasciare prodotti ammantati da un’aura di anonimato, perché anche in questo ottavo cimento la qualità non solo non manca (consideriamo pure Original Face un pezzo relativamente “di mestiere”, ma la sfida sarà comunque quella di non farsi trascinare dalle sue spire sinuosamente acide… almeno per chi ha frequentato con costrutto le lezioni dell’ultimo nato in casa Crowbar), ma emerge cristallina in diversi episodi. Così l’opener Ablaze brilla in virtù di un doom psichedelicamente orientato che non smarrisce però il rapporto con le basi muscolari del genere e le sfrutta per calibrare a dovere la tensione (e fisiologicamente questi dieci minuti hanno ben altra scorrevolezza, rispetto alla titletrack), mentre va del pari apprezzato l’esperimento di Lungs Reach, trionfo di cristallizzazioni drone che preparano un sorprendente epilogo funeral, a testimonianza di come batta ancora forte, il cuore più coraggiosamente sperimentale della band. Su coordinate artistiche completamente diverse, il carico da novanta decisivo viene calato con la magnifica Beauty in Falling Leaves, probabilmente il brano più malinconicamente crepuscolare mai composto dai Nostri. Siamo ormai decisamente oltre il perimetro del doom classicamente inteso e la componente atmosferica sembra sempre sul punto di prendere il sopravvento, minacciando di spostare l’asse della traccia verso gli zampilli eterei a cui ultimamente si abbeverano gli Anathema, ma grazie soprattutto al contrasto magico tra una base accentuatamente melodica e il cantato qui quasi sabbioso di Scheidt, a trionfare è un retrogusto quasi alcestiano, con rotta verso quel doom cantautorale in cui solo le penne più ispirate del genere possono avventurarsi senza rischiare rovinose cadute. E questa volta davvero, dei sedici minuti trascorsi non rimane traccia di stanchezza, a fine corsa…
Tanta carne al fuoco su un braciere per una volta forse non del tutto adeguatamente alimentato, qualche volo troppo prolungato in cieli non sufficientemente sconfinati, un innegabile anche se non esiziale passo indietro rispetto alla monumentale serie di centri pieni messi a segno finora dalla band, Our Raw Heart è comunque un album che non scende mai sotto la linea di un’assoluta godibilità anche nei suoi anfratti meno poeticamente riusciti e in più di un’occasione riesce ad arrampicarsi sulle vette a cui gli Yob ci hanno abituato. Ci sarà tempo e modo, di riprendere il filo di un discorso comunque non interrotto, nel frattempo bentornato, Mike.
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8
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Ho il disco ancora sigillato ascolto a breve |
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7
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Tendo a preferirli nei momenti introspettivi davvero di pregevole fattura. Beauty in Falling Leaves e la title track sono composizioni fuori dal comune. Sembra di sentire i Kyuss che giocano a suonare gli Alcest. Follia pura! Nelle parti più brutali e tipicamente doom invece mostrano qualche battuta d'arresto come in The Screen e in In Reverie dove l'eccessiva durata dei brani rischia di rendere noiosetto l'ascolo. Per quel che mi riguarda bastano solamente i due pezzi prima citati a promuovere quest'uscita. Voto: 79 |
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6
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Ho dimenticato, pure la title track,stupenda! |
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5
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Questo ultimo lavoro degli YOB mi piace davvero molto,come tutta la loro produzione,non concordo totalmente con la recensione ,perchè trovo che questo Our Raw Heart sia uno dei migliori dischi "doom" dell'anno,Ablaze,Beauty in falling leaves,Original face,sono le mie preferite,ma in genere il loro sound è sempre particolare molto d'atmosfera e questo è un elemento caratterizzante di una grande band come YOB. |
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4
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Non è certo come il precedente ma siamo in ogni caso su livelli molto, molto elevati, sia come songwriting che come phatos generale. Abbastanza esagerata la differenza di punteggio (OK, OK, i differenti recensori, etc., etc. sottolineato mille volte su questo sito...). Solo Beauty in Falling Leaves e la titletrack, valgono da sole l'acquisto del disco ma anche Ablaze e Original Face, sono veramente ottime. Un po' inferiori le altre anche se Lungs Reach cresce con gli ascolti. Una delle assolute migliori uscite dell'anno. Poi, bien sûr, si può criticare quello che si vuole. Ma ne uscissero di dischi di questo livello.... Au revoir. |
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3
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Immesi YOB! Me lo segno. "Catharsis" è stato un album quasi epocale per il sottoscritto... |
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2
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L'anteprima non mi aveva colpito granché e, in ogni caso, era improbabile bissare la qualità dello splendido predecessore. Cmq lo ascolterò quanto prima! |
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1
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Concordo con la recensione, tutto formalmente impeccabile ma manca l'inatteso, quello che ti proiettava nello spazio. Comunque lo devo ascoltare più volte e in ogni caso non si può non essere contenti per il fatto che ci siano ancora. Mi piacerebbe vederli in Italia. Ho visto che negli States fanno delle date con i Bell Witch, per me sarebbe il massimo anche se bisognerebbe portarsi dietro un defibrillatore. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Ablaze 2. The Screen 3. In Reverie 4. Lungs Reach 5. Beauty in Falling Leaves 6. Original Face 7. Our Raw Heart
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Line Up
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Mike Scheidt (Voce, Chitarra) Aaron Rieseberg (Basso) Travis Foster (Batteria)
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