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27/04/25
THE LUMINEERS
UNIPOL FORUM, VIA GIUSEPPE DI VITTORIO 6 - ASSAGO (MI)
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Yob - The Illusion of Motion
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03/02/2018
( 2109 letture )
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"Da somministrare esclusivamente a soggetti di cui sia già accertata la tolleranza per i principi attivi contenuti. Produce assuefazione."
Si potrebbe aprire più o meno con queste parole, un ipotetico foglietto illustrativo/bugiardino che una legge uscita da qualche fervida mente censoria imponesse di allegare ad ogni album fresco di stampa e pronto al consumo delle metal platee sparse per i cinque continenti (in realtà ormai sei, da quando i nobili calcagni di Hetfield, Hammet & soci hanno calcato le Shetland Australi). E tra i migliori candidati a ospitare un cotale avvertimento ci sarebbero sicuramente i lavori di una band apparsa a cavallo del cambio di millennio nei cieli della cosiddetta “seconda ondata” doom, in una costellazione relativamente appartata che, pur senza recidere il cordone ombelicale, aveva cominciato ad affrancarsi dalla lezione sabbathiana seguendo le traiettorie degli Sleep. La storia degli Yob, infatti, germoglia dallo stesso humus musicale in cui era fermentata la poetica degli Electric Wizard e il debutto Elaborations of Carbon sembrava prefigurare per il terzetto dell’Oregon approdi robustamente doom punteggiati da consistenti contributi stoner, a comporre un impasto magnificamente sintetizzato in quella tracklist dalle evoluzioni dell’interminabile Revolution. Eravamo nel 2002 e da quel momento, con cadenza annuale, i Nostri regaleranno quattro perle in consecutiva sequenza, a testimonianza di una straordinaria fase di tempesta creativa consolidata l’anno successivo da Catharsis e chiusa nel 2005 da The Unreal Never Lived.
In un simile quartetto, il ruolo di fratello relativamente scomodo tocca a questo The Illusion of Motion, album più che seriamente candidato a rappresentare il vertice della parabola di sperimentazione della band e, parallelamente, destinato ad alimentare qualche dubbio da spiazzamento tra i devoti cultori dell’ortodossia doom; aggiungiamo al tutto la già consolidata attitudine della band a disdegnare percorsi agevoli in materia di fruibilità e immediatezza e avremo subito l’impressione di trovarci in presenza di un lavoro destinato ad agevolare giudizi raramente collocati al centro dello spettro ma piuttosto coagulati ai due estremi, secondo la classica dicotomia amore/odio. Non che affrontare gli Yob sia mai una tranquilla scampagnata, con la prospettiva di godere di un innocuo accompagnamento mentre si è in tutt’altre faccende affaccendati, ma mai come stavolta il viaggio pretende un tasso di immersione e coinvolgimento assoluto, pena la perdita di contatto con la radice della proposta. Come sempre, in presenza di processi di ibridazione discretamente spinta, il problema non consiste tanto nella difficoltà di catalogazione in uno dei generi di cui riconosciamo confini e prospettive (quasi che metterci preventivamente comodi in poltrona sapendo quello che ci aspetta sia l’automatica premessa di un’estasi), quanto piuttosto la capacità di entrare in sintonia con le linee di forza che annodano le diverse componenti, pena lo scatenarsi di un fastidioso effetto-patchwork in cui, nella migliore delle ipotesi, i pregi delle singole parti oscurano la resa dell’insieme. Ecco allora che, su uno sfondo doom a cui tocca comunque il compito di dare il colore complessivo al platter, gli Yob disegnano traiettorie intrise di mille altri rivoli oscuri, dallo sludge al death, dallo stoner al post, ammantando il tutto di un’aura space che, lungi dal sanare i contrasti, finisce per sottolinearli ulteriormente disseminando il percorso di spigoli acuminati. Snodo cruciale delle difficoltà di assimilazione di The Illusion of Motion è ancora una volta il cantato di Mike Scheidt e, tornando alla metafora farmaceutica dell’inizio, è davvero il caso di testare preventivamente eventuali allergie a un timbro decisamente atipico, nel metal panorama; immaginiamo Ozzy e King Diamond imbarcati su un modulo LEM e spediti in orbita, immaginiamo una trasmissione degli intrecci delle loro ugole in modalità onde radio, immaginiamo il carico di polvere cosmica raccolta durante il tragitto e avremo un’idea ancora vaga dell’impatto di elementi così diafanamente space su strutture che la sezione ritmica Sato/Foster edifica su basi di imponenza e pesantezza. Non stupisce, allora, che dal contrasto tra due registri così diversi zampilli e in ultima istanza prenda il sopravvento un effetto psichedelico (anticipato peraltro anche visivamente da una cover che esalta la distorsione della realtà moltiplicando gli angoli prospettici), che si concede di rado scampoli di contemplazione privilegiando piuttosto le potenzialità sul fronte dello straniamento e dell’alienazione, secondo un processo che sfonda in diverse occasioni i bastioni post per affacciarsi addirittura direttamente sulla cittadella sludge. Ed è proprio qui che possiamo riscontrare gli scostamenti più significativi rispetto al predecessore Catharsis (beninteso, niente di sconvolgente o trascendentale, diciamo più che altro sottolineature diverse di sensibilità che restano affini), con un relativo arretramento delle aperture melodiche e una più contenuta concessione alle divagazioni blues, evidentemente meno funzionali all’edificazione di quei monoliti neri e massicci che compongono la tracklist. Ed eccole, le stazioni del viaggio, fissate su un’ideale tratta in perfetto stile Yob: poche, spoglie e soprattutto spettralmente dilatate in termini di minutaggio. Guai però a dare per scontato passeggeri e convogli che ci attendono sulle banchine, perché già la partenza con Ball of Molten Lead rischia di smontare eventuali attese figlie di una sommaria ansia da catalogazione doom. Il colore complessivo del brano, infatti, è squisitamente post (soprattutto alla luce di uno sguardo contemporaneo, agevolato dal fatto che la storia del movimento oggi può contare su canoni la cui definizione era ancora in divenire, in quel 2002), a cominciare da un’atmosfera claustrofobicamente satura di vapori malsani e dallo scintillare di lampi che illuminano sinistre figure sullo sfondo. E’ una tensione più che vagamente neurosisiana, quella che tormenta i cardini formalmente stoner del pezzo e, vista in una prospettiva biografica, abbiamo qui una plastica anticipazione di ciò che si concretizzerà con l’approdo alla corte Neurot Recordings di Steve von Till in occasione dell’ultimo Clearing the Path to Ascend. Il ripristino dell'ortodossia doom è affidato all'esasperazione della lentezza che va in scena in Exorcism of the Host, marchiata a fuoco da un impeccabile gioco di contrasti nel comparto vocale, tra il quasi-falsetto d'ordinanza, uno scream ovattato e accenni di growl che conferiscono alla traccia un'andatura vagamente cerimoniale, ma attenzione però perché non appena ci si dichiari vinti dall'assedio delle spire lisergicamente fumanti, parte un assolo di purissimo rock settantiano che, a dispetto della durata non trascendentale, diventa il centro di gravità dell'intera costruzione. Non contenti delle sorprese finora apprestate, gli Yob confezionano un'altra stravaganza con la successiva Doom #2, incaricandosi stavolta di smentire nei fatti ciò che il titolo dichiara, confinando il doom a un ruolo di contorno e squadernando una cavalcata tutta muscoli ed energia, che incanala le suggestioni space verso esiti addirittura core/sludge. Si tratta di un brano decisamente atipico anche per il minutaggio (almeno per gli standard del terzetto, sei minuti sono davvero lo spazio di un respiro), ma rimette subito le cose a posto la conclusiva e monumentale titletrack, monolite nerissimo che accerchia e soffoca l'ascoltatore con volute pachidermiche e un'attitudine drone che altera inesorabilmente le percezioni sensoriali. Ed è qui, sulla sottile linea di confine tra claustrofobia e agorafobia, che si consuma il vertice del platter, con gelidi momenti di immobilità che sfiorano cristallizzazioni funeral e improvvisi scatti che rianimano scompostamente corpi in balia degli effetti di un trip acido, mentre le note si combinano a dimostrare che le allucinazioni possono sgorgare anche oltre il recinto delle alterazioni chimicamente indotte.
La pesantezza della materia che incontra le astrazioni degli sterminati spazi cosmici, il coraggio di una proposta che non si rifugia mai nella comoda sintesi di cliché di successo, un frullato di generi ricomposti in una forma che li trascende tutti, The Illusion of Motion è un album che ripaga la difficoltà di approccio con una ricompensa con pochi uguali, una volta entrati in possesso dell'opportuna chiave di lettura. Stabilito il contatto con il mondo degli Yob, sarà praticamente impossibile evitarli, gli effetti annunciati dalle ultime due parole del foglietto illustrativo.
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5
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Gran bel disco dal suono molto particolare. Non ho molto di questa band, ma quel che ho è davvero fico. |
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4
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L'unico che possiedo di questa band è lo stupendo Clearing The Path To Ascend, questo è in lista d'attesa da mesi ma non l'ho ancora ascoltato: provvederò al più presto visto che sembra davvero una bomba! |
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3
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Grandissima band, probabilmente tra i miei preferiti in questo genere, sono molto personali e hanno delle atmosfere incredibili. |
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2
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Bellissimo questo, e con delle vocals davvero particolari. |
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1
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Mi piace molto questa band, davvero folle, davvero sludge. A volte forzano troppo risultando prolissi, visto che fanno brani lunghissimi, ma sono molto molto bravi. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Ball of Molten Lead 2. Exorcism of the Host 3. Doom #2 4. The Illusion of Motion
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Line Up
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Mike Scheidt (Voce, Chitarra) Isamu Sato (Basso) Travis Foster (Batteria)
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