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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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25/01/2020
( 1536 letture )
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There is a house in New Orleans They call the Rising Sun And it's been the ruin of many a poor boy And God, I know I'm one
C’è del marcio a New Orleans. Edificata sulla terra strappata alle paludi del Mississippi, resa celebre dall’ essere stata il luogo germinale del Jazz afroamericano, ferocemente attaccata dall’uragano Katrina nel 2005, la capitale della Louisiana esercita il fascino indiscusso del mito. La sua reputazione, tuttavia, è sempre stata ambigua. New Orleans è la “murder capital” e non solo, è citta in maniera estrema e sinistra; è città che inghiotte, che spinge alla perdizione: le sue luci non brillano con sufficiente intensità da coprire i sobborghi e le periferie, i vicoli affollati di prostitute, le notti perdute fra eccessi di alcol o eroina. E’ nelle sue strade che troviamo l’House of the Rising Sun, protagonista dell’omonimo brano, che trascina via le vite dei giovani fra peccato e miseria, monumento per eccellenza di una città a sua volta simbolo dello squallore urbano. Negli anni novanta dello scorso secolo lo stesso degrado cittadino nutre e accudisce la sua nuova creatura artistica, il neonato Sludge, e i suoi beneamati padrini, i Crowbar. Il quartetto sembra avere poco da spartire con House of the Rising Sun, una ballata vecchia secoli, eppure nel condividerne la provenienza si riconosce nello stesso spirito: quello di una New Orleans non vissuta infatti solo come luogo fisico, ma soprattutto nel suo essere città-mito di decadenza urbana. I Crowbar si fanno cantori proprio di questa decadenza: fin dagli esordi la band impregna i suoi testi di disagio metropolitano, di alienazione e dipendenze, il ritratto di un modo di soffrire specificatamente moderno.
L’album protagonista di questa recensione è la quarta prova sulla lunga distanza della band. Dopo un paio di demo sotto il monicker The Slugs l’esordio arriva nel 1991 con un ancora acerbo Obedience thru Suffering, mentre la consacrazione del nome Crowbar giunge due anni dopo, con il disco omonimo, prima grande prova di forza dei quattro. Se il lavoro successivo non fa gridare al miracolo ci pensa a questo Broken Glass a riaffermare la classe assoluta di Kirk Windstein a soci, maturando in maniera definitiva il sound e preparando il terreno per i capolavori di metà carriera sfornati negli anni immediatamente successivi. Durante la scrittura dell’album avviene uno dei cambi di line-up che più segnerà la musica e la carriera della band: dietro le pelli Numenmacher lascia il posto a Jimmy Bower, già negli Slugs e batterista dell’altra grande realtà sludge di New Orleans, gli Eyehategod. Il risultato è una sezione ritmica ancora più nevrotica e feroce, che passa con naturalezza da serrate sezioni in puro stile hardcore punk a tempi decisamente doom, giocando ottimamente su stacchi, improvvisi rallentamenti e ripartenze. Quest’abilità nella gestione di up e down tempos, già marchio di fabbrica di casa Crowbar, contribuisce a rendere Broken Glass il disco di passaggio nella discografia degli americani. Difatti, per quanto la fedeltà della band al proprio stile musicale sia quasi leggendaria, non vi è una precisa omogeneità fra i dischi precedenti e quelli successivi a Broken Glass. I cambiamenti sono, come c’è da aspettarsi, lievi e poco “traumatici”, assecondando quella che sembra essere la naturale evoluzione del sound Crowbar. Vengono concessi meno minuti alle sfuriate hardcore, mitigate da un crescente gusto melodico (attenzione, crescente sempre relativamente agli standard del genere e della band) e da lunghe marce al rallentatore, direttamente derivate dalla scuola doom americana. La voce di Windstein esplora territori più drammatici e arricchisce il proprio timbro e stile con una rinnovata espressività, coadiuvata dalla scelta di una produzione che si fa meno pastosa, mantenendo pesantezza e oppressione, ma guadagnando un sapore più definito e tagliente. Queste piccole differenze riguardano più la gestione della quantità degli ingredienti del miscuglio Crowbar che l’introduzione di nuove ricette musicali, tuttavia l’ascoltatore attento si troverà a riconoscere in esse il possibile motivo della preferenza tra i Crowbar dei primi dischi e quelli più recenti.
Nella sostanza tuttavia la proposta della band di New Orleans resta invariata: grandi protagonisti sono i riff del sempre ispiratissimo Windstein, che infila una serie di macigni ad altissimo impatto sonoro, con un solo obiettivo in testa: suonare il più pesante possibile. Il disco inizia sfoderando subito le sue armi migliori, grazie al duo iniziale formato da Conquering e Broken Glass. La prima è il pezzo più aggressivo e diretto del lotto, una mazzata in faccia che inizia con una sfuriata dai toni crust punk, per poi rallentare su ritmiche quadrate ma ancora serratissime prima di schiudersi su tempi doom e fraseggi più melodici. In chiusura una brusca, violenta accelerazione, per chiudere la struttura circolare: praticamente tutto il repertorio del Crowbar in due minuti e quarantotto secondi. La title-track si distingue per un procedere più omogeneo, quasi ossessivo, caratterizzato dallo splendido riff al rallentatore, che domina il brano sotto l’insegna dell’urlo morbosamente ripetuto di “broken glass”, la cosa più simile ad un ritornello che si possa trovare nell’album. Si prosegue in questo cammino d’angoscia su ritmi sempre più pachidermici, che monopolizzano la sezione centrale del disco, in una spirale discendente di rabbia e senso d’oppressione. Si riducono le virate punk, mentre sono le trame più ragionate e solenni a emergere, rafforzando il senso di epica suburbana che rappresenta l’anima concettuale dei Crowbar. Si distingue la quinta traccia, una Nothing More che suona come la desolazione più nera, una bestia nutrita dall’unione dell’usuale pesantezza della musica proposta e di melodie strazianti, sottolineata da brevi note di pianoforte ed interpretata magistralmente dall’ugola di Kirk Windstein. Dal dolore quasi materiale, reso solido e concreto, di questo pezzo, si passa a Burn Your World, i ritmi feroci e riff quadrati che la rendono uno sfogo, un inno di rabbia primordiale, ardente, quasi a cauterizzare le ferite del pezzo precedente. L’ultimo quarto d’ora di Broken Glass vede ancora una volta spiccare due tra i pezzi più epici e tormentati a sua disposizione, efficaci sia nelle melodie dannate che nella disperazione trasmessa dai testi. Si sta parlando della rocciosa I Am Forever, che ancora una volta si fa forza di ripetizioni liriche ossessive per trasmettere disagio, e di Reborn Thru Me, dall’incedere più cadenzato e che riprende i toni vocali tormentati della già citata Nothing More, anticipando l’opera più straziante del combo di New Orleans, il successivo Odd Fellows Rest.
Dei Crowbar si dice spesso che non hanno mai sbagliato un colpo, ma questo Broken Glass si distingue anche in una carriera come la loro, costellata da una lunga serie di dischi di splendida fattura. Se il titolo di opera magna della band è quasi indiscutibilmente conteso fra due enormi capolavori, Odd Fellows Rest e Sonic Excess in Its Purest Form, tuttavia l’album qui recensito si può facilmente posizionare nelle posizioni immediatamente successive di un’ipotetica classifica. Meno coeso e monolitico di altri loro lavori, ha però dalla sua la statura indiscutibile di alcuni pezzi da novanta, che stanno tuttora fra i vertici qualitativi della produzione della band, suonando ancora tanto nelle casse degli ascoltatori che nelle nottate sul palco. Il marcio tessuto metropolitano di New Orleans sforna i suoi figli maledetti con impressionante regolarità, una storia che passa attraverso La Casa del Sol Levante, il Jazz degli anni ’20 e approda nel terreno fangoso nello Sludge, trovando in Broken Glass una delle sue incarnazioni più nere.
Oh mother tell your children Not to do what I have done Spend your lives in sin and misery In the House of the Rising Sun
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3
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Ottimo album che anticipa i veri capolavori della band. Comunque anche qui qualità alta. voto 80 |
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2
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Ottimo. Ed il meglio verrà dopo. Il suono del dolore. |
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Buonissimo disco che fa da ponte ai due capolavori Odd Fellows Rest, Sonic Excess In Its Purest Form e all'ottimo, a mio avviso inspiegabilmente mai citato, Lifesblood for the Downtrodden (spero arrivi la recensione anche di questo). Della prima parte di carriera preferisco l'omonimo di tre anni prima, ma un 80 pieno se lo prende
anche Broken Glass |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Conquering 2. Like Broken Glass 3. (Can't) Turn Away from Dying 4. Wrath of Time Be Judgement 5. Nothing 6. Burn Your World 7. I Am Forever 8. Above, Below and In between 9. You Know (I'll Live Again) 10. Reborn thru Me
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Line Up
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Kirk Windstein (Voce, Chitarra) Matt Thomas (Chitarra) Todd Strange (Basso) Jimmy Bower (Batteria)
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