Non è sempre facile trovare un gruppo o addirittura un album che abbiano realmente dato vita a un genere musicale: di solito, il nascituro ha tanti padri diversi e probabilmente anche genealogie sparse. In effetti, per lo sludge le cose vanno esattamente in questa direzione: le sue ascendenze possono essere ritrovate nell’opera di band come Melvins e Black Flag e nel doom di Saint Vitus e The Obsessed, così come nel contestuale bacino di New Orleans, che ha dato vita alle prime formazioni propriamente identificabili con tale riferimento, ovverosia The Slugs, Buzzov-en, Soilent Green ed Eyehategod, per tacere di altre meno famose. In mezzo a questo calderone ribollente, in molti premono per avere il primato della pubblicazione ed esiste un disco che, tra gli altri, può sgomitare per essere almeno sul podio delle prime uscite: Obedience Thru Suffering dei Crowbar, nuovo monicker assunto dai The Slugs proprio in quel fatidico 1991. Certo, non va dimenticata la compilation New Orleans Scene: Allow No Downfall uscita sempre nel 1991 per la Frontline Records e non si può d’altra parte tacere che la prima stampa di In the Name of Suffering degli Eyehategod fosse del 1990, ma questo nulla toglie all’importanza del primo album dei Crowbar. E’ l’eterno amore/confronto tra il mondo del metal e quello dell’hardcore, che a inizio anni 80 aveva dato vita al thrash, alla fine dello stesso decennio al grunge e all’inizio del nuovo allo sludge, a seconda di quale componente andava a ibridarsi con la protesta sociale e politica e la furente e minimale espressione estrema del punk, a rappresentare un fecondo territorio di innovazione e nuova ispirazione. Certo nello sludge, così saldamente ancorato alle radici culturali primeve di New Orleans, non mancherà anche una ricorrente matrice southern rock ad allargare ulteriormente le maglie dell’ispirazione, ma è chiaro come le due componenti fondamentali siano il doom e l’hardcore, con le altre derive alternative, stoner e southern, appunto, senza dimenticare poi le ulteriori ibridazioni col post metal e l’industrial che creeranno ulteriori evoluzioni tra la fine del millennio e la prima decade del nuovo.
Torniamo quindi nella grande metropoli alla foce del Mississippi, al suo porto, alle sue acque paludose e stagnanti, al marciume dei pontili e del sartiame, al puzzo del fango e del grasso, del bitume e delle arrugginite officine e macchine agricole. Torniamo alla rabbia incontenibile del proletariato urbano, alla decadenza architettonica e morale, alla miseria, all’alienazione, alla solitudine, alla droga, all’emarginazione e, infine, al misticismo disperato e orgoglioso, tipico del doom. Rabbia e vuoto esistenziale, due componenti pericolosissime se abbinate e che trovano in Obedience Thru Suffering una via di sfogo e sublimazione. Senza salvezza, sia chiaro. Già il nome originario del gruppo, The Slugs, dice molto della musica prodotta, col suo richiamo alla terra, al fango e a creature mollicce e disgustose all’apparenza, quanto resilienti e inarrestabili nell’essenza, ma senz’altro il nuovo Crowbar, che in italiano corrisponde a quell’elegante e leggiadro strumento noto come “piede di porco”, esalta la componente urbana e industriale e assume fin da subito una minacciosità definitiva, grezza e minimale che illumina perfettamente la proposta. Un disco che inevitabilmente, rispetto a quanto seguirà, sembra ancora portare con sé una forte dipendenza dal doom originario, ma che mette già in mostra le caratteristiche fondamentali del nuovo genere, a partire dal suono sporco, fangoso e minaccioso, per passare dalla tipica voce strozzata di matrice hardcore e concludere con una pesantezza del riffing e delle tematiche affrontate, che toglie letteralmente il fiato. L’album, salvo qualche sporadica accelerazione che richiama appunto le radici hardcore, è infatti incentrato su tempi medi asfissianti, nei quali tanto il basso quanto la batteria sono sempre in primo piano, andando a saturare lo spettro sonoro con la ferocissima distorsione delle chitarre, impegnate a rendere in riff potenti, marci e annichilenti, una totale assenza di fughe e rifugi. Qua c’è solo minimalismo spietato e scientemente ricercato, al fine di ottundere e piagare l’ascoltatore, che deve rendere, attraverso la sofferenza ispirata sin dal titolo, ragione del proprio dolore e della propria misera esistenza. Basta scorrere i titoli del disco per capire come la panoramica sia vasta, ma tenda tutta verso un unico risultato: il dolore. Sia esso utilizzato come mezzo di potere, come forma di espiazione della colpa o come pena per una vita senza scopo e senza salvezza. Il tutto espresso in brani che non hanno particolari tentazioni melodiche o strutture ricercate, seppure siano evidenti i tentativi abbozzati che saranno poi ripresi e perfezionati nei dischi successivi, di creare canzoni vere e proprie. Con la giusta eccezione di alcune tracce in particolare, a partire proprio dall’opener Waiting in Silence, massima espressione melodica del disco, le dieci composizioni contenute in questo debutto sono altrettante punizioni inflitte all’ascoltatore, al netto di significative variazioni compositive e strutturali. In sostanza, i brani non hanno uno scopo individuale, ma funzionano benissimo come collettivo, ognuno offrendo all’incirca le stesse coordinate di base, reiterando piuttosto l’agonia, minuto dopo minuto. I Crowbar possono comunque vantare una qualità tecnica importante e non va quindi immaginato che la loro musica sia necessariamente povera o “facile” strumentalmente, con un gran lavoro della sezione ritmica e del futuro Black Label Society Craig Nunemacher alla batteria, mentre l’uso di due chitarre in tal senso si presta anche a qualche armonizzazione, come nel caso della parte conclusiva dell’inno I Despise, brano palesemente doom nella sua costruzione e perfino a qualche assolo posizionato qua e là, ma sono particolari che si scoprono solo sottoponendosi ad ascolti ripetuti, quando il primo impatto resta annichilente. Ciò non toglie ad esempio che un brano come A Breed Apart sia anche tecnicamente costruito e pregevole, non a caso divenendo il più lungo dell’album, con una feroce accelerazione finale che dura però troppo poco per portare reale sollievo, tanto più che ci consegna alla devastante titletrack, uno dei brani più pesanti mai concepiti, il cui testo può essere assurto a riassunto ed emblema di tutto il genere doom. Ma scorrendo la scaletta è difficile non arrendersi alla maestosa potenza dei Crowbar, trovando ulteriori esempi di grandezza, come in Vacuum, altra lezione di dolore assieme a Feeding Fear e alla conclusiva, impietosa, The Innocent.
Graziato fin dalla perfetta quanto disturbante copertina di un’aura che non ha mai perso il proprio fascino e la propria importanza, Obedience Thru Suffering è insomma un predestinato, uno dei dischi che a suo modo rappresenta un preciso momento nella storia del metal per i quali esiste un prima e un dopo. Questo non lo rende il miglior disco rilasciato dai Crowbar, che sapranno fare ben di meglio nelle loro successive evoluzioni e neanche migliore dei successivi album delle altre grandi band del genere, ma senz’altro lo rende un disco fondamentale e che è giusto rispolverare e riscoprire. Grezzo fin dalla produzione e ossessivo nel suo devastante minimalismo, l’album contiene tutti i germi che troveranno completa espressione negli anni successivi, tenendo saldamente il ruolo di capostipite. Non da sottovalutare, perché i Crowbar fin da subito dimostrano di essere dei fuoriclasse, Obedience Thru Suffering possiede poi il tipico fascino dei debutti, ovverosia quell’imperfezione formale, quella indeterminatezza ancora da sgrezzare e quella preziosa scintilla di identità in divenire che li rende spesso dischi unici e, per certi versi, insuperabili anche da album qualitativamente migliori. Dategli merito.
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