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Killswitch Engage - Alive or Just Breathing
20/02/2021
( 2375 letture )
Inizio millennio. Il nu metal, controverso sottogenere forgiato dai Korn nelle oscure fucine di Bakersfield, ha il pieno dominio delle classifiche mainstream americane, ormai completamente intasate da imberbi epigoni saliti sul carro dei vincitori a suon di chitarre ribassate, bassi funk slappati e rap. Una simile dittatura, in apparenza inscalfibile, comincia invece a mostrare le prime crepe già sul finire del 2001, quando l’attacco alle Torri Gemelle cambia irrimediabilmente la storia contemporanea. All’improvviso i giovani appassionati di musica, fino a poco tempo prima in delirio per le buffonate di Limp Bizkit e soci, crescono in fretta e reclamano un sound diverso che smetta di piangersi addosso per i traumi infantili o le paranoie adolescenziali; ora serve un qualcosa di più maturo e onesto, degli ascolti che possano fornire un’efficace valvola di sfogo alla rabbia e alle paure post 11 settembre e che al contempo recuperino una sana attitudine metal distante dalle logiche affaristiche del music business.

A raccogliere un simile fardello, spostando sulla East Coast quella che sarebbe di lì a poco divenuta la New Sensation, fu una piccola ma agguerrita scena del Massachussets occidentale formata da Shadows Fall, All That Remains, Unearth, Overcast e Aftershock. Tutte queste band, assieme ai Poison the Well dalla Florida, proponevano una brutale fusione di metallic hardcore anni ’90, thrash e melodic death metal di scuola svedese, la cui influenza è ravvisabile sia nei riff di chitarra sia nell’alternanza tra harsh vocals e cantato pulito.
Questo nuovo stile rimase nell’underground locale per tutta la seconda metà dei ’90 finché, dalle ceneri degli Aftershock e degli Overcast, nacque una band destinata a prendersi il ruolo di leader della NWOAHM diventando l’indiscusso faro di quello che verrà chiamato melodic metalcore.
Stiamo ovviamente parlando dei Killswitch Engage, il gruppo che incarna al massimo il mondo del -core degli anni duemila, con tutti i suoi pregi e difetti. Gli autentici maestri ripetutamente copiati da un numero non quantificabile di imitatori che hanno finito per ridurre la lezione originaria ad uno stereotipo banale e finto, dato poi in pasto alle frotte di teenager della scena phase/emo.
Oggi per fortuna non ci occuperemo di questa deriva ma andremo ad esplorare l’alba di questo movimento analizzando il disco da cui tutto è iniziato, la pietra miliare di un sottogenere che, nonostante le infinite critiche, ha occupato un posto importante nella storia del metal degli ultimi vent’anni.
Il combo di Westfield, dopo un esordio selvaggio, nel 2002 pubblicò una perla di rara bellezza che risponde al nome di Alive or Just Breathing: in ognuna delle dodici tracce scorrono compenetrandosi alla perfezione il passato (la furia primigenia dell’hardcore), il presente (l’innesto di ritmiche thrash e soprattutto swedish metal) e quello che sarà l’imperativo futuro del sottogenere, ovvero la contemporanea presenza di abrasivi scream e growl cavernosi da un lato e melodie dolci o strazianti dal tipico gusto emozionale dall’altro.
I KSE riprendono stilemi già in uso riuscendo però a creare un amalgama sonoro all’epoca innovativo e spiazzante, un mix eccezionale in cui le influenze si sentono (l’HC metallizzato dei padrini Aftershock e Overcast e la scuola di Göteborg nelle aule degli In Flames periodo The Jester Race/Whoracle), ma vengono rielaborate e personalizzate in un lavoro che ancora oggi suona fresco, viscerale e tremendamente sincero.
Su tale impianto strumentale, dove brutalità e tecnica si fondono con uno spiccato retrogusto melodico, è libero di esprimersi al meglio delle sue possibilità Jesse Leach, un uomo, prima ancora di un vocalist, che ha qui riversato tutto sé stesso: ansie, dubbi, fragilità, voglia di rivalsa, speranze e un messaggio universale di fratellanza e amore cristiano, in sintesi, la sua intera vita.
È per questi motivi che Alive or Just Breathing è un disco che lascia senza fiato e avvince in ogni suo passaggio sin dalle iniziali Numbered Days, Self Revolution e Fixation on the Darkness, tracce tanto devastanti quanto soavi grazie ai refrain pregni di melodie uscite direttamente dal cuore del frontman. Il livello qualitativo, già alto, si impenna poi in pezzi che hanno fatto la storia del genere come My Last Serenade, in sostanza il perfetto manuale di come si suona il melodic metalcore che verrà letto e sfruttato da qualsiasi band formatasi dal 2003/2004 in poi.
Da brividi ancora adesso, a distanza di vent’anni, risultano la catartica Life to Lifeless (un’intensa riflessione sull’11 settembre che arriva a coinvolgere il senso della vita) e la quasi title-track Just Barely Breathing, per il sottoscritto la punta di diamante del platter in virtù della sua aggressività hardcore, la sua epicità metal e le emozionanti clean vocals in progressivo fade-out del finale che colpiscono nel profondo.
L’attitudine in your face riaffiora prepotentemente nella breve ma incalzante To the Sons of Man e nell’accoppiata Temple from the Within/Vide Infra, ri-registrate dal debutto omonimo, dove la fierezza senza compromessi dell’HC si stringe alla pesantezza del metal regalando due cannonate infarcite di urla ruvidissime e breakdown marziali.
Dopo lo struggente metalcore a tinte cristiane di The Element of One (ferma promessa di militanza nella fede e convinzione di una possibile vita eterna ultraterrena) e la melodica strumentale Without a Name (altro retaggio preso dal death svedese) arriva Rise Inside, l’anthem finale che proclama la necessità di liberarsi dall’odio e l’importanza di stare uniti nel rispetto reciproco per superare le avversità della vita.

In conclusione, Alive or Just Breathing è un disco segnante, ispirato e profondamente genuino nel suo connubio di aggressività e dolcezza: la band arriverà al successo commerciale solo col successivo The End of Heartache e l’arrivo di Howard Jones, ma a mio modesto parere è questo il vero apice dei Killswitch Engage, in quanto le radici hardcore sono ancora ben presenti e la componente melodica, pur caratterizzante la maggior parte dei brani, si distingue per una spontaneità innata.
Sia che siate fan del metalcore o tra i suoi più feroci detrattori, non potete fare lo sbaglio di tralasciare questo album: volenti o nolenti, è entrato di diritto nella storia del metal del nuovo millennio e si sa, i capolavori vanno ascoltati almeno una volta nella vita



VOTO RECENSORE
90
VOTO LETTORI
84.2 su 10 voti [ VOTA]
Howard
Mercoledì 26 Febbraio 2025, 21.50.17
9
Uno dei migliori album degli anni 2000
enrico86
Domenica 25 Giugno 2023, 16.46.48
8
Album che ha fatto scuola. Ispirazione ai massimi livelli per loro e leech clamoroso
Earthformer
Venerdì 14 Maggio 2021, 22.15.04
7
concordo con il voto, superato solo da the end of heartache per me
LUCIO 77
Martedì 23 Febbraio 2021, 7.08.57
6
Ciao, sì sono Vivo e non solo ansimante! Chiaro, il mio parere è "limitato" dal fatto che il Primo loro Album ascoltato è quello che Ti ho citato e poi negli ultimi mesi ho sentito gli altri.. Un fan del Gruppo della "prima ora", credo abbia chiara la differenza a livello di Spontaneità fra i due Cantanti.. The Black lo avevo ascoltato a dicembre ma appena ho un attimo di tempo, sicuramente lo risento.. Grazie come sempre per la disponibilità e Buona settimana!
Indigo
Lunedì 22 Febbraio 2021, 20.53.38
5
@Lucio77, ehi chi si rivede! Era un bel po' che non ci trovavamo sotto qualche recensione Allora, Howard Jones è tecnicamente più bravo sia nel pulito che nelle harsh ma, come dice @Francesco, anche a me sa un po' di "impostato". Io preferisco Jesse Leach perché soprattutto nei primi due album ha davvero messo cuore e anima in ogni singola nota cantata, c'è una sincerità brutale che ti colpisce nel profondo e non può lasciare indifferenti. The End of Heartache e As Daylight Dies sono due lavori eccellenti ma non quanto Alive or Just Breathing, disco meno "studiato" dei successivi. Velocissimo OT: @Lucio, sempre in tema metalcore, visto che avevi commentato l'esordio degli Asking Alexandria, se ti interessa ora in database puoi trovare anche la recensione di The Black mentre quella di As Daylight Dies chiaramente vedremo di recuperarla nei futuri rispolverati
Vittorio
Lunedì 22 Febbraio 2021, 11.21.11
4
Per me, il miglior album metalcore mai uscito.
LUCIO 77
Domenica 21 Febbraio 2021, 21.31.04
3
Ciao Indigo tutto bene? Veramente bello quest'Album.. Paradossalmente se finivano qui la Carriera, avevano già detto tutto.. A Me Lavori come questo piacciono un casino.. Con il successivo Cantante trovo As daylight dies il più riuscito.. Sempre in bilico fra Potenza e melodia.. IL Growl disperato che non delude mai.. Se lo hai ascoltato, Tu che ne pensi? Grazie..
duke
Sabato 20 Febbraio 2021, 17.52.50
2
...disco di notevole spessore....potente e melodico....
Francesco
Sabato 20 Febbraio 2021, 15.39.11
1
Album incredibile, d'accordissimo con il recensore. Personalmente ho sempre preferito Jesse Leach ad HJ, l'ho sempre trovato più verace, sincero.
INFORMAZIONI
2002
Roadrunner Records
Metal Core
Tracklist
1. Numbered Days
2. Self Revolution
3. Fixation on the Darkness
4. My Last Serenade
5. Life to Lifeless
6. Just Barely Breathing
7. To the Sons of Man
8. Temple from the Within
9. The Element of One
10. Vide Infra
11. Without a Name
12. Rise Inside
Line Up
Jesse Leach (Voce)
Joel Stroetzel (Chitarra)
Mike D’Antonio (Basso)
Adam Dutkiewicz (Batteria, Chitarra, Voce)

Musicisti ospiti
Philip Labonte (Cori su tracce 2, 7)
Becka Dutkiewicz (Cori su traccia 4)
Tom Gomes (Percussioni)
 
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