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Van Der Graaf Generator - The Aerosol Grey Machine
29/05/2021
( 1621 letture )
Nel pieno dell’evoluzione del progressive rock, in quella fine degli anni ’60 che vedrà l’insorgenza non solo di gruppi fondamentali nel genere e nella storia della musica “leggera”, ma anche di band fondanti dei decenni successivi di ogni genere immaginabile, veniva alla luce un quartetto atipico. Scaruffi li definiva più tetri e cupi dei loro contemporanei, meno classicheggianti di Nice e Yes, meno medievaleggianti dei King Crimson o dei Genesis; i Van Der Graaf Generator nel 1969 debuttavano con una perla, “The Aerosol Grey Machine”.
Seppur è stato proprio Scaruffi a definirlo “naïve”, penso invero che qui si abbia tra le mani un disco sì giocoso, ma non per questo immaturo. Di fatto, considero un debutto del genere più che consapevole –parlando a livello compositivo-, insomma un platter che, nonostante non si possa considerare avanzato come alcune produzioni successive della band, potrebbe essere considerato al massimo “preannunciante”, ma su questo si potrebbe aprire una parentesi infinita che è meglio chiudere qui. Passando però all’analisi di quei brani che furono, non tenendo in considerazione le edizioni successive e le bonus track: cosa proponeva, e cosa propone agli ascoltatori del nuovo millennio che si approcciano per la prima volta, questo The Aerosol Grey Machine?

L’apertura è affidata a una ballad, piuttosto standard per l’epoca a dire il vero. Difatti, è la variazione di piano ad essere un primo punto di sgomento, estremamente funzionante e che trova uno sviluppo orizzontale. Il piccolo climax finale con l’eccellente organo di Hugh Banton è un antipasto di ciò che verrà proposto lungo il disco, chiudendo un primo pezzo che non fa gridare al miracolo ma che è innegabile abbia un proprio fascino, soprattutto per i fan di lunga data -forse meno per i novizi. Ma è Orthenthian St a distruggere in pochi istanti queste premesse, imbastendo una breve suite, divisa in due parti, che riuscirà a conquistare chiunque. Una chitarra acustica di scuola beatlesiana si evolve in climi sostenuti di basso elettrico distorto di Ellis, senza timore di smentita il degno sostituto di una ipotetica chitarra elettrica. Il riff principale del brano diventerà un leitmotiv a dir poco geniale: il basso monocorde mutato ripete due cinquine e una terzina, le pelli si evolvono in un giro di rullante, tom, timpano e piatto visionario di solo 7 colpi. Si uniranno nella seconda sezione anche le tastiere, in un continuo movimento asincrono in cui la parte strumentale diventa una danza poliritmica sostenuta melodicamente dal cantato. L’evoluzione è verso un up-tempo sempre più intenso, sempre più da cardiopalma. Altre parole risulterebbero inutili, Orthenthian St è probabilmente la composizione migliore del lotto.
Running Back riapre con pacatezza il discorso, con un’energia dunque ben diversa e più lieve rispetto ai contemporanei Crimson o successivi Rush. Qui si serve l’atmosfera, attraverso passaggi naturalistici di flauto a carico di Jeff Peach, il quale intona paesaggi silvani in evoluzione verso una resa più “corpulenta”. In questo debutto, quindi, si evitava un vero e proprio protagonismo delle influenze prog rock a favore invece di sonorità sperimentali in senso stretto; in breve, i Van Der Graaf Generator provavano qui a emanciparsi da quel prog dalla forte impronta che imperversava intorno a loro, evitando di finire in recinti che di sperimentale avevano tutto e niente attraverso la loro ripetizione stereotipica. Qui era allora la grandezza intenzionale della band, non si parla di un songwriting facente parte di sfere dell’ineffabile, ma sicuramente la freschezza si sente a più riprese.
Into a Game si dipana poi in note alienate, a partire dalla produzione ottima in ambito vocale. Essa si confonde però in virtuosismi improvvisi, brevi frasi che cedono spesso il passo a variazioni sincopate. Parlando di songwriting nudo e crudo, questo è sicuramente uno dei brani più divertenti. Il crescendo alla batteria, picchi di Hammill al microfono con note tenute con classe ed esplosioni imbizzarrite sul chiudere, sono altra effige di un gran gusto compositivo capace di farsi apprezzare anche oggi senza troppe riserve. Ed è proprio la sezione in chiusura, capace di unire il rock, il jazz di pianoforte, la melodia più pop e le note lisergiche, a corroborare ciò. Le influenze jazz e blues continuano nella giocosità della title track -di cui vi è purtroppo poco da dire in confronto ai pezzi analizzati sino ad ora-, e nelle ripetizioni ipnotiche strumentali di Black Smoke Yen, un intermezzo dalle note nipponiche che si somma alla traccia omonima all’album summenzionata che anch’essa funge da intermezzo dato il suo minutaggio e impalcatura.
Acquarian sfocia nel funky e in ritornelli più pop. L’evoluzione rivela un pathos liturgico, creando dei climi idiosincratici tra il passato e presente. Confezionato con una struttura più classica del rock, risulta un brano più che discreto. La conclusione però, è affidata a due brani nuovamente intensi come quelli facenti parte del primo corpus, Octopus e Necromancer. La prima attraverso il solito basso mutato e slide sull’organo, le linee vocali stridenti e il groove immediato. Sulla falsariga caotica della precedente canzone -una continuità tematica- si continua in un viaggio che finisce per essere onirico e introspettivo. La schiettezza tipica del sound dei Van Der Graaf però torna subito in un dionisiaco privo di schemi neoclassici ma con un esplicativo disordine. L’ultima Necromancer invece ha influenze elettroniche, con un rullante militare inaspettato. La psichedelia fa da padrona nelle note del ritornello, la struttura portante è però solida e prevedibile, inficiando sulla qualità totale del brano che perde del brio. Il finale, le ultime note, sono però eccellenti e rendono l’idea di cosa si è ascoltato sino ad ora, nel male ma soprattutto nel bene.

In conclusione, questo debutto non è il capolavoro con la c maiuscola, non è privo di influenze più o meno chiare lungo la sua esposizione, né è un disco capace di brillare in ogni sua parte a livello emotivo o di composizione prettamente tecnica, eppure risulta un lavoro che sfida la vecchiaia. Seppur siano passati ormai più di 50 lunghissimi anni, il progressive imbastito dalla band inglese è a metà tra la nicchia dei più esigenti -e quindi delle orecchie pignole e avide- e la community più inesperta e “caciarona”. Se tutti i dischi, e in particolare i debutti, riuscissero a superare la prova del tempo come questo The Aerosol Grey Machine, la musica non darebbe tempo agli uomini di poterla ascoltare a dovere in un’intera vita.



VOTO RECENSORE
85
VOTO LETTORI
82.75 su 4 voti [ VOTA]
rocklife
Giovedì 3 Giugno 2021, 17.30.14
2
siamo nel 1969 e dico tutto..una musica che si ascolta dopo piu' di 50 anni..vogliamo parlare della voce di hammill..un grande,, ho vari lp e li ascolto sempre...visti anche dal vivo a roma...
Le Marquis de Fremont
Lunedì 31 Maggio 2021, 13.55.18
1
Un disco che per ragioni che mi sfuggono (distribuzione? numero copie?) ho ascoltato "dopo" aver letteralmente consumato The Least We Can Do..., HtoHe... e Pawn Hearts. Ma mi era piaciuto, anche se condivido la sensazione di naïve citata nella recensione. Una sensazione che non poteva non esserci, provenendo dall'ascolto dei successivi. Comunque un album di notevole livello. Afterwards e Orthenthians St sono rimaste, all'epoca, molto a lungo nelle mie collection su compact cassette (che tempi!!!). Sempre complimenti a Metallized per queste imperdibili recensioni. Jusqu'à la prochaine fois.
INFORMAZIONI
1969
Mercury Records
Prog Rock
Tracklist
1. Afterwards
2. Orthenthian St (Part I & II)
3. Running Back
4. Into a Game
5. Aerosol Grey Machine
6. Black Smoke Yen
7. Aquarian
8. Necromancer
9. Octopus
Line Up
Peter Hammill (Voce, Chitarra)
Hugh Banton (Piano, Tastiere, Organo e Cori)
Keith Ellis (Basso)
Guy Evans (Batteria e Percussioni)

Musicisti ospiti
Jeff Peach (Flauto nella traccia 4)
 
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