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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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04/10/2021
( 1441 letture )
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C’erano una volta i Candlebox, band di Seattle nata nel bel mezzo dell’ondata grunge e che si fece notare proprio mentre quell’epoca stava vivendo il suo momento d’oro. Forti di un buon successo con il disco d’esordio nel 1993 gli americani continuarono la propria carriera su un binario leggermente più morbido e compassato, ma sempre foriero di risultati più che discreti, culminati nell’ancora godibilissimo (e per certi versi addirittura migliore) Lucy, pubblicato due anni più tardi. La band però si è sempre mossa alle spalle dei big del grunge, faticando a ritagliarsi lo spazio che si sarebbe in parte meritata e soffrendo la sempre maggior indifferenza da parte della critica, che contribuì a far deragliare i piani del frontman Kevin Martin, indaffarato a mantenere in piedi il proprio gruppo con rimpiazzi precari fino allo scioglimento definitivo nel 2000, dopo un terzo album – Happy Pills, uscito nel ’98 – piuttosto incolore. Servirono sei anni per convincere Martin a riportare in vita la propria creatura musicale, grazie anche ad operazioni celebrative da parte di diverse etichette e a un ritrovato interesse nei primi due dischi della band. Da quel momento in poi i riuniti Candlebox – con una line-up ormai completamente stravolta – hanno pubblicato tre album di mestiere, tra cui spicca Love Stories & Other Musings del 2012, che vede alla chitarra e alla batteria i membri fondatori Peter Klett e Scott Mercado. In ogni caso di tre album pubblicati grazie alla reunion non ve n’è uno che presenta gli stessi musicisti e la situazione si ripete per il nuovo disco Wolves, pubblicato il 17 settembre di quest’anno.
Si può subito dire che di quella band fautrice di un post grunge fresco e pieno di entusiasmo che strizzava spesso e volentieri l’occhio all’alternative rock è rimasto ben poco ed oggi Kevin Martin è accompagnato da bravi musicisti che non hanno però alcun interesse nel riprendere quelle sonorità. La coordinate stilistiche degli attuali Candlebox vertono invece su un innocuo pop rock con aspirazioni da classifica, che riesce a strappare un ascolto solamente per via dell’immutato carisma del cantante, capace di rubare la scena in ogni brano della scaletta. Talvolta si tenta di spolverare il vecchio arsenale alternative, mentre più spesso la band si assesta su stereotipi rock che puzzano di vecchio già dalla prima nota. E dire che comunque il riff munito di octaver del singolo iniziale All Down Hill From Here riesce nel suo intento e fa sì che la band riesca a costruire intorno ad esso un brano tanto prevedibile quanto comunque funzionale, sebbene stenti ad emergere la personalità dei musicisti, qui persi tra pulsioni moderne à la Muse e ricordi sbiaditi degli Stone Temple Pilots. Impossibile comunque resistere al timbro graffiante di Martin, unico barlume di unicità nel bel mezzo di quattro minuti e mezzo di piattezza. Una delle costanti di Wolves è la presenza di co-autori esterni che hanno contribuito alla scrittura di molti tra i brani contenuti nel disco: in All Down Hill From Here ad esempio c’è lo zampino di Christopher Thorne dei Blind Melon, così come nella successiva Let Me Down Easy figura Peter Cornell, fratello del compianto Chris. Secondo Martin l’ispirazione per questo pezzo è nata ascoltando i Black Rebel Motorcycle Club, ma il risultato è ben lontano anche solo da una gradevole emulazione: il frontman ci mette tutto se stesso per salvare il brano dalla mediocrità, ma anche in questo caso il risultato è tutto meno che entusiasmante. Chi ha amato il gruppo nei primi anni ’90 poi potrà provare ribrezzo di fronte alla ballata pianistica Riptide, la quale però risulta decisamente più credibile nelle sue delicatezza pop rispetto ai due brani appena ascoltati e mostra un gruppo totalmente diverso dal passato, ma perlomeno convinto nel voler scrivere un potenziale singolo radiofonico in perfetto american-style. Peccato solo per quei “na na na” che puntellano i ritornelli, alla lunga eccessivamente stucchevoli. Di fronte ad episodi simili il lupo ritratto in copertina si trasforma in un agnellino o piuttosto in un cane impaurito e questo no, non è un complimento. Seguendo le evoluzioni della scaletta, che si rivelano essere davvero poche, si attraversano lidi acoustic-rock che ricordano a tratti i R.E.M. meno ispirati o addirittura certi exploit del Danny Worsnop solista – vedi in particolare il singolo My Weakness – così come momenti che sfruttano suoni più moderni come We, ma che non riescono a convincere del tutto per via di un songwriting davvero poco vario. Ciò che risalta in maniera palese è la volontà della band di provare a scrivere un disco adatto al pubblico medio americano, in bilico tra mainstream rock e un certo flavour ormai forzatamente alternativo, andando di fatto a posizionarsi in un limbo poco chiaro e per questo sconveniente, oltre che disorientante. Qualche guizzo più interessante riesce ad emergere, ma si rivela purtroppo come un flebile fuoco di paglia: il riff di Nothing Left To Lose inaugura un brano ben ritmato e sulla falsa riga dei Velvet Revolver, che sul finale si fregia anche di un bell’assolo di chitarra, ma ecco che la struttura si mostra ancora una volta prevedibile e scontata e va a rovinare quel poco di buono che il pezzo ha da offrire. Sfido poi chiunque a non notare l’influenza smielata del Bryan Adams di Summer Of ’69 nella comunque sufficiente Lost Angeline, tutta innervata su pulsioni al limite del southern rock. Bisogna attendere gli ultimi due brani per ascoltare finalmente qualcosa di realmente interessante e diverso dal materiale proposto finora: dopo la springsteeniana Trip infatti arriva il pezzo più cattivo del disco, quella Don’t Count Me Out dal titolo programmatico che si regge su una struttura galoppante stavolta estremamente southern e che finalmente mostra i denti delle chitarre unitamente al ringhio feroce di un Kevin Martin felicemente in parte. Certo, non siamo di fronte a qualcosa per cui valga la pena strapparsi i capelli, però il brano si ascolta e si riascolta più che volentieri. Lo stesso si può dire di Criminals, che conclude un album piuttosto noioso con una scarica di adrenalina tardiva, ma comunque apprezzabile. La sezione centrale/finale che lascia libero spazio agli strumenti è godibile e ricorda a tratti gli esperimenti più cerebrali di Lucy, ma soprattutto ci mostra una serie di musicisti che finalmente dimostrano di avere qualcosa da dire. Senza dubbio se questi due brani fossero stati distribuiti meglio in scaletta avrebbero contribuito a risollevare la sorte di un album che, così composto, non riesce a strappare un giudizio positivo.
Può essere difficile essere un artista che ha avuto un grande successo e che ha ancora grandi fan, ma che non è più riuscito ad ottenere quello stesso successo. Molti dei nostri amici in diverse band ora sono in quella posizione. È una storia con cui penso che molte persone possano relazionarsi, non solo i musicisti. Come il pugile che è allo stremo, ma ha ancora un'opportunità.
Così dichiarava Kevin Martin qualche mese fa in occasione della pubblicazione del singolo All Down Hill From Here, immedesimandosi probabilmente in quel pugile alla ricerca di un’opportunità. Sicuramente il successo degli anni ’90 rimarrà sempre e solo un dolce ricordo per i Candlebox, ma la band potrebbe essere ancora in grado di produrre musica valida ed onesta per onorare il proprio nome e la propria causa. Purtroppo dischi come questo Wolves, al contrario, rischiano di gettare cattiva luce su una carriera sfortunata, ma dignitosa, che non merita di essere svalutata in questa maniera. Le potenzialità sono sempre presenti e Martin rimane un frontman eccezionale, ma la speranza è che Wolves sia solamente un passo falso e non l’inizio di un declino all’insegna di un’opportunità sempre più distante dagli originali intenti del gruppo.
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4
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.....57 ??!....Màh !.... |
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3
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Non mi piacciono le etichette, le utilizzo anch'io per avere punti di riferimento ma quando ascolto un album lo prendo per quello che è non per quello che dovrebbe essere dopo aver letto il nome in copertina, questo lavoro è assolutamente tutto quello che la recensione ben spiega ma al contrario del recensore io lo trovo un piacevolissimo album di rock classico: ben suonato, ben cantato e ben prodotto, verso il finale poi arrivano anche un paio di episodi piuttosto grintosi, per me questo è un lavoro da valorizzare e lo prenderò appena possibile, fa piacere comunque vedere che i pochi voti sono positivi |
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2
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Leggo citati i B.R.M.C.... ma qualche recensione loro nella sezione low gain non si potrebbe inserire? ormai mi sembrano una realtà del rock abbastanza solida e conosciuta per non essere presa in considerazione anche qui... |
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1
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Ho ascoltato al volo questo album e non mi è piaciuto. Mi è sembrato piuttosto sbiadito, al contrario del penultimo che era molto piacevole. Non posso esprimere un giudizio ma non mi sembra un lavoro riuscito, però voglio dire una cosa, i primi tre lavori dei Candlebox sono bellissimi, non concordo sulla definizione di incolore per Happy Pills, che resta un signor disco come i due precedenti. Questo qui comunque lo ascolterò meglio. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. All Down Hill From Here 2. Let Me Down Easy 3. Riptide 4. Sunshine 5. My Weakness 6. We 7. Nothing Left To Lose 8. Lost Angeline 9. Trip 10. Don't Count Me Out 11. Criminals
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Line Up
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Kevin Martin (Voce) Brian Queen (Chitarra) Island Styles (Chitarra) Adam Kury (Basso, Cori) Robin Diaz (Batteria)
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RECENSIONI |
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