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Zeal & Ardor - Zeal & Ardor
19/02/2022
( 2822 letture )
Ormai attivi da otto anni, gli Zeal & Ardor sono una delle realtà più interessanti sbocciate nella scena metal e alternativa da tanto tempo a questa parte: nato quasi per scommessa per mano del fondatore ed unico membro Manuel Gagneux, il progetto è stato avviato in sordina con un primo lavoro omonimo ormai introvabile che lasciava presagire le sonorità future, maggiormente messe a fuoco con il primo vero disco del 2017 Devil is Fine. Poco più di venticinque minuti in cui il musicista svizzero-statunitense tenta di dare una propria versione sonora della musica tradizionale afroamericana ibridandola con il black metal; un azzardo decisamente fuori dagli schemi, ma che dona i suoi frutti, offrendo al pubblico più smaliziato un crossover impensabile tra canti e strutture tipiche degli spiritual e gelide rasoiate elettriche, alle quali si aggiunge anche un substrato elettronico relegato a qualche piacevole interludio. Il disco in poco tempo riesce a farsi notare e Gagneux cerca di costruire una band vera e propria per potersi esibire dal vivo, raccogliendo un discreto successo. Per far sì poi che il progetto non venga considerato un semplice divertissement (arricchito da pubblicazioni sporadiche e sempre più sperimentali su piattaforme come Soundcloud e Bandcamp) il musicista si dedica ben presto al secondo album in studio, che concretizza le idee mostrate in Devil is Fine: Stranger Fruit è il titolo del disco, che continua nel solco di un black metal più compatto ed omogeneo sempre atto a coniugare lo spiritual con tematiche sataniste ed esoteriche; sparisce quasi completamente la componente elettronica e la musica si fa più lineare a conseguentemente prevedibile, con il risultato di far assimilare gli Zeal & Ardor ad una band black metal tout court. Peccato, perché è proprio l’imprevedibilità del progetto la carta vincente di Gagneux e in questo lavoro essa è messa in secondo piano.

Arriviamo dunque al presente, con il periodo pandemico che mette in pausa il gruppo, ma dà modo al suo fondatore di ragionare più a fondo sulla direzione da intraprendere con il disco successivo. La causa “Black Lives Matter” in particolare viene sentita molto profondamente dal musicista, che pubblica un Ep bellicoso e senza fronzoli intitolato Wake of a Nation nell’ottobre del 2020. La copertina con i manganelli che formano una croce rovesciata crea una simbologia potentissima e spiccatamente politica, che non passa per niente inosservata. Sebbene musicalmente l’Ep rimanga piacevole, ma non entusiasmante, si fa notare con forza la mano di Will Putney in fase di produzione – Stranger Fruit è stato mixato da Kurt Ballou e si sente bene la differenza – e questo aspetto rimane fondamentale anche nell’ultimo disco pubblicato da Gagneux, il nuovissimo Zeal & Ardor, pubblicato lo scorso 11 febbraio. Per la seconda volta viene scelto un titolo omonimo, come a sancire una rinascita che lo stesso musicista definisce sia musicale che spirituale. Liricamente invece il disco prosegue il racconto ideale inaugurato nel primo album, ovvero una visione di cosa sarebbe successo se gli schiavi americani si fossero rivolti a Satana invece che a Dio per chiedere la propria salvezza. Infine, musicalmente parlando, ci troviamo di fronte al lavoro più inclassificabile mai partorito da Gagneux, il quale compone liberamente lasciandosi ispirare tanto dal black quanto dal death metal, ma inserendo numerosi spunti metalcore, nu metal, shoegaze, hip-hop, western e industrial. Un caleidoscopio sonoro stimolante e a tratti impensabile, ma che nelle mani del musicista svizzero-americano acquista una credibilità unica. Mai come in questo caso sembra che il faro che detta la via sia quello luminosissimo dello sperimentatore per eccellenza, ovvero Mike Patton – e lo stesso Gagneux sembra confermarlo – ma gli Zeal & Ardor di oggi sono un gruppo con una personalità finalmente ben definita e che si erge con forza lungo i quarantatré minuti del disco e le quattordici canzoni che lo compongono. Aggiungiamo poi che Zeal & Ardor è senza dubbio l’album meglio prodotto della band e il gioco è fatto.

L’opera segue una struttura lineare e consecutiva, con una narrazione ben percepibile costruita attraverso una scaletta oculata: l’introduzione è di quelle che lasciano il segno, con una breve sequenza affidata ai sintetizzatori e alle percussioni elettroniche che richiamano immediatamente alla mente gli exploit più oscuri di Trent Reznor; su questa base Gagneux – autore ed esecutore di tutte le voci e gli strumenti presenti sul disco, escluse le parti di batteria curate dal fido Marco Von Allmen – si prodiga in un’alternanza di stili vocali che vanno dal rap allo scream, inasprendo sempre di più i toni fino a sfociare nel primo singolo Run: la differenza rispetto a quello che la band ha proposto in questi anni è notevole e, anche se la voce rimane ancorata a stilemi riconducibili al black metal, la musica spazia dal math rock al metal più moderno, aggredendo l’ascoltatore con una ferocia resa perfettamente vivida dalla mano di Will Putney. Più si prosegue lungo la scaletta più il sound si fa raffinato ed ecco quindi affacciarsi lo spettro degli Algiers nell’introduzione electro-soul di Death to the Holy, il primo pezzo notevole del disco: la voce calda di Gagneux è l’arma vincente del brano e la capacità di variare da un timbro tenorile ad uno baritonale crea un bel gioco di contrasti, alimentato dalla musica che cresce in tensione fino a stemperarsi in un breakdown tipicamente metalcore. I synth continuano a puntellare i vuoti lasciati dalle chitarre e di colpo tutto si spegne per lasciare spazio all’elettronica soffusa e ariosa di Emersion, in pratica un brano blackgaze che guarda senza troppe remore ai Violet Cold, imitandone spudoratamente lo spirito iconoclasta nella fusione tra black metal straziante e parentesi electro-pop. Non si tratta però di un semplice esercizio di stile poiché nella seconda parte il brano si apre verso sonorità più smaccatamente shoegaze, rese sempre dure ed affilate dalla produzione perfetta di Putney. Il ritmo rallenta vertiginosamente in corrispondenza della stupenda Golden Liar, ballata western dove forte è l’influenza di Ennio Morricone (i fischi e la chitarra arpeggiata parlano chiaro) e nella quale Gagneux dà sfogo a tutto il suo afflato soul e blues sfoderando una prova vocale non virtuosa, ma dannatamente riuscita e convincente. La batteria è minimale e sottolinea pochi battiti, come vuole lo stile della band, e l’esplosione che arriva sul finale rende ancora più adatto il brano ad essere la colonna sonora alternativa di un film come Django Unchained di Quentin Tarantino. Uno degli highlight del disco e della carriera degli Zeal & Ardor, qui i brividi si provano per davvero.

If love is for the big one, I'm a tiny man
If light is for the brave, I'm in darkness, my friend
If freedom gives you company, I'm a lonely man
Is this what you call honesty, 'cause I'm lying, my friend.


Prosegue su coordinate simili la breve Bow, probabilmente il brano che maggiormente si riallaccia al disco d’esordio della band, con il canto spiritual e i cori che si danno il cambio su una base electro-industrial serratissima; il finale è ancora una volta elettrico ed è in grado di far muovere la testa senza sosta. Il disco cambia atmosfera in continuazione, ma mantenendo una perfetta omogeneità di fondo; per questo Feed the Machine risulta perfettamente calata nel contesto, con il suo continuo saliscendi tra ritornelli industrial black metal e strofe country western. La voce schizza impazzita tra scream, growl e puliti caldi e soul e c’è spazio per l’ennesimo breakdown metalcore impazzito. Una follia totale, ma che funziona. Eccome se funziona. Non è chiaro quanto sia voluto, ma I Caught You sembra voler omaggiare All My Life dei Foo Fighters nella strofa e infila anche un riff noise rock che non sarebbe dispiaciuto ai compianti Il Teatro degli Orrori. Ancora una volta la follia schizoide di Gagneux è assimilabile a quella di Mike Patton in quello che a conti fatti è il brano più pesante e spiccatamente metal in scaletta. Manca ancora qualche brano per concludere il disco, ma il finale regala un altro momento memorabile, che porta il titolo programmatico Church Burns: satanismo e politica si mescolano in un testo che è prevedibilmente ispirato alla morte di George Floyd e per questo si riallaccia all’Ep del 2020, mentre musicalmente siamo nuovamente a cavallo tra soul e modern metal, con un riff reiterato che si spegne per lasciare spazio ad un pianoforte che accarezza le invettive avvelenate di Gagneux. Un brano tutto sommato più contenuto e ragionato rispetto ai precedenti, ma che funziona proprio grazie al testo e all’attitudine riottosa e incazzata mutuata dagli ZZ Top (!), afferma il leader del gruppo.

Met a man I killed in the morning
Who else could kill him but me?
The man dead, but came back as a warning
Who dares to kill him but me?


Götterdämmerung è il momento che strizza di più l’occhio al death metal e lascia spiazzati ascoltare un brano simile firmato Zeal & Ardor, anche se non mancano gli elementi tipici del gruppo uniti ad un inedito testo in tedesco. Molto meglio comunque Hold Your Head Low, un altro degli episodi chiave dell’album, che si muove sui binari di una semi-ballad jazzata con inserti black metal e una tensione emotiva fortissima. Il brano, nelle parole di Gagneux, risalirebbe al 2017 e sarebbe stato suonato dal vivo più volte; inoltre sarebbe ispirato agli Opeth e in effetti questa non sembra un’affermazione vana. Chiude infine l’opera l’enigmatica A-H-I-L, composizione ambient totalmente affidata ai synth la quale lascia presagire un’evoluzione notevole nel percorso del musicista svizzero-americano.

Zeal & Ardor è un album complesso e sfaccettato, ma che durante l’ascolto si rivela anche più facilmente fruibile del previsto. Questa è la caratteristica saliente del disco, che emerge grazie alle capacità compositive notevoli di Manuel Gagneux. L’imprevedibilità e la genialità schizoide che erano affiorate in Devil is Fine qui vengono recuperate ed esaltate con una scrittura che non risulta mai forzata, ma sempre scorrevole e spontanea. È chiaro che dietro la creatura messa in piedi dal leader maximo c’è un pensiero specifico e un ragionamento oculato, ma la musica parla una lingua che ora è finalmente autorevole e dotata di una personalità spiccata; rimangono evidenti alcune influenze, forse volutamente messe in risalto da Gagneux, ma esse servono il più delle volte per piegare alle sonorità del gruppo certi stili e modus operandi che in questo modo assumono una nuova veste. È difficile parlare di novità e suoni nuovi nel 2022, ma gli Zeal & Ardor potrebbero far rivalutare questo concetto perché se il disco del 2017 aveva effettivamente portato una ventata d’aria fresca in campo metal, questo nuovo album riprende quella ventata d’aria e la fa incanalare in qualcosa di unico ad oggi e che non ha rivali. Complimenti perciò a Manuel Gagneux, artista raro e da preservare, a cui auguriamo una carriera ancora longeva e prodiga di album superlativi come questo qui recensito.

Bow down to the American way.



VOTO RECENSORE
84
VOTO LETTORI
45.89 su 57 voti [ VOTA]
PROF
Martedì 12 Aprile 2022, 23.22.16
7
Hai detto bene. Superlativo. Voto 98, ordinato il vinile bianco e la chiudo qua.
Tatore
Mercoledì 23 Febbraio 2022, 9.37.27
6
@NoFun Ma che bel commento! Dovresti fare il recensore
No Fun
Martedì 22 Febbraio 2022, 19.47.44
5
Avevo già ascoltato qualche pezzo nei mesi scorsi anche perché c'era un utente del forum che ne parlava ( ) ma poi l'ho ascoltato per bene ieri notte in macchina, è davvero un bel disco, come dice la rece, complesso e sfaccettato ma che si ascolta facilmente. La maturazione è evidente e la validità della proposta viene ribadita. Non era scontato perché mettere insieme metal estremo satanico e spiritual poteva essere una cosa originale ma difficilmente ripetibile, invece l'esperimento continua a mostrarsi fecondo. La prima volta che ascoltai Devil is Fine, casualmente fu insieme a Gin dei Cobalt, che finisce con una traccia nascosta inaspettata e spaventosa: il canto di una chain gang, con il rumore delle catene e dei martelli. Devil is Fine comincia allo stesso modo, e la proposta mi parve allora subito naturale e potente, piena di vita, sporca di realtà. Ecco, se devo dire qualcosa che non mi convince del tutto, è che la ricercatezza musicale e concettuale raggiunte hanno levigato forse un po' troppo le asprezze necessarie a una proposta del genere. Le mani sulla cover, è come se le mani della cover di Deathcrush grazie agli spiritual avessero riacquistato dignità, trasformandosi in simboli potenti ma anche un po' troppo ripuliti e imbalsamati, lasciando un po' da parte la carne sporca e ruvida che risuonava in quella chain gang.
Tatore
Lunedì 21 Febbraio 2022, 23.08.01
4
Buona recensione, molto dettagliata e puntuale. Disco "bello bello in modo assurdo" (cit.) i cui singoli mi hanno accompagnato per buona parte dell'inverno 2021. Sembra abbiano confermato i live a Roma e Milano, e fremo all'idea che torneranno nella capitale. Li ho visti durante il tour di 'Stranger Fruit' e sono stati pazzeschi, e credo che con la pesantezza di alcuni brani di questo album saranno devastanti! Voto 90
Gustav
Lunedì 21 Febbraio 2022, 20.32.55
3
Che esplosività creativa, adoro gli album che come questo ti tengono incollato alle cuffie stimolando l'ascolto attivo. Gran bella recensione!!
John
Sabato 19 Febbraio 2022, 20.37.21
2
Un buon disco, ma credo che debbano ancora raggiungere una certa coesione. Ancora si sentono brani che vanno un po' in direzioni sparse e senza troppa soluzione di continuità. Meglio dei precedenti, ma c'è ancora margine di miglioramento.
Pez
Sabato 19 Febbraio 2022, 12.22.00
1
Concordo in tutto, sicuramente il disco più completo e figo del progetto. Lo scorso EP non mi colpì forse perché non l'ho ascoltato bene o non ero nel mood giusto ma questo lavoro è sicuramente il più maturo. Anche la produzione è stata fatta in maniera impeccabile, poteva andare avanti con black metal e musica afroamericana per tutto il tempo e invece ha sperimentato in maniera molto divertente e soprattutto in un modo che non annoia l'ascoltatore. Spero di vederlo dal vivo prima o poi.
INFORMAZIONI
2022
MVKA
Inclassificabile
Tracklist
1. Zeal & Ardor
2. Run
3. Death to the Holy
4. Emersion
5. Golden Liar
6. Erase
7. Bow
8. Feed the Machine
9. I Caught You
10. Church Burns
11. Götterdämmerung
12. Hold Your Head Low
13. J-M-B (Jazz, Metal, Blues)
14. A-H-I-L (All Hope Is Lost)
Line Up
Manuel Gagneux (Voce, Chitarra, Basso, Cori, Synth, Elettronica, Samples)

Musicisti Ospiti:
Marco Von Allmen (Batteria)
 
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