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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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Architects - the classic symptoms of a broken spirit
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06/11/2022
( 1578 letture )
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Copertina minimale e titoli delle canzoni in lowercase non sono esattamente il genere di presentazione che ci si aspetterebbe dagli Architects e infatti il nuovo the classic symptoms of a broken spirit -decima prova in studio dal 2006- non è un album che ci si aspetterebbe da loro…. o forse sì. Sta di fatto che All Our Gods Have Abandoned Us e Holy Hell sembrano appartenere ad una galassia parallela e già il recente For Those That Wish To Exist (2021) echeggia lontano in un abito orchestrale incredibilmente fuori moda nel giro di un anno e mezzo. Dopo aver sfogato le ultime velleità sinfoniche nel live At Abbey Road, gli inglesi ripartono inaugurando subito una direzione stilistica alternativa alla profondità emozionale di FTTWTE, un lavoro intimo dove archi, nuance elettroniche e melodie sognanti alleggerivano il tradizionale songwriting metalcore predisponendolo a una forma canzone dall’inedita veste “commerciale”. Estirpate quindi le radici math delle origini, diluito il pathos lancinante della fase 2016-2018, abbandonati i sentimentalismi agrodolci del diretto predecessore, qual è ora il volto degli Architetti? Uno straniante paesaggio sonoro che tenta l’approccio “less [metal] is more” già fatto proprio dagli amici/rivali Bring Me The Horizon, questi confezionando un alternative pop sfacciato ma incredibilmente performante, i nostri mediante una torsione filo-industrial che innerva il tessuto metalcore in un binomio ancora in cerca di equilibrio viste le crepe affioranti in superficie. Un’aura fredda -garantita da sintetizzatori, beat e programming- si stende come neve artificiale sulle ritmiche -core, quadrate e dal costante incedere in un mid-tempo non incline a variazioni o improvvise modifiche nei pattern. Spetta dunque a Sam Carter infondere il calore opportuno ma anche il suo timbro va a posizionarsi in una zona grigia quantomeno interlocutoria, da un lato accrescendo il numero di hook melodici dal forte imprinting radiofonico e dall’altro strizzando l’occhio in maniera fin troppo evidente al collega Oli Sykes, il cui spettro aleggia in ben più di un’occasione. the classic symptoms of a broken spirit è quindi un album poco chiaro nei suoi intenti, riluttante a cancellare il genoma del metalcore e allo stesso tempo navigante a vista con l’ago della bussola puntato verso il mainstream e l’ombra di una transizione ancora in fase di sviluppo; è un problema comune ad altre band del settore (A Day to Remember, The Devil Wears Prada, Asking Alexandria, Northlane…) e mentre le nuove leve procedono spedite, i nomi “di una volta” -sentendosi minacciati- annaspano tentando un cambio di paradigma riuscito finora solo al quintetto di Sheffield o ai Motionless in White.
L’industrial metalcore “work-in-progress” e lo spauracchio dei BMTH intrecciano i fili già nell’opener deep fake (più Post Human: Survival Horror che That’s the Spirit/Amo), tear gas invece sfodera chitarroni alla Rammstein e trascinanti melodie da sing-along nei refrain/cori, poi la marcia di spit the bone rimbalza fra elettronica, ulteriori linee pulite dall’elevato tasso di cantabilità e un flebile accenno di breakdown. La malinconica burn down my house alla lontana funge da semi-ballad e non evita l’ennesimo paragone (echi di Sempiternal e un timbro alla Oliver Sykes) con gli illustri connazionali, maestri dell’easy-listening moderno qui esemplificato dal continuo ricorso ad aperture vocali piacevoli e immediate come in living is killing us (dal titolo non si direbbe ma tant’è) e doomscrolling. Il singolone when we were young -con i suoi riff circolari e un energico battito groovy- risalta in una tracklist che nell’ultima sezione denuncia frequenze alterate e una connessione sempre più instabile: born again pessimist viene salvata dal fugace intervento in scream e dalle tinte -core, all the love in the world si aggrappa alle qualità del cantante evitando per un soffio la nomea di “una fra le tante” e così a ripristinare i parametri corretti intervengono le patch di a new moral low ground e soprattutto be very afraid, traccia dove le sponde metalcore e industrial raggiungono finalmente una simbiosi tra breakdown, ritmiche sostenute e harsh vocals mai tanto invadenti (nel senso buono del termine). Crepitii rumoristici e cinguettio nell’outro a parte, se il livello medio delle composizioni si fosse aggirato su standard di tale caratura a quest’ora parleremmo di tutt’altro disco.
Non un upgrade rispetto a For Those That Wish To Exist e nemmeno un crollo dalle proporzioni allarmanti: the classic symptoms of a broken spirit è un lavoro che non macchia certo la reputazione degli Architects, eppure non si può fare a meno di esprimere dubbi sull’andamento post - Holy Hell, indeciso tra correnti orchestrali (subito rimosse) e cromature industrial non ancora del tutto convincenti. Bissare All Our Gods Have Abandoned Us e HH è impresa ardua e la band dovrà sicuramente lavorare sodo per respingere le voci di un calo artistico, magari dosando i tempi fra una pubblicazione e l’altra oppure stabilendo con maggior precisione l’indirizzo sonoro da adottare. Torneranno sui propri passi o si incammineranno su una terza via? Al momento resta in dote all’ascoltatore un album di luci e ombre, con brani finanche validi ma scostanti e inabili al confronto con le gemme del passato e gli episodi migliori del 2021.
Superfluo aggiungere come da un gruppo di questo calibro sia giusto pretendere di più, molto di più.
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10
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A me nel complesso è piaciuto anche se sono consapevole che quello che fanno ora non è paragonabile né al livello di quello che hanno fatto in passato. E' cambiato il songwriting (Dan e Tom erano gemelli, ma a quanto pare non basta per avere lo stesso tipo di eloquio) ed è chiaro che le tracce, se prima erano pensate da un chitarrista, adesso sono pensate da un batterista, quindi l'approccio sonoro deve per forza cambiare. Suppongo che se Josh si fosse imposto sulla band anziché rivestire un ruolo di "comprimario rispettoso" come sta facendo ora, avremmo sentito tutt'altra musica: non dico roba alla Sylosis ma qualcosa di più variegato nei riff sicuramente (a new moral low ground è forse l'esempio più eclatante, con quel riff finale che è tra i momenti più alti del disco a mio parere). La band ha chiaramente detto che con la dipartita di Tom, le cose erano inevitabilmente cambiate: non si poteva più essere lo stesso gruppo. Quindi che cosa c'è che non va in questa deviazione? Se in FTTWTE il gruppo ha sviluppato un concept in modo ampio e approfondito, creando una composizione "operistica", con diverse sfaccettature e studiata che poteva davvero essere un punto di partenza per il gruppo, questo disco è una sterzata caotica e "più brusca", più istintiva, poco ragionata e che forse meritava un approfondimento e studio maggiore (l'album è in pratica uscito troppo presto). FTTWTE era un concept album con un'aura più epica, questo album invece pare un insieme di tracce, talvolta non ben connesse tra di loro (una su tutte When We Were Young, che sembra non c'entrare niente col resto). Nel complesso rimangono comunque dei buoni pezzi, godibili, con un buon ritmo e parti vocali ben eseguite. Penso quindi che i problemi maggiori siano due: uno è sempre lo stesso e sempre ci sarà qualsiasi cosa faranno, ossia il pesante paragone col passato; il secondo è invece il fatto che questo album sa di compitino, di un lavoro fatto sulle sensazioni e le idee del momento, messe giù in modo diretto senza una strada maestra su cui basare il tutto. Le canzoni che preferisco sono: a new moral low ground, be very afraid, burn down my house (dissento sul fatto che ricordi i BMTH, non mi pare che Oliver sia avvezzo a certi vocalizzi, che invece ritroviamo in Sam in canzoni come Libertine), deep fake, spit the bone (il pezzo più sottovalutato). I BMTH rimangono sicuramente una forte influenza (definire questo album come il That's the Spirit degli Architects non è una assurdità), ma non è così dominante come si vuol far credere. Va da sé che i BMTH sono una band fin troppo influente, nessuna band nel genere può dire di non aver copiato qualcosa da loro, perché lo ha fatto di certo. |
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9
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Tra i dieci album di inediti questo è il meno riuscito/ispirato (guardando la colonna a destra, personalmente cambierei i voti del trittico hollow crown- the here and now-daybreaker) e pur condividendo in sostanza l'etichetta di "peggior album degli architects", the classic symptoms alla fine è un discreto lavoro, con qualche buono spunto e diverse ombre che non inficiano comunque una valutazione positiva. I dischi metalcore da bocciare sono altri (esempio recente, deja vu dei novelists), la band di Sam Carter invece, grazie al paradosso di voler aprirsi ad una forma "pop" senza averla nelle corde, ha mantenuto un sostrato -core aggiungendo una patina industrial non ancora del tutto a fuoco, assolutamente vero, ma non mancano fin da ora spunti interessanti e cito be very afraid come base da cui ripartire.
Negli ultimi due anni hanno pubblicato 3 dischi (FTTWTE, il live orchestrale e the classic symptoms), quindi una fase di stanca è comprensibile ma se non miglioreranno in fretta già dal prossimo album, il giudizio sarà di certo più severo perché non avranno attenuanti. |
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8
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Sono sprofondati davvero in basso, con questo disco hanno iniziato pure a scavare. Voto 3. Vogliamo poi parlare di Josh Middleton, uno dei migliori chitarristi metal degli ultimi anni, a cui tocca fare parte di questa baracconata pur di fare sorride le sue finanze? Sprecatissimo almeno quanto Jeff Loomis negli Arch Enemy |
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7
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Proprio non mi prende, album scontato con qualche guizzo interessante ma nulla più, non centra neanche il cambio di genere (vedi bmth, bad omens, whitechapel ecc) sono sempre aperto a qualsiasi inclinazione l’artista si senti più adagio, ma qui sono proprio le idee a mancare, il less is more funziona se sai come farlo funzionare, non voglio dilagarmi troppo, in ogni caso primo album degli Architects che non raggiunge la sufficienza, voto 50 |
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6
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D'accordissimo con @All I Was su tutto il suo ragionamento. Il disco si ascolta pure, qualche momento azzeccato c'è, ma gli Architects che amo io non sono questi e i BMTH da anni giocano proprio un altro campionato, irraggiungibile per chiunque ormai. Da questa scena inglese solo gli Enter Shikari rimangono - per me - più che notevoli, ma parliamo di un altro stile ancora. Spero che Sam Carter e i suoi compagni possano trovare una nuova stabilità, per ora non fanno più per me. |
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5
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Sono ormai anni che cercano di rincorrere i BMTH e questo è il risultato. Lo scorso disco estremamente prolisso e ripetitivo, con questo hanno ulteriormente abbassato il tiro e ne è venuto fuori un disco poco ispirato, piatto e mediocre. Forse meglio che tornino a fare quello che più è adeguato al loro livello compositivo. La musica dei BMTH pare semplice, ma non lo è. Che gli sia di lezione. |
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4
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Sono ormai anni che cercano di rincorrere i |
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3
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Disco di chiara matrice rock alla BMTH post That's the Spirit ma senza quell'estro creativo Pop di Jordan Fish che ne possa determinare un valore aggiunto. Disco MEDIOCRE nel risultato poiché l'attitudine punk è ridotta all'osso in favore di una forzatura Pop che la band NON ha MAI avuto. E' un disco che lascia il tempo che trova e che a mio avviso NON farà fare alla band quel salto di pubblico alla BMTH tanto sperato. Capisco la necessità di cambiare ma mentre i BMTH hanno cambiato direzione per via dell'assurdo ruolo da PROTAGONISTA riconosciuto dagli altri membri di Jordan Fish che è un VERO artista POP, gli Architects hanno cambiato SOLO perché hanno visto che ai loro amici gli è andata di lusso...ma la musica mica funziona come la manovia! Nella realtà "pratica" di tutti i giorni copiare = aumento produttività = più grana...nell'arte c'è sempre quel qualcosa in più che non può essere imitato e trasdotto in produttività e che da personalità alle cose che uno crea. I BMTH quel qualcosa nella loro "seconda era" era ce l'hanno, gli Architects stanno perdendo pezzi. PECCATO. |
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Il precedente non mi era piaciuto molto, ma se devo essere sincero sono fra quelli che non apprezzano quasi nulla di tutto ciò che hanno fatto dopo Hollow Crown :/ Mi spiace per la loro storia, ma preferisco altre band in questo genere. Non è nemmeno una questione di essere diventati più melodici, visto che invece i BMTH continuo ad ascoltarli con piacere e curiosità. Non so proprio che dire |
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1
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Il precedente non mi era piaciuto molto, ma se devo essere sincero sono fra quelli che non apprezzano quasi nulla di tutto ciò che hanno fatto dopo Hollow Crown :/ Mi spiace per la loro storia, ma preferisco altre band in questo genere. Non è nemmeno una questione di essere diventati più melodici, visto che invece i BMTH continuo ad ascoltarli con piacere e curiosità. Non so proprio che dire |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. deep fake 2. tear gas 3. spit the bone 4. burn down my house 5. living is killing us 6. when we were young 7. doomscrolling 8. born again pessimist 9. a new moral low ground 10. all the love in the world 11. be very afraid
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Line Up
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Sam Carter (Voce) Josh Middleton (Chitarra, Tastiere, Cori) Adam Christianson (Chitarra, Cori) Alex Dean (Basso, Tastiere, Drum Pad) Dan Searle (Batteria, Percussioni, Tastiere, Programming)
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