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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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Scrivere una recensione riguardante gli Agalloch è un’impresa, essendo la band di Portland talmente complessa, sia nella propria manifestazione artistica che nella propria poliedrica attività, da ostacolare un’analisi comprensiva ed esauriente. Ogni album, a partire dal primo vagito, Pale Folklore, fino al recente EP Faustian Echoes, meriterebbe un piccolo saggio solo per dare una cornice adeguata alle svariate influenze che da sempre hanno forgiato la proposta di una delle formazioni più seguite ed amate del panorama, anche da appassionati non strettamente amanti delle sonorità estreme.
Esempio di questa universalità è The Mantle, edito nel 2002 per l’etichetta newyorkese The End Records, in cui la collaborazione con il poeta-sperimentatore Ajdan Baker permette di sublimare la potenza del black metal fino ad obbligarla ad assumere i connotati di un post rock i cui lineamenti richiamano ad una tensione verso una nuova concezione del sotto-genere, portando un’espressività immatura ad un piano di stratificazione ben più maturo rispetto all’esperienza reale del gruppo americano. Nei suoi settanta minuti di durata infatti, l’album regala aperture neo-folk; commoventi inserti di cantato pulito, interpretati da un Haughmin forma brillante; timidi tentativi di costruzione di strutture ambient, negli album futuri poi una costante piacevolmente riproposta; brani fluviali sorretti semplicemente da scarni accordi di chitarra acustica; liriche la cui profondità nell’analizzare il tema dell’amore in tutte le sue forme strappa il respiro dai polmoni; infine una precisione davvero encomiabile nel mantenere un equilibrio, sostanzialmente necessario per consentire all’ascoltatore di non sprofondare nei circolari arpeggi, ripetuti quasi come fossero mantra.
Tracciando una linea di demarcazione, The Mantle rappresenta il primo caposaldo della carriera degli statunitensi, solidificando in paradigma l’anima meno elettrica, più spirituale e catartica, segnando un punto di svolta: da qui in avanti gli Agalloch affineranno la tecnica compositiva ed esecutiva senza più raggiungere la stessa sintesi così esaustiva di quanto prodotto dai loro predecessori. I brani di The Mantle sono infatti nella condizione di rievocare molti nomi celebri, nascosti nelle pieghe delle loro composizioni: i Pink Floyd nell’assolo di The Hawthorne Passage, i Sol Invictus nella struggente A Desolation Song, scritta dal chitarrista-professore di letteratura inglese Don Anderson (autore inoltre delle partiture per pianoforte), gli Ulver (quantunque nel caso si presti meglio l’espressione “coevi” piuttosto, pur tenendo conto che i Lupi avevano già intrapreso la svolta elettronica culminata con Perdition City, due anni prima) nella velocità malinconia di I Am The Wooden Doors, unica traccia nella quale si affaccia insicuro un muscoloso doppio pedale. Il problema delle percussioni troverà soluzione unicamente con l’ingresso in formazione di Dekker, sebbene la prestazione di John alle pelli, limiti considerati, non sia per nulla insufficiente, supportando un riff perfetto nel fondere aggressività e melodia, contribuendo a infondere all'insieme un talento innato, innegabile già nelle fasi di avvicinamento allo zenit artistico lungi dall’essere raggiunto, i nostri sembrano non conoscere il concetto di limitatezza. Tutto questo fermo restando un predominio assoluto delle chitarre acustiche, attrici principali nella doppia veste ritmica e solista. La scelta di affidare un intero album allo studio delle possibili personalità che le sei corde, strumento prediletto dai folk-singer, sono in grado di incarnare è quantomeno sorprendente, anche per gli Agalloch del periodo. Gli americani provenivano da un primo disco in cui il peso fondamentale degli episodi era affidato ai paesaggi evocati da poche progressioni di accordi, variate leggermente ad ogni giro, sulle quali si innestavano le linee melodiche, altrettanto essenziali e spartane, dando conferma dell’importanza del neo-folk (la cover di Kneel To The Cross, dei Sol Invictus, è del 2001) nell’inconscio di John soprattutto.
Lo stupore muta in meraviglia allorché, in successione ad un congruo numero di ascolti attenti, The Mantle schiude lentamente le sue visioni: grigi paesaggi, esistenze precarie, nature così violentate da suscitare una compassione ineludibile, visioni cullate da una sezione ritmica evanescente ed estranea alla regolare scansione del tempo tipica di in un contesto urbano, volendo così muoversi seguendo il vento piuttosto che il metronomo. Viene così sorvolate una decisa divisione delle battute, indicata specialmente dalle chirurgiche pennate in sottofondo, le quali, calandosi nell’universo plumbeo raffigurato, rifuggono intricati pattern, preferendo il quattro quarti di facile esecuzione, ma di indimenticabile bellezza.
The Mantle è una donna sinuosa, inabile a fidarsi degli altri esseri umani per via di un passato mai rielaborato, il cui sguardo incanta il più gelido tra i cuori fino a portarlo ad un amore che può configurarsi come solo platonico, in quanto ella non vuole concedersi, permettendo ad occhi rapiti e vinti dal proprio fascino di intuire solamente le sue forme celate dalla veste. Anderson copre ogni lembo delle pelle della sua creatura, aggiungendo agli arpeggi terzinati di You Were But A Ghost In My Arms robusti passaggi di strazianti chitarre distorte, che simboleggiano uno scontro nell’anima nel compositore e restituiscono al tempo stesso le sensazioni di dinamismo e di continuo avvicendamento tipiche della natura. Le stagioni si susseguono abbandonando dietro di sé echi del passato, come le sei corde soliste rimbombano sottoposte a venature di delay, riemergendo perennemente nuove, rifiorendo dalle stesse ceneri a cui erano state condannate dagli onnipresenti e “caldi” riverberi.
Difficile credere che il terzetto sia veramente nato sul suolo americano: le atmosfere transeunti potrebbero essere ricollocate prive di alcun tradimento nelle distese funestate dal vento dell’Islanda, oppure nelle inospitali terre a Nord della Norvegia, quelle isole in cui l’uomo è subordinato alle sole forze elementari.
Nel complesso, The Mantle può essere riassunto, spalancando altre porte da cui accedere a nuovi spunti di discussione, nella coppia di versi posti nell’episodio conclusivo, miglior specchio in cui rimirare la beltà contraddittoria di un’uscita la cui impenetrabilità apparente non manca di affascinare fatalmente chiunque precipiti tra le sue spire, ora eleganti, ora ferali, nella sua natura nascosta di bruciante ossimoro.
In this cup, love's poison
For love is the poison of life
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Siamo in primavera ormai, ma oggi é un giorno uggioso, grigio e triste, cosa c\'é di meglio di The Mantle per tirarsi su di morale/camminare dentro la foresta per non tornare piú alla civiltá? voto 100, disco senza tempo |
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.... Ci mancherebbe 😂🤘 |
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Capolavoro immenso.. Uno dei più grandi album black metal di sempre.. Di una bellezza quasi commovente.. Inarrivabile.. Per me è un 100 secco |
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70minuti mai banali per questo autentico gioiello che partendo dal black metal si ibrida con meravigliosi passaggi neo folk.Ne esce il loro disco più bello,più autentico.Un viaggio.Pura magia.95 |
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Meraviglioso, dopo 1000 ascolti ho deciso di dedicargli un tatuaggio in modo da potermelo portare addosso per sempre. |
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Dei primi Tre, questo è l\'unico che ancora mi mancava all\'ascolto.. Lo metto sul gradino più basso del Podio.. Preferisco il suo Successore e soprattutto Pale Folklore che per Me è la loro Opera più rappresentativa.. Un vero peccato che si siano sciolti. |
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livelli altissimi , il mio preferito insieme ad AATG anche se questo lo reputo un pelino sopra voto 95/100 |
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Riscoltato stamattina a distanza di molto tempo.....e c'è soltanto una parola per descriverlo.... CAPOLAVORO!!
Per me insieme a Pale Folklore è il massimo della loro arte, ma anche gli altri dischi non è che sono poi molto lontani..... Comunque voto 100 insindacabile.
Ossequi! |
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Bisogno necessario di un ritorno a casa,tornare indietro è un pò rinascere,e nel calore di queste note le cose che perderemo di nuovo.Veramente immenso. |
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Meraviglioso, se la batte con AATG per la palma di migliore album degli Agalloch (rimanendo, per me un pelino sotto). Davvero stupendo ed intenso, un viaggio attraverso sentieri e colline avvolti dalla nebbia. Voto 88 |
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Potrebbe tranquillamente stare nella top 3 dei miei dischi preferiti. |
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Intenso, evocativo e a tratti commovente. Una vera perla. |
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Lo sto riascoltando in questi giorni dopo un bel po' di tempo e il mio parere non cambia disco sublime di una bellezza incantevole e sfuggente. Ascoltarsi ..and the Great cold Death of the earth salendo sulle colline nebbiose non ha prezzo |
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Grande capolavoro, forse un gradino sotto a Pale Folklore e Ashes Against the Grain. Che The Lodge sia un "tributo" a Een Stemme Locker degli Ulver? Voto della recensione giustissimo |
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Il top degli Agalloch insieme al debut, quelli dopo sempre bellissimi ma inferiori... ricordo che la prima volta che l'ho ascoltato appena uscito mi ha fatto rivivere le emozioni del capolavore deglio Ulver: Bergtatt. |
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20
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Merci Monsieur Mickelozzo per la segnalazione. Il tono ed il testo sono di una tenerezza struggente. E il dialogo è inserito in un pezzo bellissimo. Quando si vede la capacità compositiva di una grandissima band. Au revoir. |
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19
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You were but a Ghost but a Ghost in my arms.....l'ho ascoltata centinaia di volte....ma tutto l'album è un capolavoro!nella traccia che ho citato , le clean vocals non vi ricordano un po i Pet Shop Boys?;-D |
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scusasseme, "que bonito es un entierro" non e` un minimetraggio ma uno spezzone di film completo, "Fando Y Lis". Mi sono informato superficialmente. |
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@Le Marquis De Fremont il finale in spagnolo di The Hawthorne Passage e` tratto da un minimetraggio di Jodorowsky, "Que Bonito Es Un Entierro", basato a sua volta su una popolare poesia di... boh? Mariano Povedano? Puo` essere? Vabbe`, voto: 92. A parte il fatto che, per gli Agalloch, scegliere il mio preferito tra questo, Ashes Against The Grain e Pale Folklore e` difficilissimo, sono perfettamente d'accordo nell'individuare come unico punto debole una sezione ritmica non eccezionale. In Faustian Echoes l'arrivo di Dekker dietro le pelli FA una differenza ENORME, e si sente. Aspettiative per il nuovo album altissime. |
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Assurdo... proprio oggi ho ripensato a questo bell'album e mi ritrovo la recensione su Metallized. Ma solo io ci sento qualche accenno di prog? |
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Disco bellissimo come tutti i lavori degli Agalloch. Anche se qui mi trovo ad andare leggermente in contro tendenza... Meraviglioso, per carità, ma secondo me è migliore solo di marrow of the spirit. Ashes against the grain è una spanna sopra e pale folklore... beh, per me quello è semplicemente inarrivabile, perfetto sotto ogni punto di vista. The mantle resta comunque un capolavoro; In the shadow of our pale companion è una delle mie canzoni preferite. |
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C'è da dire che li seguo poco, invero... Ma diamine se è bello questo disco. |
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13
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un fracco un fracco anche a me |
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12
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Mi piace un fracco sta cover. |
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La copertina nasce da una storia vera, una storia di tradimento.. |
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10
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Monsieurs, quoto in pieno i post di Golem ed Elijah: questo disco non può essere "votato" perché il limite 100 sarebbe troppo poco. Come tutta la produzione degli Agalloch, una delle mie band più adorate di sempre, siamo su livelli altissimi. Sia come songwriting che come phatos generale. The Hawthorne Passage, con quel finale recitato in Spagnolo, mi ha emozionato fino alle lacrime. Capolavoro da tenere, come gli altri, nello scrigno più prezioso: il cuore. Au revoir. |
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9
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Il capolavoro degli Agalloch. Per quanto gli altri dischi siano anche delle gemme, questo è superiore da ogni punto di vista. Uno dei capolavori musicali degli ultimi venti anni. |
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8
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Marrow of The Spirit è oggettivamente bello come gli altri tre, soffre solo la ricerca sfrenata del particolare. Dopo 40 ascolti ogni volta riesco a scoprire sempre qualcosa di nuovo. Necessita solo di più tempo per essere assorbito pienamente, e adoro la sua poca immediatezza. |
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7
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Come dice golem, pure il 200 sta stretto a questo capolavoro. I primi 3 degli Agalloch li adoro ma anche l'ultimo non scherza |
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6
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giustamente il recensore esprime il proprio parere, ma questo disco non può avere un voto così basso perchè è arte ed emozione al massimo livello. anche il 200 sarebbe troppo ristretto |
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5
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questo disco lo adoro, lo adoro davvero. |
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4
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Bello, il neo-folk che incontra il metal. Death in June e Sol Invictus si sentono lontano un miglio, ma questo alla fine vale un po' per tutti quelli che si avvicinano al neo-folk. |
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3
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Disco stupendo quasi perfetto!Gli preferisco di poco Pale e Ashes Against,ma anche questo è bellissimo!85! |
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Bisogna commentare dischi del genere? Il mio preferito resta Pale Folklore ma anche qui si rasenta la perfezione. |
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1
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L' album più importante forse per la mia formazione musicale. Lo adoro con tutto me stesso, ancora di più da quando ho avuto la possibilità di ascoltarlo fra montagne innevate. 99 veramente, lo trovo perfetto.. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. A Celebration For The Death Of Man… 2. In The Shadow Of Our Pale Companion 3. Odal 4. I Am The Wooden Doors 5. The Lodge 6. You Were But A Ghost In My Arms 7. The Hawthorne Passage 8. …And The Great Cold Death Of The Earth 9. A Desolation Song
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Line Up
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John Haughm (Voce, Chitarra, Ebow, Scacciapensieri, Percussioni, Batteria) Don Anderson (Chitarre, Pianoforte) Jason William Walton (Basso, Noise)
Musicisti Ospiti: Ronn Chick (Tastiere, Mandolino) Ty Brubaker (Contrabbasso, Fisarmonica) Danielle Norton (Trombone)
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RECENSIONI |
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ARTICOLI |
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