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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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Space Mirrors - The Other Gods
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( 2198 letture )
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Avevamo lasciato gli Space Mirrors l’anno scorso con il primo capitolo della serie ispirata a livello di tematiche al Solitario di Providence, H.P. Lovecraft. L’autore statunitense, creatore di una vera e propria cosmogonia e di una geografia alternativa alla realtà che appare ai nostri miseri cinque sensi, sembrava la musa ideale per la musica della band, che prendeva dallo space rock quanto da altri generi affini, dall’hard rock al prog e perfino dal dark. Un coacervo musicale che sicuramente metteva in luce alcuni spunti positivi, in particolare per la voce di Martyr Lucifer e per l’atmosfera che la band riusciva a creare, avvalendosi anche del contributo di musicisti esterni alla formazione, quali ad esempio Nik Turner, famoso membro fondatore degli Hawkwind. Eppure, già nel debutto si segnalavano problemi legati al songwriting ed anche alla produzione e registrazione dell’album ed era quindi lecito attendersi dei decisi passi avanti in tal senso da parte del gruppo, considerando che stiamo parlando del quinto album. Risolti alcuni punti chiave come l’ingresso in pianta stabile di Gabriel Monticello al basso e di Claudio Tirincanti alla batteria e confermata la presenza di numerosi ospiti, raccolti attorno al personaggio chiave della formazione, Alisa Coral, ecco che il gruppo senza veramente perdere tempo, rilascia il secondo capitolo della serie, il qui presente The Other Gods.
Le atmosfere ricercate dalla band appaiono palesemente oscure, pesanti, oppressive ed ossessive. Purtroppo, sin dall’opener Stranger in the Mirror, scritta dallo stesso Martyr Lucifer, è difficile non cogliere quanto sia a livello di registrazione, che di mixaggio, produzione e mastering, The Other Gods soffra di un lavoro confusionale e decisamente amatoriale. Ad un punto che davvero non è consentito ad un album che esce sotto etichetta. Il sound complessivo è involuto, schiacciato, nebuloso, rinchiuso e confuso, i livelli degli strumenti assolutamente rivedibili ed in generale il tutto risulta così impastato e indefinibile da rendere l’ascolto davvero difficoltoso e assolutamente non piacevole. Peccato, perché a livello di scrittura, proprio l’opener si rivela un potenziale ottimo singolo, con atmosfere vicine al gothic/dark, grazie alla profonda voce di Martyr, le quali lasciano spazio sia alle influenze space che a quelle hard rock, coadiuvate da un refrain assolutamente accattivante. Eppure, più ci si addentra nel disco, più si percepiscono delle valide intuizioni soffocate però da un songwriting non maturo e da arrangiamenti che, nel tentativo di dire troppo, finiscono per risultare spiazzanti e quasi casuali, senza che il tutto appaia mai nel reale controllo della band. Si prenda in questo senso la quarta traccia Frozen City of Cubes and Cones, nella quale il sax di Turner dovrebbe in teoria ricreare quell’atmosfera allucinata e terrorizzante che i cultori di Black Widow e altri gruppi del dark sound e del prog anni 70 ben conoscono: ebbene, in realtà il tappeto sonoro sottostante risulta del tutto incapace di ricreare alcuna pulsazione, alcuna ansia, alcuna atmosfera, se non quella di fastidio per un costrutto privo di qualsiasi intenzione e dal risultato mediocre, chiuso poi da un finale che pare davvero casuale e buttato lì, come un produttore professionista non avrebbe mai potuto lasciare, anche nei fumi della più profonda crisi improvvisativa. Stessa identica sensazione si prova per la successiva (The Case of) Red Hook, anch’essa totalmente slegata, priva di un costrutto, di un senso ultimo. Un po’ meglio va con The Nameless City, comunque troppo lunga, mentre in Strange High House il riff iniziale proprio non lega con il resto del brano, fino al ricomparire del sax in sottofondo che cozza clamorosamente con la base e con i suoni del sintetizzatore, peraltro su una tonalità completamente errata (effetto forse voluto, ma non per questo piacevole), fino all’assolo finale anch’esso apparentemente appeso lì, senza un vero perché. Si ha la spiacevole sensazione che la volontà di tenere insieme così tante influenze diverse ed arrangiamenti così complessi –o forse astrusi- sfugga completamente di mano alla band, che appare abbandonata a sé stessa, alle prese con strutture evanescenti e pretestuose, senza che una regia complessiva riesca a ricondurre il tutto ad un senso compiuto. In particolare, risulta abbastanza indecifrabile il lavoro in fase solista di Sparky Simmons, che sembra spesso addirittura fuori tonalità, in ritardo nelle entrate e fuori contesto nelle scelte musicali. In tutto questo, anche una canzone potenzialmente grandiosa come Times Unknown finisce per risultare sfilacciata e infarcita di sonorità cupe e campionate che non creano alcuna atmosfera, ma al contrario dimostrano tutta l’immaturità compositiva di chi li ha generate e incastrate forzosamente nel tessuto del brano. La title track è forse il brano più propriamente definibile come space rock, anche se l’atmosfera cupa e ossessiva tipica della band resta centrale e caratterizzante, stavolta con un equilibrio superiore. Stessa cosa può dirsi della successiva e conclusiva Doom of Sarnath nella quale a prevalere è invece un pesante e ossessivo riff di chitarra, con il cantato di Martyr Lucifer che si esalta su una base finalmente e pienamente evocativa e dannata. Peccato che l’impennata arrivi solo con gli ultimi brani, quando ormai si possono solo ridurre i danni.
Non basta giocare ai giovani alchimisti e decidere di voler mettere assieme prog, dark sound, doom, space e hard rock, con una spruzzata di modernità data dai sintetizzatori, per realizzare un qualcosa di artisticamente valido e purtroppo The Other Gods lo dimostra appieno, nonostante le premesse e nonostante sia palese che le potenzialità di fondo ci siano e aspettino solo un produttore degno di questo nome che le sappia tirare fuori. Al momento, il tutto risulta essere il classico passo più lungo della gamba e pur volendo riconoscere agli Space Mirrors l’onore delle armi per l’impegno profuso e per le potenzialità che il progetto mostra nel suo complesso, non si possono sottacere i limiti evidenti a livello di songwriting, arrangiamenti e produzione. Si può e si deve fare di meglio col materiale a disposizione, scegliendo un genere nel quale così tanti e grandi capolavori sono stati scritti nel tempo. Giocare ad essere i nuovi Hawkwind o Ozric Tentacles o Black Widow è dannatamente difficile e per riuscirci nel 2013 è indispensabile che tutto funzioni al meglio e sia sottoposto al controllo di una regia efficace e capace di esaltare le qualità dei singoli, ma soprattutto è indispensabile un songwriting ispirato ed evocativo. Cosa che in The Other Gods si riscontra troppo poco spesso, in particolare nella parte centrale dell’album davvero troppo fuori fuoco in ogni sua componente. Da rivedere e risentire, per il momento siamo molto lontani dalla sufficienza, nonostante si colgano diversi elementi positivi che potrebbero in futuro regalare grandi soddisfazioni.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Stranger in the Mirror 2. The Nameless City 3. She-Devil 4. Frozen City of Cubes and Cones 5. (The Case Of) Red Hook 6. Strange High House 7. Times Unknown 8. The Other Gods 9. Doom of Sarnath
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Line Up
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Martyr Lucifer (Voce, tastiera su traccia 1) Sparky Simmons (Chitarra, Chitarra acustica 12 corde) Alisa Coral (Tastiera, Sintetizzatori, Voce su traccia 5) Gabriel Monticello (Basso) Claudio Tirincanti (Batteria, Percussioni)
Musicisti Ospiti Nik Turner (Sassofono, flauto in tracce 4, 6, 7) Bless (Piano su traccia 7) Cyndee Lee Rule (Sezione di archi su traccia 4) Fabio "Amon 418" Bartolini (Chitarra su traccia 1) Dr. James Hodkinson (Mellotron, Moog su traccia 1)
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