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MITOLOGIA, LETTERATURA E METAL - #10 – La musica tra le Dune (Parte prima)
01/06/2022 (2040 letture)
Il 2021 che abbiamo da qualche mese salutato è stato l’anno di tanti avvenimenti, alcuni dei quali certamente spiacevoli, altri più graditi. Per chi scrive, pur nella sua leggerezza, il ritorno al cinema di Dune rientra nella seconda categoria. Abbiamo colto l’occasione per fare un salto nel mare magnum del novero di artisti legati ai nostri generi preferiti che, affascinati dal pianeta Arrakis, hanno deciso di viaggiarvi con la fantasia (che è un modo abbastanza comodo per evitare di morire disidratati o a causa di irreparabili ustioni cutanee), tornando in questo mondo con delle idee da tramutare in musica. Consigliamo a chi non avesse ancora letto il libro di fare attenzione a non rovinarsi l’esperienza e di farsi un favore recuperando almeno il romanzo originale. Magari, con un brano adatto a far da colonna sonora alla lettura.


“La buona creanza viene dalle città, la saggezza dal deserto.”

Nel 1957, un reporter originario di Tacoma, Washington, si ritrovò ad osservare le bianche distese del deserto litoraneo dell’Oregon; spazzata dai venti estivi, che l’accarezzano ruvidamente alla velocità di circa venti chilometri orari, accumulata nel corso dei millenni dai moti delle acque del Pacifico e plasmata dalle tempeste originate dai venti del Sud, la sabbia forma in quell’area la più grande distesa di dune costiere degli Stati Uniti d'America; le alte creste sedimentarie sfiorano, in alcuni casi, i centocinquanta metri d’altezza, e occupano orizzontalmente una superficie di circa trenta chilometri quadrati all’interno della cosiddetta Oregon Dunes National Recreation Area, alternando i citati cumuli di quarzo e feldspato a distese cristalline e pericolose sabbie mobili. Ma torniamo al nostro reporter: affascinato dallo scenario magistralmente creato dalla Natura dinanzi ai suoi occhi, insieme maestoso e spietato, ma forse ancor più colpito dal tentativo dell’uomo di arginare l’imprevedibilità delle sabbie attraverso l’azione stabilizzante di specie vegetali importate come l’ammofila arenaria e la ginestra, quel giornalista ebbe una visione. La visione di un futuro lontano, di un’umanità che ha colonizzato lo spazio, di un pianeta ostile al centro di un conflitto dapprima politico ma soprattutto ecologico. Quell’uomo, l’avrete capito, era Franklin Patrick Herbert Jr., meglio noto come Frank Herbert, e dalla sua visione nacque uno dei più importanti romanzi di fantascienza nel panorama letterario contemporaneo, Dune.
Dopo diversi anni di ricerche e di preparazione, necessari per la sua stesura, la prima metà del libro fece la sua comparsa nel 1963 sulla rivista statunitense Analog Science Fiction and Fact, o Analog, con il titolo Dune World, mentre per la seconda parte fu necessario aspettare il 1965, quando sulle medesime pagine vide la luce The Prophet of Dune. in quello stesso anno, l’opera venne pubblicata in volume unico con il suo titolo definitivo, e, da quel momento, senza paura di essere eccessivamente retorici, l’immaginario fantascientifico moderno venne cambiato per sempre. Dune non raccontava soltanto la storia del giovane Paul Atreides, il protagonista dell’opera; le pagine di Herbert costruivano e davano vita ad un intero universo narrativo, fatto di pianeti inesplorati, potenti famiglie feudali, intrighi di corte, viaggi interstellari, antichi ordini monastici… il tutto per parlare in verità – come sempre accade nei migliori titoli del genere – della realtà umana. Della politica e il suo riflesso sulle società umane, dell’incontro-scontro tra culture differenti, della religione usata come strumento di controllo delle masse, della cura per il pianeta che abitiamo e della preziosità delle sue risorse, e - in tutto questo - del percorso di un ragazzo chiamato ad affrontare tali questioni, cruciali nel suo viaggio per diventare uomo.

“ All'inizio, è indispensabile porre ogni cura nello stabilire i più esatti equilibri. Ciò è ben noto ad ogni sorella Bene Gesserit. Così, nell'intraprendere lo studio della vita di Muad'Dib, conviene per prima cosa collocarlo esattamente nel suo tempo: egli nacque nel cinquantasettesimo anno dell'imperatore Paddiscià Shaddam IV. Cura ancora maggiore va usata nel collocare Muad'Dib nel suo giusto luogo: il pianeta Arrakis. Non ci si deve lasciar ingannare dal fatto che egli sia nato su Caladan e vi abbia trascorso i suoi primi quindici anni. Arrakis, il pianeta noto come Dune, è la sua patria, per sempre.”
Finito come dicevamo nel 1965, il romanzo di Herbert ha seguitato a vivere fino ai giorni nostri. Non solo per il recente film diretto da Denis Villeneuve, al precedente e controverso lavoro di David Lynch del 1984, o alla serie di libri che hanno dato seguito all’universo narrativo che il volume originale introduceva appena, bensì anche grazie alla musica. Sì, perché le vicende di Paul tra i Fremen hanno ben presto preso vita, distaccandosi dalla loro prigione di carta e inchiostro per animare la fantasia e la creatività di numerosi artisti, ascrivibili a differenti generi: il tastierista jazz David Matthews compose nel 1977 Dune, un album che si apriva con un’omonima, lunga, suite in quattro movimenti dedicata proprio al nostro pianeta desertico preferito (in caso amiate Tatooine, va bene lo stesso); Richard Pinhas, con il suo Chronolyse (1978), dedicava nove tracce di musica elettronica all’ordine sacro delle Bene Gesserit, al giovane protagonista del romanzo e al suo maestro d’armi Duncan Idaho; il compositore tedesco Klaus Schulze, tristemente scomparso lo scorso 26 aprile, diede alle stampe un anno più tardi un album di due soli brani, uno per lato, intitolato anche questa volta Dune, con la traccia che dava il titolo al disco che si caratterizzava per le sue sonorità vicine all’ambient; nel 1981, fu il turno della band prog francese Dün, che pubblicò il suo album di debutto, nonché unico disco, Eros, la cui seconda traccia si intitola esplicitamente Arrakis.
Ma dove si collocano il rock duro e il metal rispetto a Dune? E prima ancora, come si poneva Herbert nei confronti del rock e del metal? La storia è sicuramente già nota a molti, ma, per parlarne a chi ancora non la dovesse conoscere, andiamo a introdurre la prima band heavy metal di queste pagine. E quale band potrebbe essere, se non il gruppo più famoso ad aver mai dedicato un brano all’opera herbertiana? Stiamo parlando ovviamente degli Iron Maiden, e della loro Dun… ehm, To Tame a Land. Siamo nel 1983, e il quintetto dell’East End londinese si appresta a dare un seguito all’acclamato The Number of the Beast, uscito l’anno precedente, con l’atteso Piece of Mind. Per chiudere il disco, lo storico leader e bassista della Vergine di Ferro Steve Harris scrive un brano dedicato proprio al romanzo fantascientifico in questione, intitolandolo Dune: il gruppo diede alle stampe le prime copie dell’LP, le quali riportavano l’attuale tracklist, con l’eccezione della traccia di chiusura del Lato B, intitolata per l’appunto allo stesso modo del romanzo (e con la durata di 7:37 minuti); alcuni fortunati in Italia possiedono la loro copia in vinile con la tracklist originale - chiedere al nostro Francesco Gallina "Raven" per credere. Chiunque abbia acquistato il disco dalla metà del 1983 in poi, tuttavia, possiederà una copia che riporta To Tame a Land (durata 7:26 minuti) come titolo dell’ultima canzone: questo cambio in corso d’opera fu dettato dal rifiuto da parte di Herbert di concedere a Harris e compagni la possibilità di utilizzare il titolo del romanzo come titolo per una canzone, ottenendo la seguente risposta dal management dell’autore:

“A Frank Herbert non piacciono le rock band, in particolar modo le heavy rock band, e specialmente le heavy rock band come gli Iron Maiden.”

È plausibile che la specificazione finale fosse legata alle accuse di satanismo rivolte al gruppo britannico negli Stati Uniti d’America dopo la pubblicazione del già citato The Number of the Beast; a nulla valsero i tentativi del bassista e autore del brano di spiegare allo scrittore la vera natura del gruppo, lontana dalle ridicole calunnie che imperversavano tra i gruppi degli angosciati genitori statunitensi e i drappelli di parrocchiani desiderosi di mettere al rogo qualche LP, e di suggerire come la canzone potesse essere un buon modo di far conoscere il libro presso più larghe fasce di pubblico: i Maiden furono costretti a cambiare il titolo del brano, pena il ricorso in sedi legali da parte degli agenti del romanziere.
Anche senza il titolo ad esplicitarne il contenuto, tuttavia, il testo della canzone risulta limpido nei suoi rimandi per chiunque abbia conosciuto le vicende del giovane Paul Atreides e ne abbia seguito pagina dopo pagina il tentativo di riportare le terre sotto il controllo (appunto) della sua casata e dei nativi Fremen:

“He is the King of all the land
In the Kingdom of the sands
Of a time tomorrow
He rules the sandworms and the Fremen
In a land amongst the stars
Of an age tomorrow
He is destined to be a King
He rules over everything
In the land called planet Dune
Body water is your life
And without it you would die
In the desert the planet Dune, oh!”


Un riff onirico e vagamente orientaleggiante apre il brano, suggerendoci senza bisogno di parole che la vicenda si svolgerà in un luogo e in un tempo lontani – se vi è venuto in mente George Lucas, beh, non è un caso, ma questa è un’altra storia… - e poco dopo le chitarre di Dave Murray e Adrian Smith, sorrette dal basso del già citato Steve Harris e dall’allora neo-arrivato Nicko McBrain dietro le pelli, ci introducono ad un ritmo marziale, evocativo del conflitto che bagna nel sangue la storia che la voce di Bruce Dickinson si appresta a raccontare.
Dopo un’introduzione strumentale di poco più d’un minuto, la penna harrisiana ci getta immediatamente nel vivo della vicenda, con un Dickinson impegnato a districarsi in difficili versi dal ritmo serrato, in cui compaiono già tutti gli elementi necessari a riconoscere l’ispirazione herbertiana del pezzo. Il primo verso, pur senza mai farne il nome, subito identifica il giovane Paul, unico erede del defunto Duca Leto Atreides e legittimo governatore del pianeta Arrakis (ci arriveremo, nella canzone), conosciuto da tutti nell’Impero Galattico con il nome di Dune per la sua composizione quasi esclusivamente sabbiosa e il clima estremamente torrido. Curiosamente, Harris ci presenta il personaggio già alla fine del suo percorso di crescita: nel primo romanzo del ciclo fantascientifico, infatti, è solo dalla terza parte del libro in poi che Paul si può a tutti gli effetti definire capo della popolazione nativa dell’arido globo, scacciata e temuta dall’Impero, i Fremen, momento in cui ha ormai imparato a domare anche i mastodontici vermi delle sabbie, che – non nel brano – prendono anche il nome di “Shai-Hulud” (un termine realmente esistente in lingua araba: شيء خلود, traslitterato in “šayʾ ḫulūd”, si può approssimativamente tradurre come “essere immortale”) o “Creatori”, dai Fremen considerati manifestazioni di Dio, tanto essenziali nel caratterizzare l’ecosistema planetario quanto temibili per ogni creatura vivente inoltratasi nelle lande bruciate dal sole. Ebbene, il pezzo - fin dalla prima strofa – pone in evidenza una delle caratteristiche più importanti del romanzo: la quasi totalità dell’avventura si svolge su un pianeta quanto più ostile alla vita si possa immaginare (“Body water is your life/And without it you would die”); muoversi alla luce del sole è quasi impossibile a causa delle eccessive temperature, l’acqua e la vegetazione sono quasi del tutto sparite dalla biosfera, generando in sostanza un unico identico ecosistema fatto di sabbia, rocce e calore. Dune non deve il suo successo al solo essere un romanzo di fantascienza ben scritto: gli storici britannici Farah J. Mendlesohn ed Edward James, nel loro The Cambridge Companion to Science Fiction, hanno definito l’opera herbertiana come “il primo romanzo di ecologia planetaria su larga scala”; in altre parole, è impossibile per il lettore immedesimarsi nelle vicende raccontate senza pensare “Diavolo, se solo il pianeta e i suoi abitanti potessero godere di acqua e risorse naturali!”. La storia raccontata porta necessariamente chi legge a confrontarsi con le opportunità concesse alla vita da parte di un pianeta rigoglioso come quello di cui disponiamo, il quale andrebbe valorizzato e rispettato, e non condotto alla desertificazione e al totale depauperamento delle sue disponibilità. In letteratura, mai come nell’universo di Dune l’acqua, quella che troppo spesso consideriamo banale e illimitata acqua, è stata così stretto sinonimo di vita stessa, e l’incipit della seconda strofa ce lo ricorda ancora:

“Without a still suit you would fry
On the sands so hot and dry
In a world called Arrakis
It is a land that's rich in spice
The sand riders and the mice
That they call the 'Muad'Dib'
He is the Kwisatz Haderach
He is born of Caladan
And will take the Gom Jabbar
He has the power to foresee
Or to look into the past
He is the ruler of the stars”


Nella seconda strofa del brano, Harris decide di complicare la vita all’Air Raid Siren infilando il maggior numero di riferimenti specifici al libro – all’universo narrativo herbertiano tutto, se vogliamo – rendendo felici i fan interessati a cogliere ogni citazione ad elementi dell’opera e rendendo contemporaneamente molto confusi coloro che non hanno assolutamente idea di cosa stia uscendo dal loro impianto. I versi riportati qui sopra potrebbero davvero fungere da “glossario base di Dune”, a partire dalle preziose tute distillanti (abbiamo già detto che su Arrakis fa caldo? Queste tute sono necessarie a limitare la dispersione dell’umidità corporea e a rimettere in circolo i fluidi corporei dopo averli, appunto, distillati e purificati, limitando la necessità dell’approvvigionamento idrico), passando per il nome originale del pianeta e arrivando alla preziosa… spezia. La spezia, o “mélange”, è una delle sostanze più importanti dell’universo immaginato da Herbert per la sua epopea spaziale; sottoprodotto del ciclo vitale del verme delle sabbie, e dunque reperibile solo su Arrakis, la sostanza è una droga in grado di fornire capacità sovrumane a chi si ritrovasse ad ingerirla o inspirarla: innanzitutto, il suo uso tende ad allungare la vita di coloro che l’assumono; inoltre, l’esposizione alla sostanza conferisce ad individui predisposti potenti doti di chiaroveggenza (i tempi di Seventh Son of a Seventh Son, The Clairvoyant e The Prophecy distavano ancora qualche anno, ma la band faceva già le sue prove…), sfruttate dai piloti della Gilda spaziale per permettere l’elaborazione delle rotte interstellari - in altre parole, senza spezia il viaggio spaziale è sostanzialmente impossibile; caratterizzata da un forte sapore ed odore di cannella, viene usata anche per insaporire i cibi o lavorata per ottenere una fibra adatta alla creazione di tessuti. Di contro, l’assuefazione alla sostanza genera agonia e morte certa a chi ne fosse privato e l’uso prolungato determina deformazioni fisiche irreversibili, la prima delle quali una luminosa colorazione blu della sclera oculare. Stando a quanto rivelato dal micologo statunitense Paul Stamets, Herbert pare aver tratto l’idea della spezia dalle sue esperienze con la psilocibina, una sostanza stupefacente estratta da alcune specie di funghi allucinogeni; tuttavia, data la natura ecologista del romanzo, è difficile che un regime imperialista che invade e occupa militarmente terre abitate da popolazioni presentate come pericolose e “incivili”, date le loro usanze culturalmente distanti, al fine di ottenere il controllo su una risorsa naturale necessaria ad alimentare la propria economia non ricordi al lettore eventi della più o meno recente Storia umana, perfettamente terrestre e reale.
Andando avanti, troviamo una “carrellata” di nomi esotici, sicuramente ignoti per chiunque non abbia familiarità con la materia che stiamo trattando, e che per questo tentiamo di chiarire al meglio in queste righe. Il piccolo topo delle sabbie chiamato “Muad'Dib” è lungi dall’essere solo un animaletto insignificante: è infatti il nome che Paul affianca al proprio una volta intrapresa la propria strada nel deserto, fra le genti dei Fremen; è insieme simbolo dell’accoglienza del giovane Duca da parte della popolazione indigena e dell’accettazione culturale di questi nei confronti delle usanze e tradizioni a lui dapprima sconosciute. “Kwisatz Haderach” (credo che nei quasi quarant’anni passati dall’uscita di Piece of Mind non si siano ancora fatti abbastanza complimenti a Bruce Dickinson per averlo cantato senza incespicare all’interno del brano) è un termine che Herbert ha presumibilmente tratto dall’ebraico קְפִיצַת הַדֶּרֶךְ, traslitterato in “Kfitzat haDérech”, espressione che significa "salto nel cammino", una perifrasi per la parola “scorciatoia”; tradotto con “Colui che abbrevia la strada” nell’universo fantascientifico di Dune, è una figura messianica attesa dall’Ordine sacro Bene Gesserit (a cui appartiene Lady Jessica, madre di Paul), che si differenzia dalla tipologia letteraria o cinematografica standard del personaggio – pensiamo ad esempio al già menzionato “Settimo figlio” dei romanzi di Orson Scott Card, ma andrebbe bene anche la figura di Anakin Skywalker, ideata dal già menzionato Lucas e che molto deve a Paul Atreides - per il fatto che il suo arrivo non risulti affatto frutto del caso o di un intervento divino, bensì sia figlio di segrete pratiche eugenetiche portate avanti dalla sorellanza del Bene Gesserit per secoli, mirate all’ottenimento di un individuo di sesso maschile dotato di tutti i poteri mentali propri delle più alte cariche dell’Ordine, in grado di prevedere tutti i possibili futuri del genere umano e capace così di indirizzarne le sorti sulla strada per la sopravvivenza e la prosperità; per chi non avesse già fatto il collegamento, beh, lo Kwisatz Haderach è lo stesso Paul, ma più interessante di sapere chi si identifichi con questa complicata espressione risulta essere una riflessione sul modus operandi dell’ordine religioso sopra citato: ogni avvenimento “mistico”, sovrannaturale – l’avvento di un messia! – in Dune accade perché nascostamente programmato, a fianco di secoli di costruzione di superstizioni e credenze da parte dei diversi ordini religiosi che popolano l’epopea sci-fi. Herbert, che improvvisamente inorridisce di fronte alle possibili accuse di satanismo nei confronti degli Iron Maiden, ha voluto dare un forte messaggio anti-religioso alla sua opera? Sì e no. No, nella misura in cui la venerazione e la fede in un Dio comportino pratiche che dettino una morale secondo cui condurre la propria vita, a cui aggrapparsi nei momenti di disperazione, a cui rifarsi per vivere in armonia con il mondo creato da quella stessa entità trascendentale. Sì, quando la religione diviene mero strumento in mano all’uomo manipolatore e interessato a sfruttare l’ignoranza e il fanatismo per plasmare a proprio piacimento le masse; è un discorso che non si estende alla sola religione: forte è il messaggio di messa in guardia dall’odiosa pratica di culto del leader, dalla cieca obbedienza a una figura ritenuta o imposta come superiore, e lo stesso Paul, lo Kwisatz Haderach annunciato dalle profezie, il messia atteso dal popolo Fremen, dovrà fare i conti con le responsabilità che il ruolo che gli è stato addossato comporteranno, compiendo una scelta di fronte al bivio che separa la guida al servizio della propria gente dal tiranno pronto a tramutare i più bassi istinti della stessa in violenza zelante volta al consolidamento del proprio potere.
Chiudiamo brevemente su Caladan, pianeta natale della casata Atreides e sul Gom Jabbar, una crudele ordalia usata dall’Ordine Bene Gesserit per stabilire se un potenziale Kwisatz Haderach possa essere considerato tale o debba essere scartato (leggasi ucciso) in quanto “abominio genetico”.

Il break strumentale che si apre successivamente alla seconda strofa consegna lo scettro della canzone nelle mani dell’ottima sezione ritmica intessuta da Steve Harris e da Nicko McBrain, che da qui alla fine del pezzo saranno assoluti protagonisti – senza nulla togliere alla prova dickinsoniana sulle due strofe finali e agli ottimi assoli della coppia d’asce Murray-Smith, per chi scrive garanzia di grande musica ancora oggi ma indiscutibilmente eccezionali proprio nel loro affiatarsi e consolidarsi album dopo album nel corso degli Anni Ottanta. Le già citate strofe finali, di seguito riportate per completezza, preannunciano il destino vittorioso di Paul nella sua ricerca di riscatto contro l’Impero galattico e la liberazione del popolo oppresso che lo ha accolto tra le proprie fila; l’esplicito riferimento messianico del testo risulta essere una citazione al seguito di Dune, Dune Messiah (Messia di Dune in italiano), pubblicato da Herbert nel 1969.

“The time will come for him
To lay claim his crown
And then the foe
Yes, they'll be cut down
You'll see, he'll be
The best that there's been
Messiah supreme
True leader of men

And when the time
For judgment's at hand
Don't fret, he's strong
He'll make a stand
'Gainst evil and fire
That spreads through the land
He has the power
To make it all end”


Con uno dei migliori brani della loro allucinante discografia ottantiana (“This is the best song I’ve ever written. I was really pleased with Phantom of the Opera, but now I have to say that this is the best.”, parola di un soddisfatto Steve Harris ai tempi della pubblicazione dell’album), gli Irons chiudono lo splendido Piece of Mind e ci consegnano uno dei pezzi più celebri della musica tutta, non solo del panorama metallico, riguardante la grande opera di Herbert. Per chi scrive, ma forse non sono il solo in questo, il primo punto di contatto con la grande opera di Herbert, segno che nel bene o nel male ad avere avuto ragione sono stati proprio i cinque (oggi sei) musicisti londinesi. Alla fin fine, un titolo è un titolo, e forse To Tame a Land risulta persino più significativo del primo, scelto in origine, calco di quello del libro.

“Muad'Dib imparò rapidamente perché il suo primo addestramento consisteva appunto nel saper imparare. È sconvolgente scoprire quanti ancora non credono di poter imparare e quanti, ancora, credono che imparare sia difficile. Muad'Dib sapeva che ogni esperienza porta in sé una lezione.”
Per concludere, sebbene la ricaduta della scelta sulla celebre canzone maideniana fosse sostanzialmente ovvia (e cronologicamente accurata) per introdurre un discorso che legasse Dune al nostro genere musicale preferito, è altrettanto scontato come il gruppo dell’East End non sia stato il solo a lasciarsi affascinare dalle cocenti sabbie e dagli intrighi politici raccontati con maestria dalla penna di Tacoma; tuttavia, un articolo su Metallized non è un libro, né l’intenzione del suo autore è quella di logorare il già tenace lettore arrivato sino alla fine. È per questo che, per conoscere nel dettaglio cosa i Bardi capitanati da Hansi Kürsch, il vulcanico mastermind di Ayreon e Star One Arjen Lucassen e molti altri abbiano avuto da dire in merito alle vicende di Paul Atreides e dei suoi discendenti, vi rimandiamo alla prossima puntata…



Painkiller
Giovedì 9 Giugno 2022, 22.08.49
13
Va beh, solo perché è Natale 🤣
progster78
Giovedì 9 Giugno 2022, 20.16.16
12
Painkiller, forse ho un po' esagerato a dire non sopporto,ma gli preferisco Rime...e Alexander The Great. To Tame A Land ha vari cambi di tempo e sfumature varie ma non riesce a convincermi del tutto...perdonatemi 😄
Tino
Giovedì 9 Giugno 2022, 18.41.42
11
Non le definirei così statiche visto che sono soliti cambiare in base ai tour, di volta in volta, forse ci sono delle ridondanze che potevano essere evitate almeno in questo tour, tipo sign of the cross o revelations, ma lì secondo me entrano in gioco i gusti della band. Tra l'altro il 2022 poteva essere una buona occasione per celebrare il 40nnale del loro capolavoro dell'82… ma va bene così. Tornando a to tame a land la cosa che stona del commento del progster non è il fatto che non la sopporta, questo ci sta, ma il fatto che si giustifica con un qualitativamente inferiore, affermazione che è puramente un'opinione ma non un fatto. Io penso che i loro pezzi più prog sono tutti splendidi poi ci sono quelli che per un motivo o unaltro piacciono di più, comunque non sono uno di quelli che brama per il pezzo in sede live, men che meno una Alexander the great...de gustibus
Painkiller
Giovedì 9 Giugno 2022, 12.17.17
10
@Progster: colpo al cuore, è la prima volta che leggo di qualcuno che non sopporta To Tame a Land! Pensa che, insieme ad Alexander the Great è il pezzo che viene citato da tantissimi fans come quello che vorrebbero di più risentire live e che, complice la staticità delle scalette Maideniane, non possiamo mai sentire…
Tino
Martedì 7 Giugno 2022, 20.46.08
9
Per me invece è uno dei più belli, forse persino meglio di rime
progster78
Martedì 7 Giugno 2022, 18.53.38
8
Tino,certamente sarà anche un pezzo progressivo ma qualitativamente inferiore ad altri brani di lunga durata e progressivi allo stesso tempo dei Maiden.
Tino
Martedì 7 Giugno 2022, 17.15.14
7
Per uno che si fa chiamare progster avrei piu pensato a die with your boots on, to tame è uno dei pezzi più progressivi della band
progster78
Martedì 7 Giugno 2022, 13.54.59
6
Pur amando moltissimo Piece Of Mind non sopporto To Tame A Land...fucilatemi pure.
Elluis
Martedì 7 Giugno 2022, 8.36.26
5
Anche a Keith Richards fa schifo il metal, nella sua autobiografia lo ribadisce più volte, anche se negli anni è diventato amico di molti musicisti del genere... primi fra tutti Angus e Malcolm Young con cui hanno fatto spesso delle jam sessions sul palco, quando gli AC/DC fecero da supporto agli Stones.
McCallon
Lunedì 6 Giugno 2022, 17.54.22
4
Orca miseria, non so più neanche leggere
Carlos Satana
Lunedì 6 Giugno 2022, 17.02.43
3
Satana, non Santana! Ho sempre inteso, in questo caso, gli Iron Maiden come emblema del metal. Era proprio il rock in generale a non piacergli, quindi ancor prima che gli Iron Maiden nascessero (e intendo loro fisicamente)!
McCallon
Lunedì 6 Giugno 2022, 16.51.34
2
Assolutamente, Mr. Santana (è un onore averLa qui su Metallized! ); a parte gli scherzi, la considerazione era legata al fatto che il management specificò "specialmente le heavy rock band come gli Iron Maiden".
Carlos Satana
Lunedì 6 Giugno 2022, 10.41.39
1
Frank Herbert era nato nel 1920, nel 1983 aveva 63 anni. Ora, non è difficile ipotizzare che un uomo della sua generazione provasse ribrezzo per il metal. Sarebbe anzi stato singolare il contrario.
IMMAGINI
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La Copertina
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Dune - David Matthews (1977)
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Dun - Eros (1981)
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Piece of Mind - Iron Maiden (1983)
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Dune - Klaus Schulze (1979)
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Chronolyse - Richard Pinhas (1978)
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