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17/10/24
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SLAUGHTER CLUB, VIA ANGELO TAGLIABUE 4 - PADERNO DUGNANO (MI)
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MITOLOGIA, LETTERATURA E METAL - #11 – La musica tra le Dune (Parte seconda)
24/09/2024 (632 letture)
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Il febbraio di quest’anno ha segnato l’uscita di uno dei cosiddetti film-evento del 2024: con questa espressione si indicano film ad alto costo, lanciati con grandi campagne promozionali e destinati a catalizzare l'attenzione del pubblico prima, durante e dopo il loro arrivo nelle sale; francamente, non viene in mente una ragione per non definire così Dune - Parte Due, seguito del fortunato Dune di Denis Villeneuve, del 2021. In questo nuovo numero della nostra rubrica “MITOLOGIA, LETTERATURA E METAL” torniamo anche noi con una “Parte Due”, dedicata a quegli artisti legati ai nostri generi preferiti che, affascinati dal pianeta Arrakis, hanno deciso di viaggiarvi con la sola forza della loro creatività, di uno strumento musicale e di uno spartito. Consigliamo a chi non avesse ancora letto Dune di Frank Herbert di fare attenzione a non rovinarsi l’esperienza, e di farsi un favore recuperando almeno il romanzo originale. Magari, con un brano adatto a fare da colonna sonora.
“Muad'Dib poteva veramente vedere il futuro, ma il suo potere aveva dei limiti. Pensate alla vista: voi avete gli occhi, ma non potete vedere senza la luce. Se vi trovate sul fondo di una valle, non potete vedere oltre i monti. Nello stesso modo Muad'Dib non poteva guardare sempre nel misterioso territorio dell'avvenire. Egli ci dice che una singola, oscura decisione profetica, forse la scelta di una parola invece di un'altra, potrebbe cambiare l'intero futuro. Ci dice anche: "La visione del tempo è immensa, ma, quando l'attraversate, il tempo diventa una porta molto stretta". Egli sempre fuggiva la tentazione di scegliere una via chiara e sicura, e ammoniva: "Questo sentiero conduce ineluttabilmente alla stagnazione".”
Nel 2022, nello scorso capitolo di questa serie, avevamo cominciato a trattare l’influenza avuta da Dune, nonché dai suoi seguiti che ne costituiscono il Ciclo, sulla scena rock e metal nel corso degli anni. Impossibile non citare To Tame a Land degli Iron Maiden, chiaramente, ma spostandoci dalla via chiara e sicura della musica dura, e mescolandoci con terreni musicali che nel tempo avrebbero affascinato anche le band dei nostri generi preferiti, avevamo trovato il jazz di David Matthews, l’elettronica di Richard Pinhas, il prog dei Dün… anche stavolta, prima di passare al piatto forte di questo articolo, è conveniente – e rispettoso di un auto-imposto ordine cronologico – menzionare una band che non si potrebbe definire “metal”, ma che al contempo nessuno avrebbe il coraggio di ostracizzare da queste pagine: i Toto. Certo, perché mentre gli Iron Maiden uscivano con il loro Piece of Mind nel 1983, del quale To Tame a Land fungeva da eccellente traccia di chiusura, un giovane David Lynch - che già si era fatto notare per aver diretto l’orridamente onirico Eraserhead (1977) e per il malinconico e potente The Elephant Man (1980) – era alle prese con un kolossal fantascientifico, prodotto da Universal Pictures e Dino De Laurentiis, che mirava a inserire in poco più di due ore di pellicola tutta l’epopea dell’“atreide” Paul Muad'Dib narrata da Frank Herbert nel suo Dune. A comporre e suonare la colonna sonora del film, proprio i Toto, coadiuvati da un certo Brian Eno alla produzione e – data la natura strumentale del disco – privi dell’oggi compianto cantante Dennis “Fergie” Frederiksen, rimasto in formazione solo tra il 1984 e il 1985, registrando il solo Isolation con la band statunitense. Figlio di un ispirato David Paich, che aveva firmato la quasi totalità delle tracce della colonna sonora, l’album vedeva il gruppo losangelino affiancato dal coro del teatro viennese Wiener Volksoper, guidato da Marty Paich, padre di David, e dall’orchestra Wiener Symphoniker (una curiosità: insieme ai Toto e Eno, con questa pellicola debuttava al cinema anche il compositore James Newton Howard, che poi avrebbe firmato le colonne sonore di film come Pretty Woman, Il fuggitivo e Un giorno di ordinaria follia tra gli altri). Dune, uscita sul finire del 1984 per la casa discografica Polydor Records, sarebbe stata la prima e ultima colonna sonora realizzata dal gruppo fondato da Paich e Jeff Porcaro, e sicuramente una valida aggiunta per la collezione di chiunque sia interessato a esplorare le lande desertiche di Arrakis non solo tramite i libri e il cinema, ma anche attraverso la musica. Correndo veloci come un cavaliere delle sabbie tra le dune, prima di passare oltre, rimaniamo nei territori del rock per citare un’altra formazione che, in qualche modo, è stata toccata, anche se solo marginalmente, dall’influenza dell’opera herbertiana: certamente meno noti al grande pubblico dei Toto, i Giant Sand nascono sul finire degli Anni Settanta, a Tucson, in Arizona (USA), dalla mente di Howe Gelb, ma debuttano proprio nel periodo che stiamo trattando, con Valley of Rain del 1985. Ebbene, se il disco non conteneva sostanziali riferimenti alle pagine del romanzo, la band stessa prevedeva, nel suo nome, un grosso richiamo all’immaginario che da quelle pagine prendeva vita: il gruppo, infatti, che debuttava sotto il monicker Giant Sand, era nato chiamandosi “Giant Sandworms”, un chiaro omaggio di Gelb ai cosiddetti “Shai-Hulud”, i giganti vermi delle sabbie, per l’appunto, che popolano il pianeta Arrakis e che avevamo già etimologicamente introdotto nella prima parte di questa serie di articoli, reperibile con il link di cui sopra. E l’omaggio, assente dal punto di vista lirico, non si sarebbe fermato al primo nome del combo americano, sfociando anche nella musica composta, influenzata dagli evocativi paesaggi di un’assolata e polverosa Arizona e dall’acid rock psichedelico californiano, così come Herbert pare essere stato influenzato dalle sue esperienze con la psilocibina, sostanza allucinogena estratta da alcune specie di funghi, per introdurre il “mélange” – o “spezia” – tra i concetti fondamentali della sua opera.
“Kwisatz Haderach: “la Via più Breve”. Questo è l’appellativo di cui il Bene Gesserit gratificò lo sconosciuto, che cercò di ottenere con una soluzione genetica: un maschio Bene Gesserit i cui poteri mentali potessero varcare, per costituzione organica, lo spazio e il tempo.”
La seconda metà degli Anni Ottanta, dal punto di vista degli intrecci tra Dune e la musica, scivolò via come passi sulla sabbia del deserto, senza lasciare tracce e impronte degne d’essere ricordate. In quegli stessi anni, però, in una terra certamente non nota per le sue piane aride e assolate, ossia il Länd tedesco della Renania Settentrionale-Vestfalia, nasceva e cresceva una band destinata a segnare profondamente la storia della musica pesante; una band, peraltro, che è fin da subito stata scelta come protagonista delle prime pagine di questa rubrica… stiamo parlando, naturalmente, dei “Bardi di Krefeld”, dei Blind Guardian. Di certo noti per i frequenti richiami alla Terra di Mezzo e al meraviglioso Ciclo Arturiano, o Bretone che dir si voglia, gli alfieri del power metal teutonico hanno costellato la loro discografia di rimandi, citazioni e ispirazioni a diversi romanzi fantasy o fantascientifici, dei quali il ciclo firmato da Herbert non fa eccezione. Come raccontato nella nostra recensione, sul nascere dell’ultimo decennio dello scorso secolo, la band tedesca si apprestava a dare alla luce un seminale lavoro in studio, il quale risponde al titolo di Tales from the Twilight World. È proprio questo disco – predecessore di pietre miliari come Somewhere Far Beyond, Imaginations from the Other Side e Nightfall in Middle-Earth, che ne avrebbero decretato il successo internazionale – a contenere l’unico tributo dei Bardi al ciclo herbertiano: la traccia d’apertura, intitolata Traveler in Time, riproposta frequentemente dal vivo nonché in versione remixata nella raccolta Memories of a Time to Come del 2012, ci offre il punto di vista del protagonista Paul Atreides - certo, secondo l’interpretazione dei compositori André Olbrich e Hansi Kürsch - sul suo ruolo messianico e sulle sue capacità profetiche, come di qui a poco vedremo più nel dettaglio.
“The morning sun of Dune The morning sun of Dune
The holy war's Waiting for The morning sun”
Non appena messa la puntina sul vinile, inserito il disco nello stereo o premuto Play sul lettore digitale, i ritmi marziali evocati dal drumming di Thomas Stauch catturano senza preavviso alcuno l’ascoltatore, mettendo subito in chiaro che ci troviamo ben distanti – per quanto vicini tematicamente – dalle atmosfere quasi oniriche che caratterizzavano l’apertura della canzone maideniana trattata in precedenza su queste pagine. Il tema della guerra, anzi della “guerra santa” (The holy war), viene da subito fatto centrale nella narrazione impostata dai Bardi per trattare il rapporto di Paul con i Fremen, con Arrakis, con il suo futuro. Il richiamo al sorgere del sole è ben più che un riferimento di tipo temporale e meteorologico: La guerra santa/ Sta aspettando /Il sole del mattino; ebbene, chi ha letto con attenzione il romanzo ben sa che i Fremen prediligono la notte per muoversi ed agire, a causa delle temperature torride che affliggono gran parte del pianeta durante le ore diurne: è dunque chiaro come il “sole del mattino” altri non sia che un richiamo metaforico alla figura messianica costituita dallo stesso Paul, che in tre anni – pochi mesi, se avete visto solo la recente rappresentazione cinematografica firmata da Denis Villeneuve - diverrà capo politico, militare e religioso, e poi liberatore, delle tribù native del pianeta, in una analogia pressoché perfetta con le attese proprie delle principali correnti spirituali giudaiche della figura del Messia (discorso radicalmente diverso per quanto riguarda la concezione cristiana del medesimo concetto, ma non è questa la sede per addentrarsi in questa disamina). Come vedremo, il tema della “guerra santa” tornerà a breve nei versi della canzone.
“The apparition of this land and its dream Makes me feel I have seen it before I can taste there is life Everywhere you can find In the desert of my life I see it again and again”
Superata la intro, giunti alla prima strofa, ancora non troviamo una traccia esplicita del viaggio nel tempo a cui fa riferimento il titolo, e ben presto ne vedremo il motivo. I versi sopra riportati ci introducono alla capacità di chiaroveggenza di Paul, la quale lo ha reso in grado di vedere il pianeta desertico di Arrakis in sogno e più volte, ben prima di trasferirvisi dalla sua terra natale, il pianeta oceanico Caladan. Sebbene la strofa in sé sembri non lasciare molto all’interpretazione, risulta liricamente necessaria al fine di presentare all’ascoltatore la prescienza del giovane protagonista dell’opera – e della canzone – e il tema, che risulterà poi centrale, della lontananza da casa; l’incontro con una cultura, un mondo e una vita differente non si limita alla ricorrente visione offerta dai sogni: la scelta di inserire un verbo come taste, riferito al gusto, fa ben comprendere come il contatto con questa nuova terra sia pieno, profondo, non superficiale, elemento confermato dall’analogia tra le lande desertiche del pianeta e la solitudine, metaforicamente definita “desertica”, in cui Paul vede immersa la sua vita a causa della sua condizione (the desert of my life), condizione su cui a breve faremo chiarezza.
“Dark tales has brought the Jihad Like whispering echoes in the wind And I'm a million miles from home”
La sezione che introdurrà poi il ritornello riprende il tema della “guerra santa”, che l’intro e la prima strofa avevano anticipato. Il termine scelto dai Bardi è esplicitamente Jihad, che nel romanzo viene in realtà utilizzato per fare riferimento a un conflitto armato avvenuto secoli prima dell’epoca in cui sono ambientati gli eventi che coinvolgono il giovane rampollo di Casa Atreides; il cosiddetto “Jihad Butleriano”, infatti, costituisce un evento dai contorni mitici che ha profondamente marcato i connotati dell’universo narrativo herbertiano: i lettori del romanzo, ma anche gli spettatori che si sono riuniti di fronte al grande schermo, sanno perfettamente che operazioni complesse come valutazioni strategiche, analisi territoriali ma soprattutto la determinazione di rotte per i viaggi spaziali non vengono mai demandate alla tecnologia e all’uso dei sofisticati computer che ci si aspetterebbe di trovare in un caposaldo del genere fantascientifico, bensì all’esperienza e alla ragione umana; questo perché – secoli prima delle vicende raccontate in Dune, come dicevamo poc’anzi – l’umanità si ribellò alle macchine che facevano affidamento su qualche tipo di intelligenza artificiale, poiché il loro eccessivo sviluppo era divenuto un pericolo per la specie; i dettami della Bibbia Cattolica Orangista, testo sacro ideato da Herbert per il romanzo, che esortavano l’uomo a non sfigurare la propria anima facendo eccessivo affidamento su qualcosa di esterno a sé, come per l’appunto macchine, calcolatori e IA, conferirono al conflitto il carattere di “guerra sacra”, da cui la scelta del nome “Jihad Butleriano” (per dovere di completezza, il riferimento a Butler è invece legato al fatto che Samuel Butler, romanziere britannico, fu il primo autore di narrativa a trattare di intelligenza artificiale nel suo romanzo Erewhon, del 1872; si tratta più che altro di un omaggio, da parte di Herbert, a un autore che evidentemente apprezzava particolarmente). Al netto di questa digressione, la parola araba جهاد, nelle lingue occidentali traslitterata in “Jihād”, ha diversi significati, benché venga popolarmente tradotta con l’espressione “guerra santa”: letteralmente, è traducibile come “sforzo, fatica”, e originariamente nell’islamismo, prima di essere corrotta dall’uso fatto dalle frange fondamentaliste a matrice terroristica, faceva riferimento al faticoso percorso spirituale verso il raggiungimento di una fede perfetta, di un conoscimento approfondito delle scritture e di un perfezionamento intellettuale (concetti che oggi vengono racchiusi dalla locuzione “Jihād superiore”). È chiaro che in questo passaggio del testo, la band di Hansi Kürsch e sodali non stia impiegando il termine in questa accezione, ma faccia piuttosto riferimento alla guerra di liberazione che i Fremen attendono di condurre contro l’Imperium, che opprime il loro pianeta natio, Arrakis/Dune, la quale ha anch’essa carattere sacro poiché possibile solo sotto la guida di una figura messianica come lo stesso Paul. E proprio il punto di vista di Paul è quello che viene adottato per tutta la canzone, come già abbiamo potuto riscontrare; il lamento della lontananza da casa, unito al richiamo della solitudine del protagonista incontrato nella strofa precedente, saranno più chiari alla luce del ritornello, indi per cui non indugiamo oltre e andiamolo a leggere, o, se preferite, ad ascoltare:
“Traveler in Time Knowing that there's no rhyme Traveler in Time Knowing that there's no rhyme”
Il “chorus”, invero molto semplice, risulta la chiave di volta – a livello interpretativo – su cui l’intero pezzo è imperniato; come menzionavamo in precedenza, finora nessun verso della canzone ha incluso rimandi al tema del viaggio del tempo, e, a ben pensarci, lo stesso vale per il romanzo di Herbert: difatti, non siamo dalle parti di Ritorno al futuro, Dragon Ball o Terminator, e lo scorrimento della trama di Dune è sostanzialmente unidirezionale. Paul Atreides, per quali che siano i suoi poteri, non si ritrova mai – mentre scala le gerarchie sociali e religiose dei Fremen – a viaggiare fisicamente nel tempo: la curiosa immagine scelta da parte dei Blind Guardian si spiega con capacità del nostro giovane protagonista di vedere il passato, il presente e il futuro, specialmente dopo il rituale Fremen noto come Agonia della spezia, ordalia destinata alle candidate guide spirituali tra la popolazione desertica, le Reverende Madri; tormentato da visioni di guerra e morte, infatti, e incapace di scorgere cosa il futuro riserverà per lui, la sua casata, il pianeta e il popolo, il poco più che adolescente Duca decide di sottoporsi ad una prova a cui nessun Fremen di sesso maschile era mai riuscito a sopravvivere prima, emergendo, dopo tre giorni di morte apparente, più forte e risoluto, maggiormente consapevole della propria chiaroveggenza e in grado di interrogare il tempo nelle tre direzioni in cui tradizionalmente viene suddiviso, da cui la spiegazione del titolo della canzone e del ritornello. Non solo, perché alla luce di questa interpretazione anche il tema della solitudine e della lontananza da casa si ripropongono con prepotenza: Paul è solo, perché nessun essere nell’universo è come lui, a causa delle macchinazioni Bene Gesserit che l’hanno generato, ed è inevitabilmente distante dalla calda comodità della propria casa, sia essa su Caladan o Arrakis; capace di indagare il tempo nel suo fluire errabondo, schiacciato dalle visioni di un destino che lo carica di una responsabilità insormontabile, Paul si trova sempre a rischio di perdere il contatto con il qui e ora, con le persone che lo circondano e con i cari che gli sono rimasti, per inseguire un futuro che gli promette gloria, realizzazione personale ma anche un terribile prezzo da pagare. È così che un personaggio dai tratti messianici, dai poteri sovrannaturali, in un tempo e in un mondo estremamente lontani, si fa vicino a noi lettori, spettatori o ascoltatori, parlandoci implicitamente di tutte quelle volte che le scelte che ci troviamo di fronte, e le aspettative che abbiamo nei confronti del nostro futuro, paiono spingerci in una direzione che non sentiamo pienamente nostra, o che ci chiederà dei significativi sacrifici per giungere all’ambizione sperata.
“The morning sun I feel (All pain and sorrow) The apparition of my words in these days Makes me feel I have told them before All my plans will come true I'll control destiny In the desert of my life I've seen it again and again”
Spostandoci avanti lungo il testo del brano, ritroviamo la metafora del sole che sorge: è sempre più vicino il momento in cui Paul si troverà costretto a prendere una decisione riguardo il suo ruolo – condottiero o fuggiasco? Liberatore o uomo comune? – e qualsiasi scelta farà gli recherà dolore; abbracciati i suoi poteri, divenuto “viaggiatore del tempo” nell’accezione che abbiamo sopra descritto, Paul fatica ancora a capire se le parole che riferisce al popolo, che lo vede come una guida, e ai suoi cari, che lo prendono come un punto di riferimento, siano frutto della sua volontà o piuttosto del ruolo che si è ritrovato costretto a coprire per sopravvivere, e che le attese dei Fremen e gli schemi delle Bene Gesserit gli hanno posto sulle spalle come un giogo; al di fuori della narrazione herbertiana e della lirica della canzone, il riferimento è sempre il medesimo: quanto siamo padroni del nostro destino? Quanto le scelte che compiamo sono frutto di ciò che gli altri si aspettano da noi? Quanto siamo disposti a sacrificare di noi stessi per il raggiungimento di un obiettivo? Herbert non dipinge Paul semplicemente come un personaggio buono o cattivo, né afferma superficialmente che compiere una scelta che non ci appartenga sia di per sé sempre un male: il giovane Atreides vuole vendetta per sé, è vero, ma intende anche riscattare il nome di suo padre, ristabilire la sua figura e quella di sua madre, e liberare dal giogo dell’oppressore un popolo che da tempo conosce solo guerra e saccheggio, sfruttamento e devastazione. Viene così introdotta una riflessione sulla dicotomia tra ambizione e responsabilità, sogno personale e concreta realtà. Preso in questo metaforico fuoco incrociato, e come le successive strofe del pezzo rimarcheranno, Paul è determinato a trovare la propria posizione, a riguadagnare la propria indipendenza e a divenire padrone del proprio destino: in altre parole, a portare a compimento il proprio percorso di crescita, il viaggio personale dall’adolescenza all’età adulta.
“Avvenne nel terzo anno di Guerra del Deserto che Muad'Dib si trovasse, solo, nella Caverna degli Uccelli, sotto le tende kiswa di una cella interna. Giaceva immobile, come morto, assorto nelle rivelazioni dell'Acqua della Vita. Il suo essere era trasportato al di là delle frontiere del tempo dal veleno che da' la vita. Così si realizzò la profezia secondo la quale il Lisan al-Gaib era insieme morto e vivo.”
Anche questo nuovo, lungo, viaggio tra le dune di Arrakis è giunto al termine, e se chi legge ha avuto la pazienza di stare in compagnia di chi scrive, questi lo ringrazia debitamente. I Bardi di Krefeld hanno confezionato quest’unico testo a omaggio delle vicende di Paul Atreides, sapendo fare proprio il personaggio e offrirci la loro visione della storia, traendo dalle vicissitudini del pianeta desertico un inno all’autodeterminazione e alla crescita personale. Com’è facile supporre, anche dopo i Blind Guardian e dopo il 1990, l’opera firmata da Frank Herbert più di due decenni prima non ha smesso di ispirare i lettori e, soprattutto, per quel che ci riguarda, i musicisti di tutto il mondo nel tempo a venire; per continuare il nostro viaggio, che presto si popolerà di cavalieri e vermi delle sabbie, vi rimandiamo alla prossima puntata…
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Sì beh, il ragionamento di Herbert è forse un po\' più complesso di così, e quello legato alla strumentalizzazione del potere religioso è solo uno dei messaggi dell\'opera, però semplificando possiamo dire così. Tra l\'altro, se si guarda il film di Villeneuve, che pure io ho apprezzato moltissimo, sembra che questo sia il messaggio centrale dell\'opera, quando ritengo che maggior prevalenza l\'abbia in realtà il tema ecologista, tirando le somme della prima opera del Ciclo. |
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4
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Beh si, mi pare di intuire che il messaggio ultimo di Herbert stia nel \"Never trust your idols\". Grazie per la risposta |
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Grazie a entrambi! Per rispondere alla pietanza decisamente... peculiare che ha scritto qui sotto, ti posso dire che certamente in alcuni tratti il personaggio di Paul - mi riferisco al primo romanzo, Dune - sicuramente risulta spigoloso e difficile da accettare, ma credo che proprio lì stia la forza di Herbert, nel tratteggiare un protagonista che presenta sicuramente luci e ombre, e che non può essere preso in toto per \"buono\"; non parlo di distinzione tra \"buoni e cattivi\", quanto più di non prendere per oro colato ciò che compie, perchè risulta evidente, in alcune parti del romanzo, la manipolazione su base religiosa che viene fatta da parte di Paul e sua madre, un elemento che si comprende maggiormente - e per questo vi faccio riferimento nell\'articolo - se si paragona l\'interpretazione della figura messianica da parte di una figura come quella di Gesù Cristo e l\'interpretazione del messia liberatore nell\'accezione ebraica, che è quella che più si avvicina a quanto fatto da Paul stesso nel corso dell\'opera. Però non saprei a riguardo dei punti deboli dell\'opera... Sicuramente l\'inizio può risultare un po\' lento e ostico, introducendo tutta la costruzione dell\'universo narrativo, ma non è forse così per tante grandi opere? Trovo ostica allo stesso modo l\'introduzione del Signore degli Anelli e le settanta pagine dedicate alla festa di Bilbo Baggins |
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Molto interessante, me lo leggerò con calma. |
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Caspita Simone, si vede che ti piace Dune. La tua conoscenza in merito (specie nei temi trattati) è capillare. Premesso che il mio volume preferito è 2666 di Bolano e che trovo rilassante affrontare i romanzi di Bernhard (quindi non sono estraneo alla lettura più.. \"rodata\"), devo confessarti che in decenni da lettore non sono MAI riuscito a completare i volumi dell\'Opera di Herbert. Mi deprime, e ogni singolo personaggio mi risulta antipatico (anche se sospetto che siano volutamente ingegnerizzati in questa maniera dall\'autore). Ti è mai capitato, leggendo Dune, di trovarti al punto di sentirti scoraggiato nella prosecuzione? Intendo: ci trovi qualche punto debole? Comunque complimenti per il tuo piccolo ma esasustivo saggio. |
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