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27/04/24
CRASHDÏET
VHS - RETRÒ CLUB, VIA IV NOVEMBRE 13 - SCANDICCI (FI)
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God Is An Astronaut - The End of the Beginning
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05/05/2018
( 1445 letture )
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Sul finire degli anni 90 la definizione di post-rock, gettata in pasto agli appassionati senza grandi spiegazioni dopo l’uscita di Hex dei Bark Psychosis nel 1994, ha cominciato ad assumere connotati più precisi grazie ai primi dischi degli scozzesi Mogwai, band seminale le cui idee verranno sfruttate per anni dalla stragrande maggioranza dei gruppi del genere. Vivevano poco lontano da quella Glasgow i gemelli Torsten e Niels Kinsella, due giovani polistrumentisti irlandesi che rimasero sicuramente folgorati dalle sonorità della band di Stuart Braithwaite, o quantomeno da alcune delle linee guida tracciate con Mogwai Young Team e Come On Die Young. Fu così che nel 2002 a Dublino nacquero i God Is an Astronaut, nome ispirato a una frase di Nightbreed, film di Clive Barker uscito in Italia col titolo Cabal (come il racconto originale dello stesso Barker). Nello stesso anno, i nostri riescono addirittura a far uscire il loro primo disco, The End of the Beginning, che tolto l’aiuto in un paio di tracce di Pat O’Donnell risulta a tutti gli effetti un album autoprodotto. Persino l’artwork è opera di Niels stesso. Solo l’anno successivo subentrerà il batterista Lloyd Hanney a togliere il monopolio assoluto ai fratelli Kinsella sui God Is an Astronaut.
Più che nella rabbia e nel dolore senza speranza dei primi Mogwai, lo stile musicale dei Dubliners può trovare un punto di riferimento nel loro lato più melodico. Il duo riesce infatti fin da subito a unire in maniera intelligente armonie immediate e atmosfere eteree autentiche, aprendo le porte a viaggi astrali accessibili e distensivi. Protagonisti sono i sintetizzatori quindi, ma sarebbe riduttivo ricondurre il sound dei GIAA alle sole tastiere. In questo album d’esordio si rincorrono in continuazione melodie di chiara matrice pop, trainate da un basso pulsante e da una batteria elettronica ai limiti dell’hip hop, che ha riportato alla mente di alcuni i re del trip hop, i fondamentali Massive Attack (anche loro, inglesi, molto vicini geograficamente a Niels e Torsten).
L’inizio è proprio all’insegna delle caratteristiche appena citate, anche se in primo piano c’è un liquido arpeggio di chitarra, oltre che una notevole maestria, non ancora evidenziata. La titletrack The End of the Beginning è un’apertura inappuntabile, un saliscendi esemplare bissato poi da From Dust to the Beyond, brano che fa appello ai lati meno spiccatamente oscuri della succitata band di Bristol (Blue Lines, in parte Protection) e che sfoggia un’incalzante melodia al piano, struggente ma sincera, semplice ma efficace. Con il susseguirsi delle tracce, però, l’impatto dei GIAA va progressivamente a scemare verso un generico post-rock morbido e vagamente sognante. I nostri hanno dalla loro una grande consapevolezza dei propri mezzi, infatti la produzione, nonostante i suoni in certi frangenti risultino poco professionali, è bilanciata ottimamente, ma spesso si percepisce una comprensibile inesperienza. Ascend to Oblivion non sposta di un centimetro le coordinate del pezzo precedente e risulta così un po’ stagnante, sebbene sia tutto fuorché brutta musica. Le sorprese cominciano subito a scarseggiare, come se il pozzo creativo dei gemelli si fosse già prosciugato dopo una decina di minuti. Coda riesce a ridestare l’attenzione con una chitarra composta e qualche novità come i cori su tastiera, liberandosi dalla sensazione di ripetitività nella quale rimarrà imbrigliata la restante parte di questo esordio. Remembrance evidenzia infatti pericolosamente una certa monotonia nelle scelte armoniche del gruppo (di nuovo in questo brano c’è forse solo la sua quasi ballabilità), ma Point Pleasant scaccia all’ultimo il medesimo pensiero con un basso dub e una chitarra squisitamente elettrica. E’ proprio la sei corde l’elemento che dà più soddisfazioni all’interno dell’album, mai virtuosa o pomposa, sempre funzionale. Ciò nonostante la successiva Fall From the Stars, dove figura una doppia chitarra, distorta da una parte e pregna di chorus dall’altra, passa abbastanza inosservata, Non ci si libera più dal sentore che qualcosa stoni. Twilight si salva grazie alla spinta su sonorità elettroniche, che tuttavia avvicinano rischiosamente i nostri a un dance-pop strumentale. Il basso punk e le suggestioni big beat di Route 666 sono sempre frenati dal solito giro d’accordi dentro al quale sono rinchiusi tutti i brani, dal primo all’ultimo. Si arriva stanchi a Lost Symphony, brano di chiusura tra i più insipidi del lotto, debole nella costruzione e fin troppo eterogeneo per gli standard del disco. Una “fine dell’inizio” non troppo entusiasmante.
I God Is an Astronaut riescono subito a crearsi una piccola identità nel macrogenere del post-rock, sia nelle atmosfere che negli arrangiamenti, pur dimostrando di avere ancora molto da fare per avvicinarsi anche lontanamente a certi livelli. Il duo si perde in soluzioni ritmiche e armoniche sempre uguali a sè stesse, rendendo spesso vane le intuzioni sonore. Ci si domanda a questo punto se manchi il talento per essere meno monotoni o magari il coraggio di essere ancor più insistenti e ossessivi. L’esordio discografico The End of the Beginning è nella media, ma c’è personalità nel duo di Dublino e per questo si aspettano risposte nell’immediato, che infatti non tarderanno ad arrivare.
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4
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E perché tu che ne capisci sprechi tempo a scrivere cose inutili e invece non ci aiuti a capire? |
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3
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ma quello che ha fatto la recensione evidentemente non s'intende per niente di musica. Il paradosso...scrive chi non ne capisce !!! |
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2
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non d'accordo con il voto della recensione, secondo me troppo basso. Non un capolavoro ma comunque un grande esordio voto 80.
E aggiungo che Live sono di una grande bellezza. |
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1
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Negli ultimi tempi ho scoperto questa band e ne sono rimasta affascinata. Questo è stato il primo disco che ho ascoltato e mi è piaciuto molto. Il mio modo di ascoltarlo è stato interpretarlo quasi come un disco ambient, quindi ho trovato le melodie ripetitive di cui parla Vulgar particolarmente funzionali, come se la musica fosse un modo per sottolineare una certa malinconia che si ripete ossessivamente. Anche io penso che ci siano dei pezzi che si perdono di più sullo sfondo (Twilight, Coma e Lost Symphony sono quelli che mi sono rimasti in testa di meno), ma, per quanto mi riguarda, l'album non mi ha mai annoiato, forse proprio perché, interpretandolo quasi come se fosse un disco ambient, anche i pezzi più "deboli" (o, forse, sarebbe meglio dire "meno forti") mi sono risultati piacevoli perché costituivano un sottofondo etereo in cui perdersi nei propri pensieri. Il che potrebbe essere indice di poca incisività (perdita dell'attenzione da parte dell'ascoltatore ), mentre nel mio caso è stato un momento di trance. Non posso fare un paragone con gli album successivi, perché ho ascoltato solo Far from Refuge, ma, di per sè, per quanto si possa fare di meglio, trovo che sia un bel disco e che, come dice Vulgar, ci sia personalità per me 75 |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. The End of the Beginning 2. From Dust to the Beyond 3. Ascend to Oblivion 4. Coda 5. Remembrance 6. Point Pleasant 7. Fall From the Stars 8. Twilight 9. Coma 10. Route 666 11. Lost Symphony
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Line Up
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Torsten Kinsella (Voce, Chitarra, Tastiere, Programmazione Batteria) Niels Kinsella (Chitarra, Tastiere, Basso)
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