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Insomnium - In the Halls of Awaiting
( 4949 letture )
Il poeta, per quanto si addentri nell'astratto, resta poeta nel suo profondo, cioè amante e folle.

Credo sia opportuno partire da questo aforisma del poeta russo Aleksandr Aleksandrovic Blok (1880-1921) per descrivere la creatura partorita dagli Insomnium. Fu un avvicinamento curioso, il mio, a questo gruppo finlandese. Infatti, prima ancora di poter ascoltare qualcosa, in questo caso aprii il booklet e incominciai a leggere i testi. Il mio cuore si spalancò. Vi era un tocco di sublime e delicata poeticità in quelle parole. Erano oscure, tetre e lugubri. Ai miei occhi e alle mie orecchie si presentavano versi degni della scuola romantica tedesca, degni di Novalis, dei componimenti più cupi di Hölderlin e Goethe, e dei poeti decadenti dell'Ottocento, come Clark Ashton Smith, David Park Barnitz, Arthur Rimbaud e Edgar Allan Poe. Niilo Sevänen, dunque, si era "addentrato nell'astratto", aveva sondato nel profondo le più cupe fra tutte le passioni e gli sconvolgimenti che nutrono l'animo umano e, semplicemente, aveva espresso in parole quelle voci che tormentavano la sua mente. Avevo il terrore, però, che mi si presentasse un gruppo incapace di rendere in musica tali ambiziosi sentimenti e passioni. Le poesie e le leggende di ogni paese, da sempre, sono state piattaforme che hanno offerto solido sostegno alla musica metal, come un'eredità celata nel cuore e sullo sfondo della musica, nell'andamento flessuoso di quel determinato linguaggio, dipinto dagli amalgamanti colori delle passioni degli artisti. Prim'ancora di ascoltare, allora ripensavo a quali gruppi erano riusciti in tale impresa: ovviamente, gli Amorphis di Tales from the Thousand Lakes, i Dark Tranquillity di The Gallery (come dimenticare gli echi di baudelairiana memoria dell'incantevole Lethe o la stupenda agonia e sofferenza di Punish My Heaven piuttosto che di …Of Melancholy Burning?). Con grande impazienza, così, mi sono catapultato in questo In the Halls of Awaiting.

Un leggero arpeggio di chitarre pulite e un tormentoso sussurro introducono un lamento funebre intenso e stupendo (Ill-Starred Son). Immediatamente dopo si ha un rapido crescendo; la canzone scoppia in un riff ordito da chitarre pesantemente distorte, la voce si fa rabbiosa e possente. E la canzone, sulla liricità del testo, esprime una tale irrefrenabile rabbia, una tale e inconsolabile melanconia dell'animo… la mia mente non poteva non trovare conferma delle sensazioni scaturite dalla lettura dei testi. La seconda traccia, Song of the Storm, rappresenta uno dei punti deboli dell'album. Il testo, stupendo nei suoi echi byroniani, non trova un corrispettivo adeguato nelle musiche, troppo stereotipate sul genere In Flames di Whoracle e Clayman, ben lontane dunque da quel death metal intenso ed emozionale descritto in precedenza. Il disco ha un nuovo inizio dalla terza traccia, quando si affaccia, per l'ascoltare, un trittico meraviglioso. Con un fischio lontano, Medeia ci assale e ci trascina tra i sanguinosi versi della più lugubre e oscura tra le tragedie della classicità. La traccia, come suggerisce il titolo, ripropone il mito di Medea, figlia di Eete, re della Colchide, e di Ida. Nipote della maga Circe, dalla quale ha ereditato i poteri magici, innamoratasi di Giasone, il capo degli Argonauti, lo aiuta nella conquista del Vello d'oro, rendendosi protagonista di numerose efferatezze per aiutare l'amato, come l'uccisione del fratello, Apsirto. La tragedia si consuma con il tradimento di Giasone e la decisione di quest'ultimo di sposare un'altra donna, lasciando Medea a concepire la peggiore tra le vendette: l'uccisione dei figli avuti dal marito e la fuga. La canzone inizia dopo quarantacinque secondi di splendide armonizzazioni tra le due chitarre di Friman e Vänni, quando si è sorpresi dall'inumano e disperato urlo di Sevänen. Il testo, in un primo momento, ricorda la delicata nostalgia e rabbia delle Eroidi di Ovidio, cozzando con i potenti riff di chitarra. Appena si addolcisce il tono, quando le parole sono appena sussurrate, è partorita un'unica sensazione di sconforto e rassegnazione, si creano melodie di rabbia e di totale follia, riff che cambiano con sistematica lucidità. Ma il vero capolavoro è il breve interludio centrale, quando l'orrore, fino a quel momento distante, appena accennato, quasi scacciato (vengono alla mente i versi di Seneca L'ira mi ha abbandonato. La madre, scacciata la sposa, non è più che madre. Versare il sangue dei miei figli?... Via quest'infamia, via anche il pensiero!), in poche e lapidarie parole, si cementa. Le chitarre si armonizzano in un canto che non può non rimanere nelle orecchie dell'ascoltatore e, con teatralità, Sevänen sigilla il fato di Medea:

Soon I'll be feeling no pain – sleeping in silent shades;
The ones you cherist the most, I'll take with me into my dreams

Presto non sentirò più alcun dolore – dormirò nelle tacite ombre;
coloro che massimamente ami, li porterò con me nei miei sogni.


Dying Chant si apre con un riff potente e melodico al tempo stesso, ben supportato da una ritmica possente e definita. Le chitarre – ancora una volta armonizzandosi (In Flames e Dark Tranquillity docent) ordiscono trame sulle quali la voce va ad impostare e a definire il suo sentimento di rabbia e frustrazione. La canzone è un continuo susseguirsi di riff a tratti rabbiosi e melodici per sfociare, infine, in una melodia di tale dolcezza, ricamata dalle chitarre e dal basso, per poi catapultarsi nuovamente nel precedente travolgente vortice di sensazioni. The Eldar, insieme alla title-track, è il capolavoro dell'album. Friman e Vänni danno inizio alla traccia con un arpeggio armonizzato, dolce e brillante, quasi come un distante richiamo notturno. Il basso di Sevänen vi ricama sopra una melodia leggera fin quando, improvvisamente, avviene l'esplosione e le due chitarre, distorte, riprendono l'armonia, mentre la sezione ritmica imbastisce un possente muro. La canzone corre su un continuo crescendo, dalla parte acustica fino all'entrata del chorus, si uniscono urla gutturali e morenti sussurri in un solo respiro. Sensazionale è anche l'outro, un cambio di tempo nel quale le chitarre, senza assoli o inutili esibizionismi di tecnica, ricamano un rabbioso finale. Il testo ci riporta ai versi del poema epico Kalevala, di cui già gli Armophis si erano eletti ad estimatori, e ci presenta la figura principale, Väinämöinen, descrivendola con un'eleganza e una poeticità unica in tutto il panorama metal.

I'm a whirl deep in dark waters, a stare in the shades of fir-trees.
I'm riding above the north wind herding the black clouds of rain.
Mine is the kingdom, far from the Moon to the Sun,
I am the Elder – standing forever as one…

Sono un gorgo profondo in oscure acque, uno sguardo nell'ombra degli abeti.
Cavalco il vento del nord convogliando nere nuvole di pioggia.
Mio è il regno, lontano dalla luna e dal sole,
io sono l'Antico – per sempre vi dimorerò come un unico…


Da questo momento, i nostri sembrano un po' perdersi. Si piacciono, gli Insomnium -si piacciono un po' troppo oserei dire- finendo così per indugiare troppo sui loro modelli d'ispirazione senza ricercare ancora quella vena di vera e propria originalità che li aveva distinti nei precedenti brani. Il risultato, beninteso, non è del tutto da buttare: Black Waters, pur avendo una carica invidiabile, non riesce a convincere; le seguenti Shades of Deep Green (che consta, in ogni caso, di una delle migliori code mai ascoltate dal sottoscritto, con stupende sfumature folk), The Bitter End e Journey into the Unknown, scivolano via senza infamia ma lasciano inappagato l'ascoltatore, fino a quel momento colpito da quei vortici di emozioni e sentimenti che lo avevano affascinato e stordito. Sommesso, delicato e stupendo, si apre l'arpeggio di In the Halls of Awaiting. Etereo, sommesso: vero, ma solo per circa trenta secondi, prima che le chitarre ci catturino e ci catapultino nella più profonda disperazione e malinconia. Le armonie si susseguono e si rincorrono per tutti gli undici minuti della canzone. È un vero e proprio capolavoro in cui, ancora una volta, si alternano con grande maestria parti acustiche, con le bellissime parole di Sevänen sussurrate e recitate, con sezioni dalle melodie possenti e incantevoli, come il chorus. Il testo affonda le radici nel legendarium di Tolkien, narrandoci la disperazione di Beren, i suoi languenti lamenti e la speranza di rivedere l'amata Lúthien. In pochi altri casi ho udito un gruppo affondare le unghie su una canzone così lunga con una tale forza inarrestabile, con un tale irrefrenabile desiderio; tra questi, ovviamente, ci sono gli Opeth.

Con la title-track si chiude l'album. Ci sono stati, certo, alcuni passi falsi, ma il risultato finale è sicuramente eccellente. Si presenta all'ascoltatore un solido debutto che, fin dalle prime battute, rende chiara l'identità del gruppo: un melanconico death metal, interludi acustici e sfumature folk. I due chitarristi hanno imbastito un gigantesco paesaggio, nel quale le parole di Sevänen, talvolta narrate in un sussurro e altre scaturite da un basso growl, sondano le remote e nere pieghe delle nostre passioni, con la stessa arte e maestria di un poeta dell'Ottocento.



VOTO RECENSORE
80
VOTO LETTORI
88.78 su 14 voti [ VOTA]
Alex
Mercoledì 26 Marzo 2025, 21.32.41
8
Riuscirete prima o poi a fare un sito che abbia un layout visibile senza perdere la vista anche da uno smartphone? Così tanto per sapere.
Spirit of the forest
Mercoledì 1 Novembre 2023, 14.35.33
7
Un buon disco ma troppo orientato ad un death melodico tipo In Flames,nel genere preferisco i Godgory,più sognanti e aperti a derive goticheggianti. 65
Silvia
Lunedì 1 Gennaio 2018, 13.00.08
6
Ritorno su questo album che piu’ ascolto e piu’ mi piace. Derivativo si’ ma con una grande drammaticita’ e introspezione quasi sconosciute ai maestri ispiratori del Gothenburg sound (Dark Tranquillity e primi In Flames che rientrano fra i miei gruppi preferiti di sempre). Se poi viene voglia di riascoltarlo tante volte non importa proprio se ai primi passaggi richiama qualcos’altro perche’ alla fine la personalita’ del gruppo emerge tutta e le influenze diventano solo un pallido ricordo.
Silvia
Lunedì 3 Aprile 2017, 1.14.41
5
Bellissimo come hai descritto Medeia, un pezzo a dir poco GRANDIOSO
Francisarbiter
Martedì 3 Giugno 2014, 17.01.20
4
@Le Marquis de Fremont La ringrazio per i complimenti e per il suo commento. Mi scuso se la risposta è stata tardiva e se, per ciò, ho dato l'idea di una persona un po' montata, ma impegni universitari mi hanno trattenuto dal computer. Ancora, la ringrazio.
Le Marquis de Fremont
Giovedì 29 Maggio 2014, 17.55.50
3
Devo dire, Monsieur Francisarbiter, che lei è una persona di buone letture. E le faccio i miei complimenti per questa recensione che condivido in pieno e che è fatta benissimo. Vede, contrariamente alla recensione di Shadows of the Dying Sun, qui lei parla dell'album. E la cosa è molto fruibile, nonché scritta in un modo così circostanziato e di piacevolissima lettura. Complimenti ancora.
spiderman
Sabato 24 Maggio 2014, 22.12.44
2
Bel debutto con il loro primo full-lenght.Amo questo gruppo.Quoto la recensione in tutto,anche nel voto: 80
ErnieBowl
Sabato 24 Maggio 2014, 12.53.57
1
Finalmente le recensioni degli Insomnium stanno uscendo! La mia opinione la conosci già ma non toglie nulla alla tua. Album immaturo, a causa probabilmente della produzione, e derivativo ma più ispirato a differenza dei 3 successivi che diventano sempre più ripetitivi fino ad arrivare alla svolta degli ultimi 2 in cui il sound è decisamente più personale. Ovviamente IMHO.
INFORMAZIONI
2002
Candlelight Records
Melodic Death
Tracklist
1. Ill-Starred Son
2. Song of the Storm
3. Medeia
4. Dying Chant
5. The Elder
6. Black Waters
7. Shades of Deep Green
8. The Bitter End
9. Journey Unknown
10. In the Halls of Awaiting
Line Up
Niilo Sevänen (Voce, Basso)
Ville Friman (Chitarra)
Ville Vänni (Chitarra)
Markus Hirvonen (Batteria)
 
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