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Crimson Dawn - Chronicles of an Undead Hunter
14/04/2017
( 2199 letture )
There's a chill wind at your back door
And the fire cracks on the damp floor
You hear footsteps but you're not sure
On a storyteller's night.


Una notte invernale illuminata dal crepitio del fuoco di un camino, uno chalet in legno immerso nelle brume del Grande Nord, un gruppo di elfi riuniti a convegno intorno a un tavolo e, di spalle, un narratore alle prese con racconti che inchiodano emozionalmente gli ascoltatori…

Così, coniugando il testo ad alto tasso di mistero della titletrack con l’evocatività visiva di un grande artwork, nel lontano 1985 i Magnum davano alle stampe il loro probabile capolavoro, On a Storyteller’s Night. I sentieri percorsi dal quintetto capitanato da Bob Catley, al punto di incontro tra hard rock, prog e AOR, si prestavano perfettamente allo sviluppo delle potenzialità già in evidenza nella tradizione seventies ma, a completare il quadro in vista dell’apoteosi finale di un genere da popolare con suggestioni fantasy, mancava ancora un ingrediente fondamentale, aggiunto nel breve volgere di un paio d’anni da una band che debuttava con due grandi classici destinati a spalancare porte e solcare territori inesplorati. Toccherà così ai Candlemass di Epicus Doomicus Metallicus e Nightfall dimostrare come il doom di sabbathiana discendenza potesse regalare ulteriori sfumature a un impianto ormai pronto ad accogliere le inclinazioni “dark” dei narratori di epopee, saghe e leggende. Ed ecco allora innalzarsi monumenti mitici come Solitude e Samarithan, ad offrire ai novelli aedi del ventesimo secolo raminghi per le corti metal un nuovo arsenale narrativo a cui attingere per allietare gli umani simposi nelle fredde notti nei pressi del solstizio.
Sono passati ormai trent’anni da quell’atto di nascita e, fin dai primordi, la scena epic doom si è sempre dimostrata molto selettiva, in termini di qualità degli attori, data l’oggettiva difficoltà nel maneggiare una materia ad alto rischio di saturazione e una non meno impegnativa ansia da prestazione frutto della nobiltà dei modelli. Sul patrio suolo, a dimostrarsi all’altezza del cimento sono stati soprattutto i Thunderstorm (da Sad Symphony a Nero Enigma protagonisti assoluti della prima decade del nuovo millennio) e, dopo la purtroppo prematurissima dipartita dalla scena di Fabio Bellan e soci, una delle più serie candidature a raccoglierne l’eredità è arrivata dal quintetto milanese/ravennate/veronese dei Crimson Dawn. Le due proposte, chiariamolo subito, non sono da intendersi come meccanicamente sovrapponibili, ma entrambe le band hanno saputo distinguersi per un approccio al genere caratterizzato da quel grande equilibrio che è dote imprescindibile se si vuole evitare di dissolvere la magia che deve accompagnare racconti in galleggiamento tra favola e realtà.

Il primo punto a favore, in realtà, i Crimson Dawn lo hanno segnato sciogliendo fin dal debutto sulle lunghe distanze di In Strange Aeons il dubbio che ci potessimo trovare di fronte a qualche clone dei Drakkar, magari con una semplice modifica dei dosaggi nell’ispirazione; certo, la militanza di Dario Beretta nelle lande epic “pure” di marca Drakkar non poteva non lasciare tracce indelebili nella nuova creatura, ma la statura complessiva dell’intera line up, in termini di personalità, ha scongiurato qualsiasi rischio di piatta derivatività, come evidenziato anche dal pur esilissimo At the Cemetery Gates del 2015, dove, a dispetto di un minutaggio (eufemisticamente) contenuto, i segni di una maturazione artistica in pieno dispiegamento erano comunque evidenti. Ma se in quell’EP buone intenzioni e ottimi spunti avevano trovato qualche limite alla prova dei fatti (Agarthi…) la nuova tappa del viaggio, Chronicles of an Undead Hunter, ci regala una band in ottimo stato di forma, capace di accogliere elementi in arrivo da diversi metal punti cardinali e di restituirli trasfigurati in unità grazie a una mano fermissima, in sede compositiva.
Candlemass e Black Sabbath sempre sugli scudi, certo, ma il pantheon dell’ispirazione dei Nostri è decisamente eterogeneo, per composizione, potendo annoverare ombre di antichi titani hard rock (Rainbow e Deep Purple su tutti) così come echi di ”happy power” di scuola Helloween, il tutto mediato dal costante rimando alla lezione maideniana e da aperture sinfoniche tutt’altro che puramente ornamentali. Ce ne sarebbe abbastanza, sulla carta, per rischiare un letale “effetto beverone” con annessi danni collaterali agli enzimi che presiedono la digestione pentagrammatica, ma al quintetto riesce quasi sempre l’operazione per cui ci è capitato ad esempio di lodare l’ultimo lavoro dei Bombus, Repeat Until Death ed ecco dunque che l’incrocio tra l’enfasi magniloquente di fondo e un’opportuna leggerezza nella scrittura offre diversi sbocchi, non ultimo quello di un registro vagamente kitsch che si lascia apprezzare per l’intelligenza nella declinazione.
Sul tavolo, del resto, i Crimson Dawn piazzano carichi da novanta notevoli, a cominciare dalle prove individuali; detto di una sezione ritmica sempre puntuale e di una coppia d’asce a proprio agio sia nei riff fumosi di più stretta osservanza doom che nelle cavalcate incendiarie in impeccabile classic heavy, una nota di merito particolare va spesa intanto per il lavoro alle tastiere di Emanuele Laghi, fondamentale per la produzione di quelle atmosfere ora incantate, ora “paesaggisticamente” orientate, ora appena increspate di inquietudine che devono spiccare in un album dai tratti fantasy. Il tocco di classe finale viene però dal microfono, dove un eccellente Antonio Pecere ci lascia a lungo indecisi su quale impronta sia più decisiva, tra l’opzione Messiah Marcolin e Ronnie James Dio, salvo scoprire a fine viaggio che il vincitore della singolar tenzone è… Bruce Dickinson.

Un breve intro e otto tracce dal minutaggio ragionevolmente equilibrato, Chronicles of an Undead Hunter è un album da bere tutto d’un fiato, con la certezza oltretutto di una resa live di sicuro effetto, stante l’affollarsi di anthem che non mancheranno di sollecitare levar di calici e scuotimento di membra, sotto i palchi. Si parte con Eternal Is the Dark e subito ci si rende conto di come i ragazzi sappiano mettere a frutto le lezioni più disparate, tanto che rimane il dubbio se la solennità formale dell’impianto sia il centro di gravità del brano o piuttosto un pretesto a mo’ di involucro per far risaltare i due cammei inseriti in corso d’opera, uno a sfondo sinfonico/monastico e l’altro in perfetto stile speed. Lo stesso meccanismo contraddistingue The Suffering (brano peraltro non nuovo, in quanto già parte della tracklist di At the Cemetery Gates), dove scampoli gothic conducono con gran profitto incursioni su una trama sfarzosamente cadenzata, ma per cercare il cuore pulsante del platter vale la pena concentrarsi sul corpo centrale, a cominciare dall’apparentemente easy listening The Skeleton Key. Energia in ordinata esplosione, un ritornello di facile assimilazione, ma poi all’improvviso parte un ricamo prog accompagnato da un cantato in italiano e ci si ritrova catapultati in qualche corte medievale in festa al cospetto di signori, dame e menestrelli. La successiva Gaze of the Scarecrow riporta però subito il tono su binari meno spensierati, disegnando traiettorie da ballad intimista e malinconica prima della prevedibile esplosione finale, su cui Laghi si avventa con splendido piglio settantiano. Il trittico d’oro si completa con la potente Dark Ride, arricchita da un coro helloweeniano (A Million to One?), preceduto oltretutto da un ben confezionato sconfinamento avantgarde (quel recitato teatrale di cui i Vulture Industries sono maestri, in terra di Norvegia). Più sbilanciata verso una sorta di limbo qualitativo, Checkmate in Red ha comunque il merito di non interrompere il filo della tensione, anche se l’ottimo assolo finale non basta per farla assurgere a tassello imprescindibile dell’edificio. Le due note non del tutto felici dell’album si concentrano nella troppo lineare Neverending Rain, compitino sorretto non a dovere da un respiro epic poco più che di maniera e nella conclusiva To Live Is To Grieve, che imbarca lo stesso difetto quasi per par condicio sul versante doom, scivolando via anonimamente nonostante l’improvvisa materializzazione di un passaggio in growl.

Solo un paio di peccati veniali in un viaggio altrimenti coinvolgente, una lezione di equilibrio e misura al cospetto di un genere capace di travolgere naviganti anche di provata esperienza, intenso quanto basta senza forzare la mano su citazioni comunque intelligibili ad ogni volgere di solco, Chronicles of an Undead Hunter è un album che, senza promettere anacronistiche riscritture di nobili modelli, centra pienamente l’obiettivo sul piano emozionale. Se mai ci dovesse capitare di allestire un tavolo notturno per ascoltare racconti di mondi incantati, ricordiamoci dei Crimson Dawn, per il seggio del narratore.



VOTO RECENSORE
75
VOTO LETTORI
97 su 1 voti [ VOTA]
INFORMAZIONI
2017
Punishment 18 Records
Doom
Tracklist
1. Twilight Of The Wandering Souls
2. Eternal Is The Dark
3. Neverending Rain
4. The Suffering
5. The Skeleton Key
6. Gaze of the Scarecrow
7. Dark Ride
8. Checkmate in Red
9. To Live Is To Grieve
Line Up
Antonio Pecere (Voce)
Dario Beretta (Chitarra)
Marco Rusconi (Chitarra)
Emanuele Laghi (Tastiera)
Alessandro Reggiani Romagnoli (Basso)
Luca Lucchini (Batteria)
 
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