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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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DragonForce - Valley of the Damned
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02/01/2021
( 1750 letture )
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Nei primi anni del 2000, la scena power era piuttosto variegata: gli Hammerfall cominciavano già a soffrire un momento di stnaca, gli Edguy tentavano di ottenere consensi in mezza Europa come una sorta di Helloween 2.0 (con risultati ammirevoli), gli Angra soffrivano la perdita del proprio cantante originario, i Blind Guardian cominciavano ad intraprendere la strada orchestrale con arrangiamenti sempre più complessi e perdendo immediatezza, mentre gruppi come Primal Fear o i già veterani Grave Digger si facevano strada in un mercato già ingolfato grazie a un approccio meno spettacolare, più vicino al metal classico. Mancava l’energia, quella voglia di urlare in faccia al cielo qualche slogan ottimista senza temere di risultare immaturi o irriverenti. Una mancanza risolta in parte con i Rhapsody, ma soprattutto con i Dragonforce. Herman Li e Sam Totman erano già membri dei Demoniac, un gruppo australiano iniziato come un clone dei contemporanei Burzum e Darkthrone, ma che gradualmente cambiò genere a favore di un metal classico più vecchia scuola. Nell'ultimo disco, si trasformarono in un prototipo dei futuri Dragonforce con l’eccezione di una produzione più scarsa e di una voce totalmente amusicale. Dopo il loro scioglimento, i due chitarristi contattarono membri da vari paesi del globo (ZP Threat dal Sudafrica, Vadim Pruzhanov dall’Ucraina e Matej Setinc dalla Slovenia), ed insieme formarono i DragonHeart. Il gruppo attese diversi anni a causa di varie defezioni per impegni personali/universitari dei membri, prima di cambiare nome e registrare il suo album di debutto, Valley of the Damned.
Inutile dire che la title track mostra già di che pasta fosse fatto il gruppo. Dopo un’introduzione di neanche 15 secondi, l’ascoltatore viene travolto da riff che uniscono le melodie dei Judas Priest con una doppia cassa rocambolesca (a livello di velocità stiamo ai livelli degli Slayer di Seasons in the Abyss) con progressioni quanto più lontane dalla pulizia cristallina degli Stratovarius, che hanno qualcosa in comune piuttosto con i Dissection di Storm of the Light’s Bane. La voce di ZP Theart è estremamente distintiva, con un timbro squillante e infantile che non solo cozza con gli arrangiamenti AOR/sinfonici del disco, ma risulta quasi commovente per la propria umanità e capacità di colorare i testi senza risultare irritante. Quando arrivano i cori, non si può chiedere di più, ma Li e Totman mescolano le carte in tavola con variazioni dei riff principali, armonizzazioni di scuola neoclassica e arpeggi di settima maggiore: la loro funzione non è semplice shred, ma un ulteriore completamento dell’armonia con un pizzico di imprevedibilità. Gran parte delle canzoni segue il medesimo approccio, alcune ricalcando gli stessi accordi e progressioni (Revelation, Evening Star), altre con una chiave differente e cambi di tempo (Black Fire, Heart of a Dragon), con un’evidente eccezione della ballad Starfire, che potrebbe benissimo stare nell’album di debutto degli Skid Row. Altre due tracce da applausi sono Black Winter Night, a cui viene alzata la tonalità dopo il secondo ritornello, per dare un effetto euforico e Disciples of Babylon si ferma intorno al terzo minuto di durata per fare spazio ad un delicato bridge strumentale con accordi di chitarra acustica, suoni da piano digitale e un paio di intermezzi che si rifanno vagamente a sonorità jazz/fusion. La reissue del 2010 include una bonus track (Where Dragons Rule, che inizia come ballata orchestrale, ma che fa bruscamente spazio alla tipica cavalcata melodica di cui il disco è pieno), un re-mastering generale che migliora la separazione e la definizione degli strumenti, alcune versioni demo ed un DVD con un’esibizione in Giappone del 2004, nonché interviste e filmati che approfondiscono il clima delle sessioni del disco.
Un debutto-meteora che comunque non nasconde alcuni difetti di struttura. La produzione è tutt’altro che eccezionale, a tratti quasi low-fi, con uno sbilanciamento di volumi che penalizza batteria e basso, sommergendo l’intera registrazione in un mare di riverbero e con orchestrazioni preponderanti perfino rispetto alle doppie chitarre. Anche se i momenti solistici non risultano sgradevoli perché registrati senza pedali/boost che potrebbero stravolgere gli arrangiamenti, è anche vero che manca un po’ di varietà, il che, considerata la durata delle media delle canzoni superiori ai 5 minuti, potrà sembrare infernale per chi non digerisce simili sonorità. Del resto, i Dragonforce fanno parte della scuola di pensiero anni '80, dove l’eccesso in ogni cosa è sbattuto in faccia all’ascoltatore in barba alle proprie opinioni e pregiudizi.
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5
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Decente, il resto della loro discografia abbastanza imbarazzante |
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4
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A mio parere un bel disco. Il migliore della loro discografia. Voto 80 |
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3
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Rispetto agli altri loro dischi (che contengono i loro classici, ma il resto è abbastanza pessimo nella banalità), qui ricordo che avevo trovato più freschezza, forse proprio perchè era il debut e non avevano possibilità di autoplagiarsi come hanno fatto negli anni a venire. La titletrack e la ballad Starfire sono i due apici per quanto mi riguarda, ma la bonus track citata è pure notevole. |
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2
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Uno dei gruppi più ridicoli che io ricordi, disco che avrò sentito due volte e poi buttato chissà dove.. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Invocation of Apocalyptic Evil 2. Valley of the Damned 3. Black Fire 4. Black Winter Night 5. Starfire 6. Disciples of Babylon 7. Revelations 8. Evening Star 9. Heart of a Dragon
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Line Up
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ZP Theart (Voce) Herman Li (Chitarra, Cori) Sam Totman (Chitarra, Cori) Vadim Pruzhanov (Tastiere) Didier Almouzni (Batteria)
Musicisti ospiti Clive Nolan (Cori) Diccon Harper (Basso)
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