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Hawkwind - Space Ritual
29/01/2022
( 2566 letture )
Togliamoci subito un sassolino dalla scarpa: Space Ritual è uno dei migliori dischi live della storia del rock ed è un peccato mortale che troppo spesso venga ignorato. Questo è uno di quei pochi album live che ha realmente senso di esistere ed essere ascoltato e immortala una band che in quegli anni era al proprio apice, come il successivo disco in studio avrebbe di lì a poco dimostrato.

Che gli Hawkwind fossero già assurti a pezzi grossi del cosiddetto space rock non era una novità nel 1972, dal momento che la band aveva collezionato nel giro di tre anni un terzetto di LP uno migliore dell’altro, con il singolo Silver Machine come ciliegina sulla torta. Il rock psichedelico in realtà stava già andando incontro ad un rapido declino, ma la forza di Dave Brock e dei suoi compagni stava proprio nella capacità di creare con la propria musica atmosfere spaziali e oniriche, fortemente influenzate dalla fantascienza letteraria e cinematografica; una caratteristica, questa, che rendeva il gruppo un unicum nel panorama rock dell’epoca. Logico intuire come la musica dei freak inglesi trovasse terreno fertile in sede live, con lunghissime epopee strumentali e collaborazioni con artisti non necessariamente legati all’ambiente musicale: ha fatto storia la figura della danzatrice Stacia Blake, la quale si esibiva completamente nuda durante i concerti della band (inconcepibile al giorno d’oggi la sua “audizione”, tenuta al cospetto di Nik Turner), così come gli intermezzi spoken word del poeta sudafricano Robert Calvert, entrato nel gruppo proprio grazie alla sua performance vocale su Silver Machine. Dunque, dal momento che l’ultimo album pubblicato – Doremi Fasol Latido – stava andando benone, il gruppo si imbarcò nel tour di supporto al disco con l’intenzione di registrare la propria performance migliore, imbastendo uno spettacolo che il pubblico non avrebbe potuto dimenticare. Insieme alla confermatissima Stacia, vennero reclutati i ballerini Miss Renee e Tony Carrera, inoltre venne concesso più spazio a Robert Calvert, il quale si ritagliò alcuni momenti solisti per recitare alcune sue poesie e non solo. Il complesso live show che il gruppo aveva intenzione di portare in giro per l’Inghilterra era stato progettato dal deus ex machina Barney Bubbles, artista grafico inglese che collaborava con gli Hawkwind già dal secondo album In Search of Space e aveva ideato il concept dell’ultimo disco, sul quale anche il tour era basato. L’idea era quella di immergere gli spettatori all’interno di un’esperienza audiovisiva totale a tema chiaramente fantascientifico e spaziale, basata sul concetto di musica delle sfere. Narrazioni a cavallo tra il fantastico e l’esoterico, allucinazioni sonoro-visive e infine luci psichedeliche a cura del noto Jonathan Smeeton, in arte Liquid Len and the Lensmen. All’entrata dei concerti veniva fornito al pubblico un programma scritto da Bubbles, il quale introduceva lo spettatore all’esperienza attraverso una breve storia di fantascienza scritta di suo pugno (la trama ruotava intorno al viaggio di alcuni esploratori dello spazio di ritorno verso il pianeta Terra). Su tutto infine troneggiava la performance musicale della band, resa decisamente più suggestiva da tutto il contorno lisergico creato per l’occasione.
The Space Ritual Alive in Liverpool and London –questo il titolo completo del disco– è il frutto di due registrazioni effettuate rispettivamente il 22 dicembre 1972 al Liverpool Stadium e il 30 dicembre dello stesso anno alla O2 Academy Brixton di Londra, all’epoca chiamata Brixton Sundown. Il materiale registrato è vastissimo e occupa svariate ore riversate su nastro; per questo fin dall’inizio la band dovette optare per alcuni tagli, oltre ad aggiungere qualche sovraincisione in più punti per rendere la registrazione più omogenea possibile. La volontà di tutti gli artisti coinvolti nell’opera era quella di rendere il più vivida possibile l’esperienza sensoriale del live, lasciando al contempo il sound quanto più organico possibile, senza cancellare tutto ciò che concerne l’aura del concerto dal vivo ed anzi esaltandone le potenzialità. È per questo che l’album, pubblicato in origine su doppio LP l’11 maggio 1973, suona quasi ovattato, con gli strumenti ingabbiati in una sorta di bolla elastica e gommosa; e al contempo questa è la forza maggiore del disco, che offre diciassette brani totali per ben ottantasette minuti di musica. Punto focale del mix è il basso suonato da Ian “Lemmy” Kilmister, che funge da vero e proprio propulsore nella maggior parte dei brani con un suono rotondo e potentissimo, che lascia già presagire il futuro dell’allora ventisettenne bassista. Intorno al basso si ergono imponenti i sintetizzatori e i numerosissimi effetti elettronici di Michael “Dik Mik” Davies e Del Dettmar, mentre la batteria di Simon King pur essendo impetuosa non sempre viene valorizzata dal missaggio, così come la chitarra del frontman Dave Brock, lasciata sullo sfondo ed evidenziata davvero solo in rare, ma azzeccatissime occasioni. Una scelta in realtà oculata questa e che acuisce l’effetto lisergico e allucinogeno dei brani, i quali scorrono fluenti con minutaggi elevati, ma sempre godibilissimi.

Il viaggio interstellare ha inizio con uno dei momenti puramente elettronici e narrativi dell’opera, guidato dalla voce narrante di Robert Calvert: Earth Calling è l’incipit dell’avventura scritta da Bubbles, un tripudio di oscillatori e suoni di ogni genere a cui, a dispetto del titolo, non risponde alcuna voce se non sul finale, dove qualche parola modificata da un filtro robotico lascia spazio agli strumenti elettrici. Siamo al secondo brano e già ci troviamo al cospetto di uno degli episodi migliori dell’opera, quella Born to Go all’epoca inedita e che poi verrà inclusa come bonus track nelle ristampe di In Search of Space dal 1996. Dieci minuti di ostinato di basso e batteria in pieno stile motorik conducono l’ascoltatore in un’altra dimensione, mentre la chitarra si fa protagonista di lunghe fughe solistiche al profumo di wah-wah accompagnata dai macchinari analogici di Dik Mik; il ritornello è di quelli da sing-along istantaneo e introduce nella maniera perfetta i protagonisti della storia contenuta nel libretto dello spettacolo, ma è l’andamento ritmico ad essere realmente vincente nella sua purezza psichedelica, regalando il primo capolavoro del disco. Con grande maestria il brano sfuma nella rockeggiante Down Through the Night, che si apre con un riff inconfondibilmente anni ’70, soffocato poi ben presto dai sintetizzatori e dal theremin. Il ritmo si abbassa progressivamente ed emerge il flauto del fondamentale Nik Turner, protagonista a più riprese con assoli di gran gusto in più episodi in scaletta, come nella pesantissima Lord of Light, probabilmente il pezzo più violento del disco. Qui centrale è il ruolo del sax, strozzato e coperto a tratti dal basso tonante di Lemmy, ma capace di creare melodie altamente suggestive. Rimane costante la produzione ovattata a cura di Vic Maile (il quale si occupò anche della registrazione effettiva dei concerti) ed Anton Matthews – riconosciuta anni più tardi come un limite dai membri stessi della band – ma l’orecchio si abitua in fretta a questo tipo di sonorità e, come già detto, anche questo aspetto è in grado di diventare un reale punto di forza dell’opera. Sono numerosi gli intermezzi narrati affidati alla voce di Calvert, ma spiccano su tutti senza alcun dubbio The Black Corridor e Sonic Attack, il primo ispirato all’omonima saga letteraria dell’autore Michael Moorcock e il secondo composto di proprio pugno dallo stesso scrittore e posto qui verso la fine del disco. Il padre del personaggio di Elric di Melniboné nutriva da tempo ottimi rapporti con i membri del gruppo e quando il suo buon amico Robert Calvert non era disponibile per esibirsi, lo stesso Moorcock calcava il palco in compagnia degli Hawkwind in veste di gran cerimoniere. Poter ascoltare le parole dello scrittore accompagnate dalla musica della band doveva essere un’esperienza davvero al limite del metafisico.

Lo spettacolo prosegue con la nota Space is Deep, un brano placido e dall’alta carica psichedelica sul quale band come gli Acid Mothers Temple hanno costruito un’intera carriera. Otto minuti durante i quali il cervello ormai si è ridotto in poltiglia e non è difficile immaginare come dovessero trovarsi gli spettatori presenti al concerto, con le quantità abbondanti di sostanze lisergiche che circolavano negli ambienti psichedelici di questo tipo. A rincarare la dose – termine assolutamente non casuale – ci pensa poi la breve Electronic No. 1, che scioglie le ultime sinapsi rimaste attive in un calderone di scoppiettii e rigogli chiaramente elettronici. Il secondo vinile si apre con un altro pezzo forte, intitolato Orgone Accumulator: ancora un sostrato hard rock crea l’impalcatura per le svisate al sax di Nik Turner, mentre la chitarra e il synth si muovono di pari passo incalzati dal solito ritmo motorik di basso e batteria. Il riff principale cattura al primo istante con il suo andamento swing, ma è il sax trattato con tantissimo riverbero a mantenere salda la tensione psych del brano, con il basso che si alza di intensità e volume man mano che il pezzo volge al termine. Il primo, criminale, taglio che la band si trovò costretta ad effettuare è sulla meravigliosa Brainstorm, brano di apertura di Doremi Fasol Latido che durava in origine oltre tredici minuti, ma sulla prima stampa è stato ridotto a poco più di nove. Siamo qui al cospetto della massima espressione del sound degli Hawkwind, che si manifesta attraverso scorribande implacabili di jam space rock con gli strumenti costantemente all’unisono, capaci di creare cluster dissonanti e un attimo dopo climax lisergici con i quali basta un attimo per finire in trip. Il cantato è presente, ma non fondamentale, poiché il massimalismo applicato alla performance assorbe ogni cosa e la voce a questo punto risulta quasi superflua. La registrazione della prima stampa si interrompeva prima della ripresa finale, ma fortunatamente nella imperdibile versione rimasterizzata di Space Ritual pubblicata nel 2007 il brano è riportato nella sua forma completa e si può apprezzare la coda strumentale finale, con rallentamenti non lontani da certo proto-doom metal. E se l’affermazione vi sembra poco plausibile aspettate di ascoltare Time We Left This World Today e provate a negare la vicinanza ai Black Sabbath di Hand of Doom e N.I.B.. Il basso di Lemmy domina la prima sezione del brano, poi viene lasciato spazio ad un momento psych-funk e nuovamente è l’elettronica a far scomparire il resto degli strumenti in una nebbia analogica. Ormai giunti alla fine dell’esperienza trova posto il brano meno recente in scaletta, quella Master of the Universe contenuta in In Search of Space e dalle movenze più quadrate rispetto al materiale ascoltato fino a qui. Ritorna prepotentemente a ruggire la chitarra di Dave Brock, con assoli resi lancinanti dal fuzz che si stemperano in un riff feroce sul quale si appoggia il sax di Turner per un’ultima accelerazione finale. Welcome to the Future sigilla la conclusione dell’album con un altro testo recitato da Calvert, stavolta reso più greve dalla presenza degli strumenti elettrici ad inspessire le trame dei sintetizzatori. Il tempo di un ringraziamento finale e lentamente si ritorna con i piedi sulla Terra, dopo aver viaggiato per quasi un’ora e mezza tra le galassie.

Lo ripetiamo anche in chiusura: Space Ritual è un album imprescindibile nella storia del rock poiché pur appartenendo a una branca precisa del genere riesce a trascenderne i confini e a risultare totale sotto ogni punto di vista. Questo è rock inteso nella sua forma più pura e selvaggia e anche i relativi difetti che si possono sottolineare contribuiscono a rendere l’opera un capolavoro per certi aspetti ineguagliato. Il concerto è sempre stato il contesto dove la musica degli Hawkwind ha brillato più luminosamente e Space Ritual è qui per testimoniarlo e fornirne la prova più vivida possibile. Si potrà criticare la produzione, forse anche qualche lungaggine eccessiva per i meno avvezzi alla psichedelia, ma lo status di capolavoro non verrà scalfito. Nel corso degli anni l’album è stato ristampato più volte, in versioni sempre diverse, e anche se la più aggiornata dal punto di vista sonoro rimane l’edizione del 2013 pubblicata da Parlophone Records, la stampa di riferimento è certamente quella del 2007 rilasciata da EMI la quale, oltre al doppio disco –identico come remaster a quello del 2013– contiene il DVD delle esibizioni live del 1972 che sono poi finite su disco. Un documento incredibile mai più riproposto purtroppo, ma facilmente reperibile sul mercato. Sulle ristampe le versioni dei brani sono tutte estese e sono state aggiunte anche numerose take inedite riprese dagli stessi live per un minutaggio totale di centotrentatre minuti.
La stessa band provò nuovamente a lucrare sulla fortuna di questo album pubblicando dapprima Space Ritual Volume 2 nel 1985, nient’altro che una versione privata delle sovraincisioni del secondo LP del disco originale, con alcuni brani inediti; poi nel 2014 venne rilasciato un nuovo album live intitolato Space Ritual Live 2014, con la riproposizione quasi integrale dell’opera originale eseguita da una band radicalmente diversa a livello di componenti, con il solo Dave Brock al comando. Entrambi i lavori sono superflui, se paragonati al disco del 1973.
In conclusione se siete tra chi non ha mai ascoltato Space Ritual la speranza è che questa recensione vi abbia convinti a farlo al più presto e se invece conoscete già il disco questo è il momento giusto per rispolverarlo e lasciarsi andare a un sano viaggio psichedelico, che ha inizio già a partire dall’iconica copertina realizzata dal solito Barney Bubbles, con il procace seno di Stacia che invita gli astanti al godimento totale. Fidatevi di lei, sarebbe un peccato mortale non approfittarne almeno una volta e poi un’altra, un’altra e un’altra ancora.



VOTO RECENSORE
94
VOTO LETTORI
86.33 su 3 voti [ VOTA]
El Faffo
Giovedì 3 Febbraio 2022, 1.58.12
18
Il già citato "Live and Dangerous" dei Lizzy ma soprattutto: The Who - Live at Leeds
Rasta
Mercoledì 2 Febbraio 2022, 16.15.18
17
Si poi ci ripetiamo ma c'è davvero tanto. Sfogliavo ora solo che il mio itunes e ci trovo tanti gioielli di live che x la verità ci scrivo un mese tra quelli + famosi che abbiamo dimenticato e altra roba stupenda che è stata + emarginata x diversi motivi. Dicevo minchia Alive I e II e poi vedo Ummagumma I, Burstin' Out e altra roba che ormai non sto + a dire x non esagerare.... Siamo fortunati ad avere a disposizione tutta questa Musica e ad avere lo spirito giusto x poterla apprezzare. E ora mi sparo Space Ritual.
Testamatta ride
Mercoledì 2 Febbraio 2022, 14.06.04
16
Lizard: non per reclamare precedenze 😀 ma in realtà il Fillmore East della Allman Brothers Band l'avevo citato al mio commento 6. La verità poi è che probabilmente non ci sarebbe neanche bisogno di citarlo perché, altrettanto probabilmente, è il numero 1 in assoluto. 🍻
Galilee
Mercoledì 2 Febbraio 2022, 8.27.10
15
Nessuno li ha citati, ma sono I miei due live preferiti. Alive dei Kiss e Tokyo tapes degli Scorpions.
Lizard
Mercoledì 2 Febbraio 2022, 8.20.46
14
È più da forum questa serie di commenti, ma ai vostri mi permetto di aggiungere anche At Fillmore East della Allman Brothers Band, Rocking the Fillmore degli Humble Pie, il taroccato ma esaltante Unleashed in the East dei Judas, Waiting for Columbus dei Little Feat, Wheels of Fire dei Cream, Flowers of Evil del Mountain, Fandango! degli ZZ Top (per le parti dal vivo), Double Live Gonzo di Ted Nugent, Live e Caught in the Act dei Grand Funk Railroad.
VILLAGGIO PAOLO
Mercoledì 2 Febbraio 2022, 3.21.37
13
92 minuti di applausi
Testamatta ride
Martedì 1 Febbraio 2022, 21.54.20
12
Quanta roba effettivamente ragazzi! Allora cito assolutamente, anch'esso tra i super top secondo me, Irish Tour dell'immenso Rory Gallagher (oserei dire commovente per la sua bellezza), Free live dei Free, it's alive dei Ramones, The last waltz e, anche se è del 1994 e non dei '70, Pulse, assolutamente. Sottoscrivo in pieno i sotto menzionati Live and dangerous, One more for the road, Folsom prison e ogni roba dei Rush, inluso A show of hands degli anni 80. Ma ovviamente anche tutti gli altri. Potremmo non finire mai...
Rasta
Martedì 1 Febbraio 2022, 20.55.49
11
A No Fun non potevano mancare gli STOOGES. JOHNNY CASH dalla prigione unico e irripetibile. Live And Dangerous mia svista. Kick Out The Jam (1969!!!) atipico ma estremamente seminale. Non conosco i GOLDEN EARRING ma ora potrò approfondire. Così come x il live dei QMS di Testamatta che ride. A me non può mancare invece Babylon By Bus tra i doppi, Live At The Lyceum tra gli altri (si può dire "singoli"???). Mi è venuto in mente mentre tornavo a casa e ho dovuto subito correggere... Si... lo so che odi il Reggae Rob Fleming....... Alive She Cried anche è bellissimo. Abbastanza fiacco invece (x me) Love You Live degli STONES, e un po' ripetitivo Quo Live, entrambi del '77. / V
Rob Fleming
Martedì 1 Febbraio 2022, 17.17.03
10
Vabbè ragazzi, se @Fabio Rasta mi dà una palla del genere, come faccio a non segnare? Live '77 dei Golden Earring è qualcosa di superiore alla media in fatto di improvvisazione seguito a ruota da Strangers in the night degli UFO e aggiungo pure Live and Dangerous dei Thin Lizzy. La grandezza dei dischi dal vivo degli anni '70 è che non seguivano gli schemi. Avevi la canzone in studio e la canzone in formato concerto: dilatata, vitaminizzata, improvvisata. Un'epoca irripetibile anche per come era vissuto il doppio live; punto di arrivo di una fase e di nuova partenza (chi ha parlato dei Rush?).
No Fun
Martedì 1 Febbraio 2022, 17.15.38
9
Maledetto Metallized, e maledetti Black Me Out, Testamatta, Fabio Rasta etc. Messo in lista, lo prendo nei prossimi giorni. È da anni che dico che devo recuperarlo, adesso è venuto il tempo. La rece mi ha convinto. Ah, io dico At Folsom Prison, Metallic K.O. e Kick Out the Jams
Rasta
Martedì 1 Febbraio 2022, 15.41.55
8
... The Concert In Central Park...! PS ... e ovviamente non entro nel merito dei live Metal anni '80 se no diventa un delirio.
Fabio Rasta
Martedì 1 Febbraio 2022, 15.39.19
7
La recensione è talmente benfatta e curata che, pur conoscendo bene il Live in questione, mi è venuta voglia di riascoltarlo. Quindi, Alex, "Missione Compiuta". / Space Ritual è perfettamente azzeccato già a partire dal titolo. /// Quello introdotto da Testamatta ride è un argomento che mi ha sempre intrigato. Se parliamo di doppio aggiungerei almeno Absolutely Live, 4 Way Street, Mad Dog & Englishman (cronologicamente fra i primi), It's Too Late To Stop Now, One More From The Road, On Stage, Live Gonzo ma ce ne sono altri. Poi come non mettere x valore storico The Songs Remains The Same; ... Live unico (visto che No Sleep lo era...) If You Want Blood, Leeds degli WHO, On Stage degli EXPLOITED, almeno. / Daccordo sul live album dei GF, sono in tre ma sembrano in diecimila!. Pauroso! / Mi riservo di aggiungere man mano che mi vengono in mente.
Testamatta ride
Sabato 29 Gennaio 2022, 21.43.08
6
Allora, senza andare troppo per le lunghe e sperticarsi in superflui e ovvi elogi, così su due piedi penso che potremmo ritenerlo (anzi, diciamo che io lo ritengo ecco) tra i cinque sei live più belli di sempre (almeno tra quelli che ho ascoltato nella mia vita), - dove con il termine "belli" si racchiude tutto ciò che volete, ogni aspetto - insieme a, vediamo, Fillmore East della Allman Brothers Band, Live/Dead, il Live Album dei Grand Funk Railroad (probabilmente il più terremotante e sottovalutato), No sleep 'til Hammersmith, Live Killers, Happy Trails e forse Made in Japan. Fuori da ogni classifica, a livello personale, l' Umplagged degli Alice in chains. Space Ritual, come tutti i succitati viaggia (e nel suo caso viaggia davvero) tra il 9,99 periodico e il 10.
Rob Fleming
Sabato 29 Gennaio 2022, 18.39.53
5
Talmente fuori dagli schemi che non inserirono in scaletta il loro più grande successo. Bellissimo album, un vero doppio live come andava a quei (magnifici) tempi. 90
duke
Sabato 29 Gennaio 2022, 18.36.16
4
....un classico....da avere assolutamente....
Galilee
Sabato 29 Gennaio 2022, 15.01.14
3
Hola Black. La recensione non l'ho ancora letta, ero in macchina. Ho il cd da metà anni 90. Un doppio fatto a cofanetto. Cercherò l'edizione col dvd. Poi leggo anche la recensione..
Black Me Out
Sabato 29 Gennaio 2022, 14.51.48
2
@Galilee Alla tua implicita domanda ho risposto proprio in chiusura di recensione: il DVD esiste e scrivo anche dove trovarlo. Effettivamente è un ottimo completamento all'esperienza del disco e comprendo il tuo ragionamento, ma personalmente - avendo quell'edizione con il video del concerto - non lo considero necessario per certificare il valore del disco (che d'altronde all'epoca uscì senza supporto video).
Galilee
Sabato 29 Gennaio 2022, 13.39.21
1
Live indiscutibilmente ottimo. Però l'avrò ascoltato 3 volte poi mi sono rotto il cazzo. Manca la parte emotiva creata dalla scenografia non c'è nulla da fare. Ci sono parti improvvisate e un insistenza di suoni che vanno a braccetto con la parte coreografica e scenica. Ragion per cui senza quest'ultima la resa nel suo insieme ci perde molto. Sarebbe fico un dvd. Magari c'è. Rimane comunque un ottimo prodotto.
INFORMAZIONI
1973
United Artists
Psychedelic Rock
Tracklist
1. Earth Calling
2. Born to Go
3. Down Through the Night
4. The Awakening
5. Lord of Light
6. The Black Corridor
7. Space is Deep
8. Electronic No. 1
9. Orgone Accumulator
10. Upside Down
11. 10 Seconds of Forever
12. Brainstorm
13. 7 By 7
14. Sonic Attack
15. Time We Left This World Today
16. Master of the Universe
17. Welcome to the Future
Line Up
Dave Brock (Voce, Chitarra)
Nik Turner (Voce, Sassofono, Flauto)
Ian "Lemmy" Kilmister (Voce, Basso)
Michael "Dik Mik" Davies (Elettronica, Audio Generator)
Del Dettmar (Synth)
Simon King (Batteria)
Robert "Bob" Calvert (Voce, Poesie)
 
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